Qualche tempo fa, da questo sito, Francesco Ricciardi sollevava un tema non irrilevante intorno all’identità italiana e alla questione nazionale: quello della lingua, che oggi ci appare quantomai stressata dall’invasione (invadenza) degli anglicismi, soprattutto laddove non ce ne sarebbe bisogno. Una causa che non può non essere sposata da chi abbia a cuore le sorti delle patrie lettere, cui auguriamo di diventare morte in tempi ragionevolmente lunghi.
Tuttavia, per una difesa costruttiva (e più tardi dirò dove per me si colloca il confine della costruttività) dell’italiano, è bene conoscerne i punti “deboli”, che sono prevalentemente di natura storica, e si intrecciano all’accidentato percorso politico e istituzionale del nostro paese e di ciò che c’era prima.
Come noto, la gran parte della (straordinaria) letteratura che troviamo oggi nei manuali dei licei è forgiata in una lingua bellissima, che sostanzialmente viveva per poche centinaia di persone: coloro che la usavano per fini artistici, e coloro che ne avevano necessità per posizione sociale. Questo è stato fino al Settecento, e in parte anche nell’Ottocento, se è vero che Alessandro Manzoni si arrovellò sui Promessi sposi proprio sul problema di usare una lingua che potesse comunicare (ovvero, mettere in comune) oltre i confini cittadini. Il problema, naturalmente, si pose anche per chi si trovò a gestire l’unificazione del paese, ovvero di persone che non avevano una base linguistica per comunicare. Di qui – lo sappiamo, perché è esperienza di tutti noi – un “canone” letterario che ha selezionato, con criteri anche politici, una serie di opere, tralasciandone altre. Oggi è in parte recuperata l’eccellente produzione letteraria dialettale, che tuttavia per decenni (insieme alla produzione della letteratura popolare a partire dal secondo Ottocento, che magari in Italia è stata meno eccellente ma che varrebbe la pena, almeno a grandi linee, di conoscere) è stata ampiamente oscurata dai programmi scolastici. Di questo si comprendono bene, ovviamente, le ragioni, ma se ne comprendono anche gli effetti: una lingua che, in qualche modo, si è cercato di diffondere attraverso il complicato processo di alfabetizzazione scolastica, ma che fuori dalle aule era sostanzialmente sconosciuta, in favore, principalmente, dei dialetti.
Fin qui la dimensione istituzionale. La coltivazione di questo terreno “paludoso” di diffusione di una lingua comune sarebbe stata, con ogni probabilità, infruttuosa, se una serie di processi sociali e culturali non avessero attraversato l’Italia dal Novecento fino a oggi, incidendo in maniera decisiva sull’evoluzione e sui mutamenti di quella lingua. Qualche esempio, senza la minima pretesa di esaustività: la radio durante il fascismo (la sua pervasività propagandistica ne fece anche un vettore di diffusione della lingua), il cinema sonoro, gli spettacoli dal vivo, la stampa popolare o meno popolare, il fumetto, le migrazioni interne, la leva militare, il grande punto di svolta della televisione pubblica (che “informava, educava, divertiva”), la musica leggera, le culture giovanili, l’associazionismo politico e non politico, la pubblicità e i consumi, la TV commerciale (che informa poco, educa ancor meno ma diverte molto, e nei processi culturali è una dimensione fondamentale), via via fino ai social network. Sullo sfondo di tutto questo, naturalmente, il vorace processo della globalizzazione, che ha portato anche a massicci scambi linguistici. Ovviamente, senza che questo abbia escluso le agenzie “riconosciute”, ovvero la scuola, l’università e la letteratura.
Siamo arrivati all’oggi. Sembra lontanissimo il momento della scelta dei Promessi Sposi e di Cuore come testi fondanti della formazione del cittadino italiano, eppure si parla di un arco temporale che nell’evoluzione di una lingua equivale a uno schioccar di dita. Immaginiamo dunque quali e quanti eterogenei, magmatici vettori hanno inciso sulla lingua che oggi consideriamo “comune”, in un panorama nel quale i dialetti, straordinariamente impoveriti, comunque sono vivi e utilizzati quotidianamente.
Una lingua che per tutte queste variabili che hanno influito e che influiscono, per la straordinaria rapidità (spesso incontrollabile) dell’evoluzione, anche influenzata da questioni storiche che attraversano l’Italia e che altri affrontano su questo sito spesso e molto meglio di quanto farei io (la frattura fra élites e classi popolari, in primis), ci può apparire spesso distante dalla nostra quotidianità. Le varianti diafasiche (diamesiche etc.) sono caratteristiche di tutte le lingue, ma in Italia più che mai ci troviamo a esprimerci in maniera straordinariamente diversa a seconda del luogo, della situazione, dell’interlocutore.
Ecco, a mio avviso, spiegato quel “punto debole” che dobbiamo conoscere per difendere l’italiano. Dobbiamo essere coscienti che la nostra lingua, per il rapidissimo e molto impreciso excursus appena tracciato, è assai permeabile dai termini stranieri, e in particolare dagli anglicismi (l’inglese ha il pregio, o il difetto, di avere strutture semplici ed efficaci), anche perché può capitare di percepire il vocabolo italiano e quello straniero allo stesso modo lontani dal nostro quotidiano.
È un male? Non necessariamente. Può essere, questa contaminazione, frutto di arricchimento (e anzi lo è stata e lo è tuttora, e non solo per la nostra lingua), laddove si ponga un confine a questa penetrazione. Il confine risiede, a mio avviso, nel riconoscere ed evitare gli anglicismi laddove sono scorciatoie di eccessiva semplificazione, e soprattutto laddove hanno un portato “propagandistico”. Con un esempio facile, e conclusivo, il Jobs Act ha una qualità, rispetto alla Riforma del mercato del lavoro: è più difficile inserire l’aggettivo “regressiva”.
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