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Potere del mercato e sovranità popolare


22 Set , 2020|
| Visioni

Nei 139 articoli che compongono la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 mercato, concorrenza e impresa non sono mai menzionati. Il dato non è casuale: nella polemica contro il capitalismo, i Costituenti non hanno alcuna intenzione di dotare di rilevanza costituzionale quelle istituzioni fondamentali per il funzionamento dell’economia borghese. L’esigenza della dignità umana, la centralità del lavoro come elemento fondante la società, portano alla negazione della società di mercato, la qualeper Polanyi

fu realizzata includendo i fattori della produzione, il lavoro e la terra, all’interno [del sistema di mercato]. Il lavoro e la terra furono essi stessi trasformati in merci, cioè vennero regolati come se si trattasse di beni prodotti per la vendita. Ovviamente essi non costituivano vere e proprie merci, dal momento che o non erano stati affatto «prodotti» (come la terra), o, comunque, non lo erano «per la vendita» (come il lavoro). La reale entità di un siffatto mutamento può essere misurata se si ricorda che il «lavoro» è soltanto un altro nome per l’uomo, come la «terra» lo è per la natura. La costruzione fittizia della merce consegnò il destino dell’uomo e della natura alle dinamiche di un automa, che si muove sui propri binari ed è governato unicamente dalle proprie leggi. L’economia di mercato creò così un nuovo tipo di società. Il sistema economico o produttivo fu affidato a un dispositivo autoregolantesi. Un meccanismo istituzionale controllava tanto le risorse della natura quanto gli esseri umani nelle loro attività quotidiane.[i]

La riduzione del lavoro a merce comporta la reificazione dell’uomo, ridotto a strumento della produzione e continuamente alienato dalla sua condizione di cosa. In questo contesto, la concorrenza si applica senza remore all’ambito dell’occupazione, trasformando il salario nel prezzo determinato dal mercato della forza-lavoro: le conseguenze sociali del degrado operaio non rivestono alcuna importanza. A livello di impresa, la lotta per il profitto realizza uno scenario di tensione continua, i cui effetti si riflettono su tutti gli ambiti della società. La società di mercato non può essere né armonica né umana:

imprenditore contro imprenditore, settore economico contro settore economico, gli imprenditori di uno stato contro quelli di un altro, quelli di un gruppo etnico contro quelli di un altro; la lotta è stata continua per definizione. E questa lotta continua ha preso costantemente una forma politica, esattamente a causa del ruolo centrale degli stati nell’accumulazione di capitale […] nel capitalismo storico gli accumulatori non avevano oggetto che si collocasse più in alto dell’ulteriore accumulazione, e le forze-lavoro non potevano avere per conseguenza oggetto che si collocasse più in alto della propria sopravvivenza e della riduzione del peso da sopportare.[ii]

Del resto, l’esperienza storica ha dimostrato ampiamente che nei fatti la concorrenza non tuteli affatto il “libero” mercato: la tendenza del capitalismo a costruire oligopoli e monopoli, realizzare cartelli tra imprese, determinare prezzi di convenienza attraverso lo sfruttamento della propria posizione dominante, risulta un dato di fatto incontrovertibile, il cui riflesso politico comporta un vulnus esiziale per il regime democratico. Il dominio economico non tarda infatti a trasferirsi sul piano del controllo delle istituzioni: la lezione storica del fascismo ha mostrato chiaramente fino a che punto può arrivare il grande capitale nella conservazione della propria posizione di rendita. Nella Costituzione antifascista non può perciò trovare spazio e legittimità quel tipo di struttura economica che ha prodotto il ventennio mussoliniano e condotto il paese allo sfascio della guerra.

In un regime di pura libertà economica è inevitabile che masse ingenti di donne e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza. Questa infatti è una delle condizioni perché tutto il sistema economico capitalistico possa funzionare ed è conseguenza di uno sviluppo che inesorabilmente tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato aumenta il numero dei diseredati […] L’esperienza di tutti i paesi di capitalismo altamente sviluppato mostra infatti come per lo sviluppo stesso delle leggi interne della economia capitalistica la libera concorrenza genera il monopolio, cioè genera la fine della libertà. Si creano così ancora più rapidamente le condizioni sopra indicate, in cui la proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza tende a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per istaurare e mantenere le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione. È per questo che in tutti i paesi capitalistici dove le classi lavoratrici sono oggi in grado di far sentire la loro voce e di svolgere un’azione efficace sul terreno politico, esse chiedono che le concezioni utopistiche del vecchio liberalismo (e utopistiche le chiamo in quanto non hanno più nessuna corrispondenza con la realtà) siano abbandonate, e venga dato corso a un’opera ampia e radicale di riforma della struttura economica della società.[iii]

