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Il paradigma neoclassico e le risposte del costituzionalismo democratico-sociale (1/2)


23 Set , 2020| e
| Visioni

Questa è la storia di idee semplici con percorsi complessi. In particolare, si vuole qui riesumare le problematiche e le contraddizioni storiche e pratiche che una certa macroarea culturale, quella neoclassica-liberale, ha gettato o tentato di gettare in un colpevole oblio tramite un lavoro prettamente teorico, concettuale. Il nostro tempo e le lezioni del passato ci richiamano ad una liberazione culturale che consista nell’individuare il problema laddove viene indicata la soluzione, la contraddittorietà laddove viene indicata la linearità, il conflitto laddove viene indicata la pacificazione.

Come accennato, obiettivo polemico del presente scritto è il pensiero neoclassico, in particolare i suoi più fondamentali, sotterranei presupposti, quei concetti generalissimi che non appartengono in senso stretto alla disciplina di cui sono fondamento, in quanto ne sono, piuttosto, la condizione di esistenza. Ernesto Screpanti e Stefano Zamagni forniscono, nel loro “Profilo di storia del pensiero economico”, una brillante esposizione dei suddetti presupposti: “Una quarta caratteristica distintiva dell’approccio neoclassico riguarda i soggetti economici. Se devono essere soggetti capaci di effettuare scelte razionali in vista della massimizzazione di un obiettivo individuale, quale l’utilità o il profitto, devono essere degli individui [corsivo nostro] […] Così scompaiono dalla scena i soggetti collettivi, le classi sociali, i corpi “politici”, che invece i mercantilisti, i fisiocratici, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi teorici. È con il pensiero neoclassico che il principio dell’individualismo metodologico entrerà definitivamente nella scienza economica […] Ma insieme a questo principio si tende spesso a farne passare un altro che è un po’ meno innocente, quello di individualismo ontologico: solo gli individui sono soggetti delle azioni economiche”. A questo principio di nostro interesse si affianca e si lega, inevitabilmente, un altro: il “definitivo raggiungimento di un obiettivo cui alcuni classici avevano aspirato […] l’astoricità delle leggi economiche. […] Ma perché ciò abbia senso è necessario espungere dal dominio di studio dell’economia le relazioni sociali. […] Mentre nei classici e in Marx l’apparato analitico è costruito con esplicito riferimento al sistema capitalistico, […] il paradigma neoclassico aspira a una completa astoricità.”[1]. Tirando le fila del discorso neoclassico, emerge la nozione, metodologica ma ricca di contenuto, della contrattazione pura, dell’incontro fra contraenti liberi e uguali (perché avulsi dalla propria condizione storica e sociale) guidati solo dalla propria volontà pura (anche la disoccupazione, nel pensiero neoclassico, è una condizione fondamentalmente volontaria). Espunta la collocazione storico-sociale, viene di fatto eliminato ogni rapporto di potere, ossia ogni squilibrio contrattuale. Questi concetti non sono isolati l’uno dall’altro: possiamo descrivere una sequenza ben precisa: l’astoricità spoglia gli individui di ogni collocazione sociale, perché i rapporti di forza sociali sono, come vedremo, un prodotto storico; l’assenza di parti sociali, con annessi rapporti di forza, garantisce la libertà degli individui; la libertà degli individui garantisce la volontarietà di ogni contratto; la volontarietà è il perno che garantisce la fine di ogni contraddizione, la de-problematizzazione di ogni rapporto sociale. In realtà, i neoclassici (ci riferiamo soprattutto a Walras) non sono i “fondatori” dell’approccio ingenuamente volontarista all’analisi sociale. Locke, capostipite del liberalismo classico, svolge la sua analisi del rapporto master-servant in termini perfettamente coerenti con quanto ora detto per il paradigma neoclassico. Nel paragrafo 85 del Secondo Trattato sul Governo non solo “legittima” la figura del dipendente salariato, ma lo fa in un modo ben preciso, per cui “la relazione contrattuale appare tutt’altro che fondata su un’ineguaglianza politica o naturale. Il salariato compare sulla scena come “libero” che si fa “servo di un altro” […] attraverso il rapporto salariale il lavoro altrui viene incluso nel lavoro del proprietario, ovvero in una nomenclatura proprietaria (par.28) e la relazione contrattuale di scambio tra liberi proprietari scioglie nel consenso [corsivo nostro] l’asimmetria della relazione materiale di potere”[2]

