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Il problema della classe rivoluzionaria


29 Set , 2020|
| Egemonia e strategia socialista

La divisione in classi della società è un postulato fondamentale della teoria marxiana. Da un lato, infatti, permette di individuare con precisione la composizione di un organismo complesso quale la società capitalistica; dall’altro, illuminando le linee di frattura tra dominati e dominanti consegna alle classi subalterne il segreto della loro emancipazione: l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. La socializzazione di questi rende impossibile l’estrazione privata di plusvalore, e quindi annichilisce mortalmente il meccanismo di alienazione-dominio del capitalista: la fine del profitto significa l’inizio di un’epoca nuova per l’umanità. Ora, la differenza sostanziale che pone Marx al vertice del pensiero socialista consiste nell’unità tra il momento teorico e quello pratico, nella sintesi tra teoria e praxis: non basta soltanto descrivere l’orrore, bensì occorre impegnarsi per il suo superamento. Al di là del volontarismo dei socialisti utopisti e dell’inconcludenza precipitosa dei compagni anarchici, la lezione strategica del materialismo storico consiste nell’offrire al proletariato gli strumenti della propria liberazione, considerando finalmente la classe operaia come soggetto storicamente adatto alla conquista e all’esercizio del potere. Nel dibattito che si è meritoriamente prodotto finora, occorre a nostro avviso soffermarsi sul punto essenziale della classe rivoluzionaria: e non, si badi bene, dal punto di vista dell’intellettuale che tenta un approccio organico verso gli sfruttati. Occorre infatti illuminare lo stato delle cose all’interno dell’immenso esercito di sfruttati, considerare il grado di consapevolezza degli stessi ed eventualmente irrobustire quelle germinali parvenze di rifiuto dell’esistente.

Il problema della scintilla

La divisione capitalistica della società in classi, beninteso, non comporta automaticamente che gli sfruttati acquisiscano autonomamente coscienza della loro alterità. Il passaggio da classe in sé a classe per sé è infatti il punto nodale, lo zenith del movimento rivoluzionario. Oggettivamente il modo di produzione capitalistico pone in antitesi irrimediabile capitale e lavoro: il problema dal punto di vista socialista sta nella disparità di consapevolezze. E qui, recuperando Gramsci, subentra il problema culturale: in una società dominata dal Capitale, è naturale che le idee dominanti siano le idee della classe dominante. Lo vediamo oggi in Italia con particolare dolore: i disoccupati, i reietti sociali, parlano e pensano esattamente come vogliono i padroni. Per questo la rinascita di un movimento di classe non può non passare per la costruzione- lenta, faticosa ma essenziale- di una cultura socialista, alternativa e perciò antitetica a quella borghese. Ancora, ciò non basta: senza domanda di alternativa, senza la necessità di esaudire altrove gli interrogativi vitali derivanti dal grado di alienazione, ogni tentativo in tal senso finirebbe per fallire. Esiste una dialettica tra produzione ideologica e richiesta proletaria: senza l’una non esiste l’altra. Il brutale dato economico non basta a determinare la consapevolezza di classe:

“Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del canale, ma non ancora per sé stessa. Nella lotta, questa massa si riunisce, si costituisce in classe per sé stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica.”[1]

La lotta economica, per Marx, assume così le vesti di una ginnastica rivoluzionaria attraverso cui i lavoratori prendono atto della loro forza, avviandosi sul sentiero dell’alternativa di classe come forma di coscienza politica alternativa a quelle offerte dalla classe dominante. A quel punto, e solo allora, l’esistenza di un nutrito esercito di intellettuali organici al rinato movimento operaio può offrire gli strumenti culturali e ideologici utili alla crescita di massa. Ma senza l’innesco della lotta, senza la spontanea rivendicazione della propria libertà, la massa non diviene mai classe. Infatti

“I socialisti e i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato non si è ancora sufficientemente sviluppato per costituirsi in classe, e di conseguenza la stessa lotta del proletariato con la borghesia non ha ancora assunto un carattere politico… questi teorici non sono che utopisti, i quali… improvvisano sistemi e rincorrono chimere di una scienza rigeneratrice. Ma a misura che la storia progredisce, e che con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi… devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce[2]

Senza fughe in avanti, il movimento proletario può giungere a piena maturità se le condizioni oggettive lo permettono, e cioè qualora le condizioni di sfruttamento e degrado del sistema capitalistico abbiano condotto l’insieme della società in una crisi irrimediabile. Beninteso, chi scrive è convinto che sia esattamente il momento presente. Ciò che manca, pertanto, non sono le condizioni storiche ma il contributo soggettivo, di parte, degli sfruttati affinché l’impasse borghese si risolva in senso progressivo, abbattendone il marcio attraverso la conquista e l’esercizio del Potere dei lavoratori, per i lavoratori. Il perché lo vedremo subito.

