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Di quale Europa parliamo?

«L’integrazione europea ha consentito cinquant’anni di stabilità, pace e prosperità economica, ha contribuito ad alzare il tenore di vita e ad instaurare un mercato interno e ha reso più forte la voce dell’Unione nel mondo».
Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere? quasi fosse una formula di ringraziamento al Padre eterno. Nondimeno così iniziava il primo capitolo di uno storico documento della Commissione europea[i], certo redatto in tempi non sospetti – direbbe qualcuno – ma che alla luce degli attuali sviluppi già sa di un sapore a metà tra il puerile e il coscientemente ipocrita.
Sebbene infatti basti aprire un qualsiasi manuale di storia per appurare la falsità di questa narrazione, continuano a somministrarcela all’occorrenza come fosse ovvia, sfruttando una vecchia accoppiata (populista?) di ignoranza e luogo comune.
Mi verrebbe da chiedere, dov’era la “pace” in Europa quando le manifestazioni di Budapest venivano represse dall’Armata rossa nel 1956? In che misura quarant’anni di Guerra fredda (tutta gestita peraltro dalla NATO e dalla CIA, per parte occidentale) corrisponderebbero alla famigerata “stabilità e prosperità” frutto dell’UE? E poi, dulcis in fundo, vorrebbero davvero far finta che il tragico fallimento dell’Unione di fronte all’orribile massacro in Jugoslavia – a muro di Berlino crollato – non vi sia mai stato? Forse uno come Langer avrebbe qualcosa da dire in proposito[ii].
E come ci ricorda John Florio, redattore di Limes, fu proprio in quell’occasione che il vero autore e nume tutelare del disegno europeo si ripresentò come tale: «Dopo che l’impotenza dell’Europa ad agire nel cortile di casa propria risultò non più tollerabile, fu l’America di Clinton a prendere prepotentemente il controllo della situazione, annientando con bombardamenti aerei la capacità serba di compiere ulteriori danni». Di fatti, «i veri architetti dell’unità dell’Europa non furono affatto gli europei: furono gli americani. È un mito quello secondo cui il progetto europeo sarebbe nato dai “padri dell’Europa” Monnet e Schuman. Il progetto fu avviato dagli americani in larga misura contro la volontà e i desideri degli europei», essendo fin da subito finalizzato a «contenere la Russia sovietica»[iii].
A tutto ciò si deve aggiungere l’orientamento essenzialmente economicista-tecnocratico, più o meno venato di retorica, che mosse l’unificazione europea fin dal principio: «L’approccio funzionalista, come capirono benissimo Monnet e Schuman, poteva essere usato per mascherare le contraddizioni dell’Europa post-bellica (…). Il funzionalismo inoltre, lasciava intendere che la cooperazione materiale, affidata a una burocrazia sovranazionale, avrebbe di per sé neutralizzato i conflitti e condotto un giorno all’emergere di una comunità politica. (…) Trova qui origine il credo fondativo dell’europeismo storico, secondo cui l’integrazione tecnico-economica – e quindi la proliferazione di apparati burocratici a essa preposti (le istituzioni “comuni”) – rappresenterebbe la via maestra verso il sogno dell’Europa unita. È precisamente a questo livello concettuale che si annuncia però il fraintendimento più profondo, coltivato da tanta parte della classe dirigente italiana, per cui il “processo” d’integrazione avrebbe come telos la terra promessa dell’unione politica»[iv].
Invece di quest’ultima, guarda un po’, l’unica “unione” che abbiamo veramente raggiunto è quella monetaria, che a detta ormai di numerosi economisti fa acqua da tutte le parti.
Il suo stesso principio, tutt’altro che “europeista”, va fatto risalire ad un’abile strategia concepita, dopo il 1989, per il contenimento/accontentamento della Germania appena riunificatasi.
Ancora Florio: «È stato lo shock della riunificazione della Germania, e la conseguente minaccia di uno squilibrio franco-tedesco, la scintilla che ha alimentato il processo che avrebbe condotto a quel risultato geopoliticamente insostenibile ed economicamente fallimentare che è stato la moneta unica. L’euro, presentato come grande successo dell’integrazione, non nasce come il prodotto di disinteressato europeismo, ma come la sintesi, tragicamente incompleta, di sotterranee logiche di potere alimentate da latenti sentimenti di ostilità e sospetto tra gli stessi membri della Comunità (“Il trattato di Maastricht è un trattato di Versailles senza guerra”, titolava la prima pagina del quotidiano Le Figaro il 18 settembre 1992)»[v].