La decostruzione del paradigma neoclassico consiste semplicemente in una progressiva poblematizzazione dei suoi assunti, una problematizzazione che non può essere indifferente alla sequenza che abbiamo delineato poc’anzi. È opportuno dunque incominciare col chiedersi “da dove vengano fuori” il master e il servant di Locke. Si tratta qui di fare quell’ “esplicito riferimento al sistema capitalistico”, in particolare nella sua genesi storica, di cui parlava Zamagni e che i neoclassici hanno provato ad evitare. Ancora più nel particolare, si tratta di (ri)mettere in luce il processo che ha portato alla nascita del proletariato, inteso scientificamente come classe di non possidenti. Già solo parlare della genesi storica di una classe simile significa evidenziare come la condizione di non possidenti non sia naturale ma sia, piuttosto, un prodotto storico, condizione necessaria allo sviluppo del capitalismo: “l’accumulazione fu l’elemento che rese possibile il capitalismo […] [ma] perché funzioni, il capitalismo ha bisogno di qualcos’altro: ha bisogno di lavoratori. I capitalisti in erba non vano molto lontano se non ci sono persone disposte a lavorare per loro in cambio di un salario. Oggi questa è una cosa che diamo per scontata, ma c’è stato un tempo, non molto lontano, in cui la faccenda non era così semplice. Nel Medioevo, la stragrande maggioranza delle persone […] non desiderava lavorare in cambio di un salario”[3]. Ci troviamo, ovviamente, davanti all’accumulazione primitiva marxiana, che Marx definì “il processo storico di separazione dei produttori dai mezzi di produzione”[4]. Questo fenomeno è brillantemente descritto da Maurice Dobb nel suo “Problemi di storia del capitalismo”, nel quale raccoglie, oltre a variegati casi particolari, eloquenti opinioni a proposito dell’espropriazione della terra, o più generalmente a proposito dei vincoli che legavano la terra al produttore-contadino: “il buon prezzo della terra è la causa della scarsità di lavoratori salariati […] Dove la terra è molto a buon mercato e tutti sono liberi, dove chiunque lo desideri può ottenere un appezzamento di terra, non solo il lavoro è molto caro, ma è difficile ottenere lavoro combinato a qualunque prezzo”[5] .La teoria è chiara, gli atti sono noti: le classi dominanti (in Inghilterra ma anche altrove, in madrepatria e nelle colonie) iniziarono a “privatizzare le terre comuni su cui la gente faceva affidamento per sopravvivere, negando il diritto di accesso e recintando i terreni per sfruttarli commercialmente”[6] . Ancora più noti sono i risultati: solo tra il 1760 e il 1870, dunque già in epoca molto successiva all’inizio del movimento delle enclosures, 2,8 milioni di ettari furono recintati attraverso leggi[7]. Cosa più importante, già nel XVII secolo la grandezza del proletariato rurale inglese è aumentata fino al rapporto di 1,74 a 1 rispetto ai liberi proprietari contadini e agli affittuari[8]: nasceva la classe lavoratrice. Si trattava, certo, di un processo sfumato e lungo, tanto che, almeno in Europa, per un ampio periodo di questo lungo processo non possiamo parlare di un proletariato rurale completamente privo di terra quanto di un “semiproletariato di contadini poveri, le cui parcelle erano insufficienti al sostentamento familiare, e che lavorano per i più ricchi”[9]; tuttavia, il fil rouge è chiaro: la proprietà dei mezzi di produzione, a partire dalla terra, determinava la realizzazione di un nuovo legame di stretta dipendenza tra master e servant.