Il problema storico della coscienza di classe

Per Lukacs

“Coscienza di classe non è la coscienza psicologica dei singoli proletari o la coscienza psicologico-collettiva del loro complesso, ma il senso diventato cosciente della situazione storica della classe […] La fonte di ogni opportunismo sta proprio in ciò, che esso parte dagli effetti e non dalle cause, dalle parti e non dal tutto, dai sintomi e non dalla realtà […] che esso – in una parola – scambia lo stato di fatto della coscienza psicologica dei proletari con la coscienza di classe del proletariato, la quale si identifica invece con la coscienza della sua missione storica[3]

È noto a ogni socialista il compito storico individuato da Marx per la classe operaia, “l’ultima” classe progressiva in grado di rompere il gioco dialettico e permettere la costruzione di un mondo organico, immune dall’ingiustizia sociale grazie alla socializzazione dei mezzi di produzione. Ecco quindi il nesso cruciale per legare le istanze personali di lotta con quelle settoriali di categoria e, ancora, quelle più generali di classe. Il proletariato diviene classe in sé se acquisisce la “missione storica” della liberazione dell’umanità dal dominio mortale del Capitale. Qui arriviamo al punto nodale: è possibile in Italia costruire un’alternativa di classe incentrata sul ruolo storico delle classi subalterne?

È un fatto che nel nostro paese sia sempre esistita una certa tensione sociale: la storia del Regno è contraddistinta da rivolte proletarie- basti pensare ai Fasci siciliani, ai moti di Milano e alla settimana rossa del 1914- così come i primi trent’anni della Repubblica. Le lotte sociali del dopoguerra e dell’Autunno caldo originano nel triangolo industriale, perché lì la classe operaia è più forte, più concentrata, più combattiva. In una grande fabbrica come Mirafiori è quasi naturale che gli operai maturino coscienza del proprio sfruttamento e passino, di anno in anno, dal problema economico a quello politico, approdando infine alla consapevolezza storica delineata da Lukacs. Oggi, dopo quarant’anni di riflusso, le condizioni sono diametralmente diverse: il capitale ha superato il modello fordista della produzione-consumo di massa, cancellando la lezione keynesiana in favore del recupero di un sistema sociale schiettamente ottocentesco, e cioè liberale. Se a ciò si aggiungono le conseguenze della pandemia e l’atomizzazione dei lavoratori, chiusi nelle proprie case o “distanziati” senza alcuna possibilità di condivisione, si giunge alla conclusione che è davvero difficile risolvere il problema della “educazione rivoluzionaria” verso la coscienza di classe. Se appare arduo organizzare gli sfruttati dentro il processo produttivo, che dire di coloro che ne stanno fuori? Come può un NEET o un disoccupato intontito dai mezzi di distrazione di massa rifiutare l’esistente e cercare l’alternativa?

Questi sono gli interrogativi che ci permettiamo di introdurre nel dibattito. Chi scrive ritiene che sia necessario affrontare senza patemi, con serena coscienza, il problema antropologico e umano della coscienza di classe. Diciamo antropologico, perché ripulendo il marxismo da ogni incrostazione meccanicistica occorre ribadire quanto esso punti sulla “ri-valorizzazione” dell’uomo per l’uomo. Ma non si può omettere dall’analisi il punto fondamentale della volontà:

“la conclusione cui arrivo dopo cinquanta anni di milizia attiva e di esperienza di lotta, è che la cosa più rivoluzionaria che esista, più ancora delle barricate, è questo senso non rinunciabile della propria dignità e della propria responsabilità: rifiuti ciascuno la partecipazione subalterna alla società; rifiuti di diventare uno strumento, un oggetto nelle mani di altri, o, peggio, alla mercé di meccanismi anonimi; rivendichi ognuno il suo potere di decidere, di farsi partecipe attivo del vasto processo creativo della storia […] Acquistare la coscienza della responsabilità per me significa questo: rifiutarsi di essere soltanto dei congegni; rifiutarsi di essere dei piccoli ingranaggi di un meccanismo che ci trascende; rifiutarsi di essere gli esecutori materiali di decisioni prese senza che noi ne sappiamo assolutamente nulla, prese chissà dove e chissà come, da un potere sempre più lontano, più misterioso e più anonimo; ribellarsi a questa situazione, respingere un’autorità che cala ingiustificata dall’alto.”[4]

La conquista della dignità di essere umano, che blocca e ribalta il processo di reificazione, passa innegabilmente per una decisione personale, diremmo quasi innato desiderio, di rifiuto dell’esistente e ricerca dell’alternativa. Non è individualismo, ma lotta personale che per essere efficace deve diventare sforzo collettivo, esigenza di classe, perché

“dalla crisi del capitalismo solo la coscienza del proletariato può mostrare la via di uscita. Finché non c’è questa coscienza, la crisi resta permanente, ritorna al suo punto di inizio, ripete la situazione, fintantoché alla fine, dopo infiniti patimenti, dopo spaventosi rigiri, l’insegnamento dimostrativo della storia porta a compimento il processo di coscienza nel proletariato e con ciò gli affida nelle mani la condotta della storia… Giacché il proletariato non può sottrarsi al suo compito. Si tratta solo di sapere quanto esso ha da soffrire per giungere alla maturità ideologica, alla giusta conoscenza della sua situazione di classe, alla coscienza di classe”[5].


[1] K. Marx, “Miseria della Filosofia”, Editori Riuniti, Roma, 2019, p. 145 e ss.

[2] Ibidem

[3] G. Lukacs, “Storia e coscienza di classe”, Mondadori, Milano, 1973, p. 96.

[4] L. Basso, “Potere e Parlamento”, in “Potere e istituzioni oggi”, Torino, Giappichelli, 1972, pp. 1-27.

[5] L. Basso, Classe e coscienza di classe, «Mondo operaio», 21 mar. 1953, n. 6, pp. 7-10.

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