E le conseguenze di questa ombra non si sono fatte attendere a lungo. La crisi del 2008 ha segnato un vero e proprio spartiacque in questo senso. Il terribile caso della Grecia, il governo Monti in Italia, l’azione pressoché spietata della politica di austerity, promossa dalla BCE e dai vari vertici dell’Unione, ha contribuito in modo decisivo a incrinare la fiducia dei popoli nei confronti dell’Eurozona.
D’altronde, persino un eminente filosofo tedesco di tradizione socialdemocratica quale è Jürgen Habermas, di per sé sostenitore del progetto europeo, ha da tempo riconosciuto i limiti strutturali dell’UE come primaria fonte della rimonta cosiddetta “populista” o “sovranista”, comunque di “destra” (non riesco a non virgolettarlo), cui stiamo assistendo da circa un decennio in gran parte del continente.
Scriveva infatti nel 2013, commentando un libro di Wolfgang Streeck: «Il fatale mantenimento della finzione della sovranità fiscale degli Stati membri (…) agita la percezione pubblica della crisi nella direzione sbagliata. La pressione dei mercati finanziari sui bilanci degli Stati, frammentati nella loro gestione politica, incoraggia il senso di appartenenza delle popolazioni coinvolte nella crisi – crisi che aizza “Paesi creditori” e “debitori” gli uni contro gli altri e alimenta il nazionalismo».
E concludeva: «Rompere tale blocco è possibile solo se i partiti pro Europa si uniscono in campagne da una nazione all’altra contro questa errata traduzione di questioni sociali in questioni nazionali. Solo con la paura dei partiti democratici di fronte al potenziale della destra riesco a spiegarmi la mancanza, in tutte le arene pubbliche nazionali, di battaglie d’opinione accese dall’idea della giusta alternativa politica»[vi].
Ciò che in ultima istanza appare più assurdo in questo scenario è però l’autentico deserto culturale-spirituale in cui la quasi totalità della classe politica e intellettuale sembra precipitata negli ultimi decenni, mentre il Liberismo incondizionato tranquillamente trionfava (sia nella sua versione anglosassone che ordoliberale tedesca).
L’Europa intera, intesa ora come civiltà, sembra divenuta del tutto impotente innanzi alla propria crisi.
La necessità di un risveglio forte del pensiero assume i connotati inevitabili di una domanda radicale, collettiva, dalle profonde implicazioni future, che sin da subito va tradotta in un dibattito pubblico e democratico tra i popoli.
Scrive Carlo Galli: «Che tipo di questione pone questo scenario costituito da spazi, linee e punti esplodenti? Impone prima di tutto di abbandonare la retorica del “Ci vuole più Europa”: prima si deve capire di quale Europa si parla. Non certo un super-Stato, monolitico, capace di chiudere i propri confini all’esterno – una finalità irrealistica e indesiderabile −. Né quella posizione può significare l’indeterminata estensione nel futuro dell’Europa di oggi: “Andiamo avanti così perché in un modo o nell’altro ne verremo fuori” – è, questo, il modo di ragionare medio di chi è nato in un mondo in cui, dopotutto, non poteva succedere niente, in Europa, per le terribili conseguenze anche del minimo cambiamento −. Adesso il dramma è che invece può succedere di tutto»[vii].
Qui sta il punto. In un tempo in cui l’imprevedibilità e il mutamento si sono fatti incommensurabili, la prima domanda è proprio: di quale Europa parliamo? Che cosa essenzialmente intendiamo quando diciamo questo nome, Europa? Il primo atto di onestà sta nel riconoscere che la risposta è tutt’altro che chiara. Tutto anzi si gioca nella confusione e indeterminatezza che stiamo sperimentando in tutto ciò che fino a ieri credevamo evidente.
