Qualche giorno fa Nello Preterossi ci ha invitato a non sottovalutare la dimensione nazionale, cioè statuale, nella quale continuiamo a vivere e dalla quale continuiamo a dipendere, anche se in misura progressivamente minore rispetto a un passato non molto lontano: dietro vi è tutta la perplessità, che condivido, sugli effettivi vantaggi che ci sarebbero derivati dal cosiddetto vincolo esterno impostoci dall’UE e, nei fatti, soprattutto dalla Germania.
Da noi, per varie ragioni di ordine anche storico, è comune sottovalutare la dimensione nazional-statuale. Ma negli altri paesi europei questo atteggiamento non sembra così diffuso e la dimensione UE è spesso avvertita come uno spazio dove ottenere vantaggi reali o presunti; oppure dove far valere la propria forza o, anche, la propria supremazia sugli altri Stati.
L’Italia tende a praticare la prima alternativa proprio perché la sua dimensione nazional-statuale è labile: in sintesi potremmo anche dire che da noi si fa più fatica che in altri Paesi a percepire la presenza di un popolo perché il sentimento patrio è debole e altrettanto è il vincolo comune, in luogo del quale si tendono a privilegiare, anche da parte dei dirigenti politici, gli interessi particolari.
Può aiutarci nella lettura di questa realtà l’analisi tocquevilliana della categoria patria: un’analisi che egli introduce come se si trattasse di una legge scientifica dell’evoluzione socio-politica. Precisamente, ne La democrazia in America, Tocqueville enuncia tre possibili mutazioni progressive dell’idea di patria presso i cittadini. Al primo, primordiale, livello la patria si identifica con la terra dei padri, la terra in cui si è nati e cresciuti: la si ama spontaneamente, naturalmente, disinteressatamente. Ma nella modernità, nelle società industriali, la situazione si complica: il calcolo economico diviene sempre più importante e diffuso presso i singoli; e l’abilità e lo spirito pubblico dei governanti devono convincere i cittadini che gli interessi particolari possono realizzarsi solo insieme all’interesse generale, da riconoscere come primario. Nel terzo livello il sentimento patrio è assente o vituperato, le istituzioni pubbliche sono screditate, la corruzione è eccessiva, gli interessi particolari sono prevalenti sull’interesse comune.
A che livello si colloca oggi l’Italia? Forse al terzo o là intorno. Però la Costituzione del ’48 relaziona – all’art. 52 – i cittadini alla Patria (con la maiuscola e intesa piuttosto come territorio) e caratterizza questa relazione con la cifra della sacralità; mentre all’art. 59, quando disciplina la nomina dei senatori a vita, stabilisce che si deve trattare di cittadini «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti». Sicché è da dire che, per la nostra Carta, la patria esiste, è sacra, deve essere difesa dai suoi cittadini i quali sono tutti impegnati a farla progredire. Ma allora come si spiega questo scarto tra dettato costituzionale e realtà?
Quando Tocqueville descrive, al terzo livello dell’evoluzione tracciata, la morte della patria, individua, tra le cause, il venir meno della tradizione, cioè la perdita della memoria. L’Italia, che è poco patriottica e ha poco spirito pubblico, è anche un paese che sembra avere poca memoria perché vuole avere una memoria breve, cioè temporalmente limitata. Per di più questa memoria così contenuta non è nemmeno condivisa, ma divisiva. Eppure la storia dell’Italia è unica al mondo e dovrebbe renderci tutti orgogliosi. Certo la scuola ha le sue (gravi) colpe perché da tempo non coltiva a sufficienza la conoscenza del nostro passato presso le nuove generazioni: non mi riferisco tanto o solo a Roma antica, ma al Rinascimento e alla stessa modernità italiana. Con la fine della seconda guerra mondiale vi è stata una specie di resettaggio e si è ritenuto di considerare soprattutto le tragedie delle dittature, il conflitto, la Resistenza.
Nell’assenza di una memoria, diciamo, estesa si capisce che si sia finito con l’accollare alla Costituzione una valenza simbolica forse eccessiva, quasi essa fosse il tutto o quasi della Repubblica italiana, se non proprio dell’Italia. Si è però omesso, anche in questo contesto temporalmente limitato, di dare rilevanza a quel che obiettivamente più rileva: la radice, il prius dell’Italia contemporanea, è proprio la Repubblica, non la Costituzione, che la riconosce come fatto compiuto e, in effetti, consumato con il referendum del 2 giugno 1946. Insomma, Patria e Repubblica più che Patria e Costituzione sembra essere la diade fondante: se questo è il fatto, la Costituzione non solo lo riconosce, ma anche lo formalizza dichiarando (congruamente) che «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1).
Una dichiarazione programmatica, anzi dovuta. Ma a questa dichiarazione hanno fatto seguito una normatività e una fattualità normativa congrue? La res publica appartiene ai suoi cittadini. Ma questo tratto repubblicano identitario è stato sempre onorato, specie dai dirigenti politici che debbano assumere una decisione? Nel terzo livello Tocqueville immagina dei cittadini che non trovano più la patria, tra l’altro, «nelle leggi, che non sono fatte da loro, e neppure nel legislatore, che temono e disprezzano». Per provare a risalire, conclude Tocqueville, vi è solo da mettere in campo tutti quei dispositivi idonei alla chiamata – o all’incremento – della partecipazione dei cittadini all’azione di governo; ma anche qui è da capire come siamo messi in Italia.