Le limitazioni al diritto di proprietà e all’iniziativa privata introducono novità decisive nella dinamica imprenditoriale e nella funzione stessa dell’imprenditore. L’iniziativa privata, e quindi la libertà d’impresa, è garantita qualora non sia in contrasto “con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ferma restando la possibilità da parte dello Stato di indirizzare l’attività economica “a fini sociali” attraverso “i programmi e i controlli opportuni” secondo la lettera dell’art. 41. L’ideale dell’impresa artigiana- in cui capitale e lavoro sono uniti- associata in cooperative e immune dalle derive degradanti della grande industria è il riferimento su cui gli esponenti cattolici e le forze operaie convergono:

[in Costituzione] trionfa il mito del piccolo produttore autonomo, che si autoregola piuttosto attraverso la comunità dei produttori associati che non sul mercato; in un clima nel quale fra efficienza e giustizia sociale il privilegio va, almeno come simpatia sentimentale, alla giustizia sociale. Non a caso non si parla mai di «anti trust», lasciando al solo codice civile la tutela della concorrenza, nella ovvia presunzione che essa corrisponda ad interessi privati, non pubblici. Non a caso il monopolio non è visto come un male in sé, ma come un male solo in quanto privato, giacché, ove esso vi sia, l’unico rimedio che la Costituzione prevede è quello di renderlo pubblico.[iv]

Alla difesa del mercato, la tutela della concorrenza e della libertà d’impresa, la Repubblica preferisce l’esigenza di valorizzare il lavoro, realizzare l’eguaglianza sostanziale e permettere il pieno dispiegamento della libertà individuale attraverso la partecipazione e il diritto al lavoro. La Costituzione segna così la fine della società di mercato, poiché

[il sistema] non comprenderà più lavoro, capitale e moneta. Togliere il lavoro dal mercato rappresenta una trasformazione radicale […] la natura della proprietà subisce un profondo cambiamento poiché non v’è più alcuna necessità di permettere ai redditi derivanti dal titolo di proprietà di crescere illimitatamente.[v]

Lo scambio di prodotti e servizi continua, ma il cambiamento cruciale attiene al controllo pubblico degli elementi fondamentali della produzione, la quale si pone nel modello costituente come elemento intermedio nella triade programmazione-produzione-distribuzione. L’architrave resta sempre l’art. 3 comma 2, con il mandato imperativo della rimozione degli ostacoli di ordine economico: l’impresa privata si pone in questo contesto come “fonte di energia e molla di progresso”[vi], subordinata però alle esigenze superiori della società e ai limiti che questa pone a tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

Il diritto all’impresa incontra un limite invalicabile nella funzione di utilità generale che anche la gestione individuale è tenuta ad attuare. Se è vero, come la stessa relazione Pesenti riconosce, che la produzione serve all’uomo e non l’uomo alla produzione, ne deriva sì la legittima pretesa dell’uomo di gestire la produzione, ma a patto che ciò risponda ad un tempo al benessere sociale, senza ledere il diritto naturale di altri uomini, utenti o lavoratori, la cui sicurezza libertà e dignità va costituzionalmente garantita.[vii]