Il progressivo cambiamento di paradigma economico-sociale non passò inosservato nella società tardomedievale. La posizione del servant, nella quale proviamo a condensare la nascente galassia di lavoratori dipendenti, poneva delle questioni filosofiche di ogni tipo, spesso legate al problema della partecipazione politica di “braccia vendute”, di soggetti la cui effettiva autonomia era considerata quantomeno mutila. In ogni caso, è solo dopo una maggiore diffusione del rapporto di produzione capitalistico, l’alba dell’industrializzazione, la grande tradizione del pensiero illuministico, insomma dopo l’effettivo esordio della modernità, che la filosofia inizia a pensare alle masse, e dunque a porsi i problemi concreti delle stesse. In particolare, nostro interesse è individuare la problematizzazione del punto cruciale del nostro testo: la questione del contratto e del rapporto tra i contraenti. L’emergere di questa problematizzazione è un processo sviluppatosi perlopiù nel sottosuolo filosofico come logica conseguenza di una generale ri-tematizzazione del modo della filosofia post-illuminista di guardare alla società, e dunque alla storia, e dunque all’uomo. Si tratta del percorso compiuto dal pensiero socialista, moderno, che trova nel marxismo il proprio vertice teorico e che nella sua essenza è, come scrive Engels, il “diretto prodotto del riconoscimento […] dell’antagonismo di classe presente nella società odierna, tra proprietari e non proprietari, tra capitalisti e lavoratori salariati”[10]. Engels si riferisce, nel suo scritto, a Saint Simon, a Fourier e a Owen, e tuttavia possiamo di certo contare anche Proudhon. Tutti questi autori trattano problemi legati ai bisogni concreti degli individui, e tuttavia non riescono ancora a concettualizzare in maniera rigorosa, scientifica, la partizione sociale che la modernità stava consegnando all’umanità. Saint Simon, ad esempio, conferisce nella sua visione utopica un ruolo di spicco ai proprietari, collocando la conflittualità in un generico discrimine tra “inattivi” e “attivi”. Probabilmente, uno dei punti più alti è raggiunto da Proudhon, il quale non solo riconosce l’importanza cruciale della proprietà ma la colloca nel problema dello squilibrio contrattuale. Sebbene il suo interesse sia rivolto principalmente ad “attrezzare” i cittadini a resistere agli abusi dello Stato, di fatto Proudhon estrae la questione dell’uguaglianza dal significato astratto, ontologico-giuridico, nel quale l’aveva collocata l’Illuminismo, per intenderla invece come principio regolatore, come obiettivo da raggiungere in una società disuguale. La distribuzione, il livellamento della proprietà (e dunque l’abolizione del proletariato) è, per Proudhon, una questione di libertà, sia verso lo Stato che verso i grandi proprietari. Il pensiero socialista consegna a Marx una nuova problematizzazione della libertà, più avanzata rispetto alla nozione illuminista-liberale (e neoclassica), che Marx fa brillantemente propria, come dimostra nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, dove scrive: “come i cristiani sono eguali in cielo e ineguali in terra, così i singoli membri del popolo sono eguali nel cielo del loro mondo politico e ineguali nell’esistenza terrestre della società. La trasformazione propriamente detta delle classi politiche in civili accadde nella monarchia assoluta […] Soltanto la Rivoluzione Francese condusse a termine la trasformazione delle classi politiche in sociali, ovvero fece delle differenze di classe della società civile soltanto delle differenze sociali, delle differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica.”[11]. Con Marx, e dunque con l’aggiunta di una partizione scientifica della società e di una ricca filosofia della storia, di cui abbiamo visto i frutti nelle ricerche di Dobb, potremmo dire che l’ingenuità volontarista è completamente rovesciata. A dimostrarcelo basti un passo di “Per la critica dell’economia politica”: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. […] Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”[12]. Marx consegna ai pensatori politici del Novecento, marxisti e non, una piena problematizzazione della questione contrattuale, che è logica conseguenza del rovesciamento del paradigma astratto illuminista-liberale, in aperta opposizione alla strada che prenderanno i neoclassici. A differenza di come si potrebbe pensare, la direzione politica dell’Europa novecentesca ha assorbito pienamente il lascito di questo lungo percorso, ponendosi la domanda della parificazione contrattuale, che è la domanda sul raggiungimento dell’uguaglianza e della libertà. Le risposte sono state varie, e spesso non hanno coinciso con il programma marxiano di abolizione della proprietà privata.


[1] Ernesto Screpanti, Stefano Zamagni, “Profilo di storia del pensiero economico. Dalle origini a Keynes”, Carocci, Roma, 2017

[2] Maurizio Merlo, “Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke”, in “Il Potere” a cura di Giuseppe Duso. Carocci, Roma, 2015

[3] Jason Hickel, “The Divide”, il Saggiatore, 2017, Milano

[4] K. Marx, “Il Capitale”, Libro I, Curcio Editore, Roma, 1949

[5] G. Wakefield, “A view of the art of colonization”, tramite M. Dobb, “Problemi di storia del capitalismo”, Editori Riuniti, Roma, 1982

[6] Jason Hickel, “The Divide”

[7] Fairlie, Simon, (2009), The Land: Issue 7, “A Short History of Enclosure in Britain,”

[8] M. Dobb, “Probemi di storia del capitalismo”

[9] Ibidem

[10] F. Engels, “Socialismo Utopistico e socialismo scientifico”, Project Gutenberg, 2012

[11] K. Marx, “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, Editori Riuniti, Milano, 2016

[12] K. Marx, “Per la critica dell’economia politica”

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