“Davvero gli iraniani ce l’hanno con noi occidentali o più semplicemente detestano le ingerenze straniere? È la loro storia a rispondere”.
È questo l’interrogativo con cui si apre il viaggio di Alessandro Di Battista lungo i sentieri persiani della Repubblica islamica dell’Iran.
Un interrogativo destinato a rimanere privo di risposta se non si affrontano proprio quei sentieri pieni di storia e cultura, alla scoperta di una civiltà millenaria come quella persiana.
Non è un caso dunque che il viaggio di Alessandro Di Battista si apra in pieno Khūzestān, regione al confine dell’Iraq ricca di petrolio. Sì, il petrolio, perché è quella una delle chiavi per capire l’Iran di oggi.
La nascita stessa della Repubblicana islamica dell’Iran, come ci ricorda l’ex deputato Cinque stelle, è infatti legata strettamente alle politiche energetiche. Cosa sarebbe successo – sembra chiedersi l’autore – se Mohammad Mossadeq, il primo ministro iraniano democraticamente eletto per la prima volta nel 1951, avesse continuato con le sue politiche in materia energetica, portando a termine il processo di nazionalizzazione del settore petrolifero? Il governo di Mossadeq, al contrario, venne rovesciato con un’azione orchestrata dai servizi segreti statunitensi che mal sopportavano quel tentativo di guadagnare margini di autonomia sul fronte politico ed economico. È da questa condizione di subalternità e asservimento che bisogna partire per indagare le origini e le premesse della Rivoluzione islamica del 1978.
Questo breve riferimento al passato ci consente di fornire una prima risposta all’interrogativo posto in apertura.
Il Khūzestān, innanzitutto, perché è da lì che si dipartono i sentieri persiani percorsi da Alessandro Di Battista: non solo una delle regioni più ricche di risorse energetiche (in primis di petrolio), ma anche uno dei territori più caratterizzati dal punto di vista del patrimonio culturale. Abbiamo da un lato l’oro nero e dall’altro il leggendario sistema idraulico di Shushtar, che sfruttando le acque del Karun permette l’irrigazione dei campi intorno alla città, così come il Ponte di Valeriano, fuori dal centro storico di Shushtar, costruito dai soldati romani a seguito della sconfitta nella battaglia di Edessa.
L’Iran è certo un paese unico, dove la memoria del passato avvolge il tempo presente come una lunga eco che non smette di risuonare. In particolare, la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, foraggiato dagli Stati Uniti d’America nel tentativo (fallito) di rovesciare il processo rivoluzionario guidato da Ruhollah Khomeyni, ha lasciato le tracce più profonde a livello di immaginario collettivo.
Il ricordo di quei giorni di resistenza viene commemorato di continuo a Behesht-e Zahra, il cimitero di Teheran, che rappresenta il luogo simbolo della riscossa dell’Iran, dalla guerra contro Saddam del 1980 fino alla resistenza contro l’avanzata dell’Isis.
Sì, perché non solo l’Iran è un paese che si è sempre dovuto difendere dalle aggressioni straniere, ma è anche il paese che ha combattuto e combatte il vero nemico dell’Occidente, quello Stato Islamico capace di portare morte anche nel cuore dell’Europa.
E allora no, gli iraniani ‘non ce l’hanno con noi occidentali’, rivendicano semplicemente con orgoglio la loro specificità e sono fieri della loro indipendenza. Ma l’Iran è anche un paese giovane e aperto: l’accoglienza, l’ospitalità e la curiosità verso l’altro sono uno dei tratti che più caratterizzano il popolo iraniano; d’altronde una cultura consapevole di sé stessa, della sua storia, come quella persiana, non ha alcuna necessità di porsi in termini di avversione e sospetto nei riguardi di una cultura altra.
E allora perché, nonostante tutto questo, il popolo iraniano deve scontare questa condizione di isolamento e sottostare ad una propaganda occidentale che tutto semplifica e deforma?