Chiarito il ruolo e i limiti dell’impresa privata, conclamata l’assenza per precisa volontà di una “cultura del mercato”[viii] cui segue la riduzione dello stesso- in senso non concorrenziale– a mero strumento ausiliario dell’allocazione ottimale delle risorse, si perviene alla definizione delle caratteristiche fondanti quella che è stata da più parti definita la “costituzione economica”[ix]: un modello di economia mista, fondato sulla compresenza del privato e del pubblico, in cui le finalità sociali valgono a un tempo come meta e vincolo all’azione quotidiana degli agenti economici. Lo Stato non è più lo statico garante dei rapporti di produzione e di proprietà, secondo il modello liberale, bensì è il motore della nuova dinamica interventista e redistributiva che nega decisamente la vecchia scienza economica dell’Ottocento. La Repubblica si impegna a vigilare sul rispetto dei valori costituzionali e, insieme, a coordinare il movimento generale della produzione e dello scambio verso gli obiettivi indicati dal testo secondo il combinato disposto degli articoli 3 e 4: assicurare la piena realizzazione della persona umana e la sua partecipazione alla vita democratica attraverso il diritto al lavoro. Si assiste così alla subordinazione definitiva della sfera economica a quella politico-sociale, tentando di ricomporre quell’unità sociale, distrutta dalla mercificazione della società di mercato, nel quadro di una democrazia pluriclasse fondata sul lavoro. Come poteva commentare Lelio Basso evidenziando il valore strumentale dell’economia nei confronti dei diritti fondamentali,

la Costituzione non deve soltanto conservare e garantire un ordine in cui si muovano liberamente gli interessi privati, ma deve fornire allo Stato gli strumenti e gli scopi per muoversi in una determinata direzione, che, nel caso specifico della nostra Costituzione, è una profonda trasformazione della struttura del nostro paese. Assegnando alla Repubblica, cioè allo Stato-apparato, strumento esecutore della volontà sovrana del popolo, il compito di rimuovere i denunciati ostacoli di natura economica e sociale, il costituente ha pronunciato una condanna del presente e indicato con chiarezza i doveri per l’avvenire: non ubbidire a questi doveri significa porsi contro la Costituzione e contro lo sviluppo democratico del nostro Paese.[x]

La democrazia italiana, secondo il significato profondo individuato dai Costituenti, vive perciò se permane uno stato costante di tensione polemica: negazione delle assurde ingiustizie del presente capitalistico, naturalmente, a cui occorre accompagnare uno slancio popolare verso “i doveri per l’avvenire”. In questo senso, appare evidente come la mefitica marea liberale possa essere combattuta e vinta soltanto attraverso il recupero della Costituzione del 1948, la quale, come s’è tentato qui di evidenziare, non ha mai accettato le logiche della cd. democrazia liberale, negando anzi ogni legittimità alle istituzioni dell’economia politica borghese se non entro i canoni generali dell’interesse pubblico. Se per Marx “è compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di ristabilire la verità dell’al di qua”, missione primaria delle forze socialiste attuali attiene al recupero della stagione costituente, al fine di “ristabilire” quel tanto di verità storica oggettivamente riscontrabile ed evitare che l’ideologia oggi dominante mistifichi l’elaborazione del Quarantotto. Così facendo, infatti, si può riconquistare la valenza politica della Costituzione, il suo contenuto “lavoristico” e l’essenza sociale dell’articolato per ribadire ancora una volta l’aspirazione, allora solennemente sancita nel Testo e oggi qui rivendicata con forza, del pieno sviluppo dell’individuo in quanto lavoratore, per una società di uomini liberi e finalmente padroni della propria vita, perché “la critica non ha strappato i fiori immaginari dalla catena affinché l’uomo continui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo.”[xi]


[i] K. Polanyi, Per un nuovo occidente, Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 13.

[ii] I.Wallerstein, Il capitalismo storico, op. cit., p. 49- 51.

[iii] Commissione per la Costituzione- I Sottocommissione, Relazione del Deputato P. Togliatti, I principi dei rapporti sociali (economici), Atti dell’Assemblea Costituente, op. cit., p. 64 e ss.

[iv] G. Amato, Il mercato nella Costituzione, Quaderni Costituzionali, n.1, 1992, p. 7 ss.

[v] K. Polanyi, La grande trasformazione, op. cit., p. 314. Anche Polanyi individua nella fine del potere dei rentier una caratteristica cruciale del nuovo modello economico fondato sull’intervento pubblico.

[vi] Commissione per la Costituzione- III Sottocommissione, Relazione del Deputato F. Dominedò, L’ordinamento dell’impresa, Atti dell’Assemblea Costituente, op. cit., p. 124 e ss.

[vii] ibidem

[viii] G. Amato, Il mercato nella Costituzione, op. cit., p. 12.

[ix] G. Bognetti, La Costituzione economica italiana, Giuffrè, Milano, 1995.

[x] Lelio Basso, Il principe senza scettro, op. cit., p. 89.

[xi] K. Marx, Annali franco-tedeschi, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pag. 126.

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