Molto recentemente padre Alex Zanotelli – uno che non si dovrebbe censire come ‘populista’ – ha accusato la politica italiana di essere prigioniera dei poteri economico-finanziari perché «non obbedisce più a quello che il popolo decide». È una denuncia azzardata? No, anzi sembra peccare per difetto in quanto ‘il popolo’ – cioè i cittadini che compongono il corpo elettorale – non ha poi molte occasioni per decidere perché così dispongono le leggi e la stessa Costituzione. Se queste occasioni sono rare, è inevitabile che gli interessi particolari occupino il campo, che lievitino le oligarchie tecnocratiche e finanziarie, che la massa dei lavoratori sia compressa, anche se è proprio questa massa a comporre gran parte del corpo elettorale.
Se ora ci si duole del progressivo esautoramento del Parlamento e, corrispettivamente, del rafforzamento del Governo, divenuto duttile strumento dei signori, più o meno oscuri, della finanza, ci si dovrebbe interrogare, e si fa fatica a farlo per la carica simbolica della Costituzione del ’48, se gli assetti di potere da essa costruiti o consentiti siano responsabili del depotenziamento del popolo come decisore primo: perché è difficile negare che molti cittadini avvertano la debolezza del corpo elettorale e, in definitiva, che la sovranità sia stata sottratta al popolo, cioè alla massa.
Il confronto con i modelli – anzi, con ‘il modello’ – introduce l’ipotesi che la Costituzione non sia stata, nei suoi disposti, rigorosamente congrua con la scelta fondamentale del 2 giugno 1946, cioè con la nascita di una repubblica. Molte le domande che qui si affollano: vediamone qualcuna. È autenticamente repubblicano che vi sia un Presidente della Repubblica corredato di poteri rilevanti ma non eletto dal popolo? Si potrà rispondere affermativamente evocando un’altra scelta, quella di dar vita a una repubblica parlamentare e non presidenziale. Però, ci dovrebbe pure domandare se allora sia congruo che anche il Presidente del Consiglio possa non essere eletto dal popolo. È poi congruo che la Costituzione abbia alquanto limitato l’ambito di applicabilità del referendum e dell’iniziativa legislativa popolare? È congruo che la Costituzione non abbia reso effettivo il principio di alternanza, evitando di introdurre un limite all’iterabilità del mandato anche per le più alte cariche dello Stato? È congruo che il Presidente della Repubblica duri in carica ben sette anni e (appunto) sia rieleggibile? Era preferibile stabilire per la durata delle Camere un tempo inferiore, per esempio quattro anni (e non cinque)? E poi: è congruo che i due terzi del Consiglio superiore della magistratura siano eletti dai magistrati? È congruo che altrettanto sia disposto per un terzo dei giudici della Corte costituzionale? E, in particolare, c’è congruenza istituzionale tra quella sovranità che «appartiene al popolo» e gli indefiniti (e, sappiamo per esperienza, alquanto intensi) «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art. 117 Cost.)?
A ciò si aggiungono altre possibili contraddizioni. Per esempio, è congruo rispetto al modello che i candidati nelle varie elezioni siano imposti dalle segreterie dei partiti? O, cambiando di fronte, che la magistratura inventi – o scopra – nuovi diritti a prescindere dal riconoscimento legislativo e, anzi, destinati a limitare la potestà legislativa del Parlamento?
L’elenco delle contraddizioni potrebbe continuare; ma la conclusione è questa: per come ci è stata consegnata dalla Costituzione e per come si è evoluta nei fatti, la Repubblica italiana sembra essere, più che una repubblica democratica, una repubblica oligarchica. In questa direzione ci aveva avviato proprio la Costituzione quando aveva introdotto un’altra incongruenza rispetto al modello: la menzione espressa – all’art. 49 – dei partiti quali istituzioni funzionali «a determinare la politica nazionale». Con il che ci siamo ritrovati una repubblica non di cittadini, ma di partiti e, sull’esempio, ora anche di gruppi e associazioni che perseguono naturalmente interessi particolari.
Da tutto ciò è derivato un contributo non indifferente a quel «circuito esecutivi-lobbies-tecnocrazia» giustamente stigmatizzato da Preterossi. Per «avere rispetto della volontà popolare e riconoscere il valore fondante del nesso sovranità popolare-lavoro» (parole di Preterossi), occorrerebbe dare voce – voce istituzionale – alle masse e renderle protagoniste e, inevitabilmente, agoniste. Ma il focus è stato abilmente deviato sugli individui o sull’individuo e i dispositivi normativi a disposizione delle masse mancano o sono depotenziati. In Roma antica la repubblica era aristocratica (ma non oligarchica); e le masse antagoniste si sarebbero potute rivolgere ai tribuni della plebe a cui era demandata l’opposizione interdittiva di qualunque azione di governo contraria agli interessi popolari. Ma oggi a chi ci si dovrebbe rivolgere? A Mattarella? A Conte?
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