Quel che è certo è che questa situazione di separatezza penalizza anche noi occidentali perché ci limita fortemente qualora decidessimo di ammirare dal vivo i tesori custoditi in terra di Persia. Bastano qui alcuni riferimenti: Arg-e Bam (patrimonio dell’UNESCO), la città de Il deserto dei tartari di Zurlini e de Il fiore delle Mille e una notte di Pasolini, un posto di grande fascino che ospita insediamenti achemenidi risalenti al VI a.C. e magnifici edifici d’epoca sasanide; Pasargade, prima capitale achemenide, luogo di sepoltura del leggendario Ciro il grande; infine Shiraz, capitale della letteratura, del commercio e del buon vino.
Certo, l’Iran non è il paese dei sogni, anzi, e questo lo sa bene Alessandro Di Battista, che nel suo documentario non nasconde i limiti e le contraddizioni di un sistema politico-istituzionale ingessato, che troppo poco concede in tema di diritti e di libertà civili e politiche. E questo lo si evince già ad inizio riprese: il primo impatto con l’Iran avviene infatti nel bel mezzo delle commemorazioni per la morte del generale Qasem Soleimani, dove il malessere serpeggiante verso il sistema di potere dell’ayatollah si mescola ad un sentimento di commossa devozione nei confronti dell’uomo simbolo di quel regime.
Soleimani, barbaramente e vigliaccamente ucciso da un drone statunitense in Iraq, era nei fatti il numero due della Repubblica islamica. Ma Solemani, prima di essere il generale della Repubblica islamica, era il generale del popolo persiano, colui che incarnava l’unità e la spinta di riscatto di un popolo ferito e offeso da decenni di accerchiamento.
Quello che si percepisce chiaramente dal viaggio di Alessandro Di Battista è proprio un senso diffuso di comunità e partecipazione, che è alla base di un paese fiero e orgoglioso, legato alle proprie radici e con un forte sentimento di appartenenza nazionale, come raccontano le bellissime immagini girate nel sacro santuario di Mashhad, nel nord-est dell’Iran.
Mashhad è un luogo dove memoria storica, arte (vi troviamo il giardino dell’ottavo Imām sciita ʿAlī Reżā, ma anche dodici magnifici minareti e un’esposizione di arti grafiche che vanno dalla calligrafia a piastrelle e mosaici, passando per stucchi, legno, vetro e metallo) e spirito di aggregazione si incrociano alla perfezione.
Il sacro santuario rappresenta infatti un ambiente dove sacro e socialità intergenerazionale si compenetrano e confondono, anche se l’intreccio fra dimensione spirituale, inclinazione alla convivenza sociale e spirito comunitario non è esclusiva di quel luogo perché rappresenta la specificità di un determinato modello di vita e di relazioni sociali, dove l’equilibrio fra individuo e comunità si pone in maniera diversa che in Occidente. Questo non significa che non vi siano spazi e momenti di approfondimento della libertà soggettiva, prova ne siano le grandi opere di letteratura e cinema sospese fra lirismo metafisico e una limpida estetica dell’interiorità (qui il riferimento è soprattutto ai film di Mohsen Makhmalbaf e Abbas Kiarostami).
Concludendo, I tre episodi dei Sentieri Persiani percorsi da Alessandro Di Battista rappresentano un tentativo riuscito, anche perché in presa diretta e senza filtri, di restituire la complessità e il fascino di un paese di cui si parla solo per non dire nulla o per dirne in maniera schematica e superficiale, come vuole la peggiore propaganda occidentale.
Possiamo però trarre da questo documentario una lezione ulteriore, perché l’approccio che ha guidato l’autore è quello di chi guarda con favore ad un modello di relazioni internazionali a carattere policentrico e multipolare. Fra l’omologazione indifferenziata e le identità rigide, esclusive e conflittuali andrebbe coltivato – sembra suggerire il documentario – lo spazio per un pensiero della ‘diversità umana’ che guardi alle differenze umane non come ad alterità da combattere, ma come a “differenziazioni evolutive che confermano la multilateralità e l’apertura al mondo quali caratteristiche della specie umana, contrastando le mai dismesse volontà egemoniche dell’Occidente. E questo esigerebbe non solo il riconoscimento della legittima diversità dei sistemi etici e giuridici espressi da tradizioni culturali diverse, ma anche l’attribuzione a ogni entità nazionale di un’eguale dignità e autonomia sul piano internazionale.” (D. ZOLO, Cosmopolis, Feltrinelli, 1995, p.181.)
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