Quando la soglia di sfida è questa, il problema non comincia né dalla politica né dall’economia, ma dallo sguardo pensante di tipo antropologico-spirituale. In tal senso, l’Europa si scopre anzitutto come problema spirituale, dal significato ambiguo e complesso, ma che riguarda il nostro stesso appartenere ad una storia, ad una tradizione, ad una configurazione di mondo molto precisa, che nessuno di noi singolarmente ha stabilito. Noi ci troviamo, volenti o nolenti, ad essere europei. L’Europa, in altri termini, non è tanto un continente fisico quanto uno spirito, un modo fondamentale di esperire il mondo e di orientarvisi. Brevemente, potremmo sintetizzarlo in tre nuclei portanti:
1. L’Europa è, in primo luogo, anelito alla libertà e alla creatività. L’uomo occidentale, in virtù della sua doppia fonte biblica ed ellenica, ha sempre aspirato ad un tipo di libertà che forse non si era mai visto sulla terra. Ma questa libertà pressoché inaudita non è data dal semplice arbitrio, che finisce poi – come vediamo oggi – per depredare e distruggere il mondo che gli consente di esistere. La libertà europea, rettamente intesa, è data da un rapporto donativo incessante con l’orizzonte storico-spirituale della verità, che a sua volta è rivelazione in atto del mondo. La creatività vera, quella che dà vita alla realtà in ogni momento, scaturisce solo da una Trascendenza libera, ossia da un fondamento universale di Verità. L’Europa attuale invece, col suo piattume tecnocratico e la sua cultura prosciugata, sembra aver completamente dimenticato il principio trascendente (cioè poetico) della libertà umana. Ma un’Europa che non muova dalla libertà in quanto libertà dello spirito non è affatto Europa. Scriveva Karl Jaspers: «La nostra storia non è solo cambiamento, non è solo caduta e ripristinazione di un’idea atemporale, non è l’attuazione di uno stato totale pensato come permanente, ma una sequenza sensata di fatti, che conseguono l’uno all’altro, e diventano consci di sé sotto forma di lotta per la libertà»[viii].
2. L’Europa, in tale tensione alla libertà, perviene a se stessa solamente tramite una dialettica degli estremi. Qui giace una delle più misteriose ricchezze della nostra civiltà, come osserva ancora Jaspers in quella memorabile conferenza del 1946: «L’Europa ha sviluppato per ogni posizione la posizione opposta. Forse è propriamente solo così che essa è potenzialmente tutto. Perciò è disposta ad accogliere ciò che proviene dall’esterno non solo come opposizione, ma a rielaborarlo in se stessa come elemento della propria essenza. (…) L’Europa unisce proprio quello che contemporaneamente spinge alla più radicale antiteticità: mondo e trascendenza, scienza e fede, formazione del mondo e religione». Sicché, a causa di questo paradosso intrinseco, «la libertà dell’europeo cerca gli estremi, la profondità della lacerazione. Attraverso la disperazione, l’europeo perviene a un atteggiamento nuovamente fiducioso, attraverso il nichilismo a una coscienza dell’essere dotata di fondamento; egli vive nell’angoscia come nel pungolo della sua serietà»[ix].
3. Infine, questo profondo e critico intreccio tra anelito politico-spirituale alla libertà e dialettica degli estremi, produce una dinamica inarrestabile di auto-superamento e trasformazione del mondo, che racchiude in sé gli archetipi specificamente occidentali di Storicità e Rivoluzione intesi in senso forte, matrici e motori dell’intera età moderna: «Il dolore diventa il luogo di nascita dell’uomo che vuole la storia. Solo l’uomo che si espone interiormente alla sventura può sperimentare che cos’è, e perviene all’impulso di cambiarla»[x]. La storia europea è anche indubbiamente la storia della dimenticanza di questa speranza rivoluzionaria, come oggi vediamo più che mai. Ma la potenza straordinaria della nostra civiltà sta appunto nel poter ripartire proprio da qui, dalla condizione di massima cecità e smarrimento del presente: «Quanto l’Europa ha prodotto dev’essere spiritualmente superato dall’Europa stessa. Dalla millenaria essenza dell’Europa consegue la possibilità di spingere questo movimento in avanti, nella presente situazione mondiale, sino a nuove creazioni»[xi].
In conclusione, possiamo chiederci seriamente se sia ancora possibile una rifondazione della politica e della cultura europea su queste antiche, ma sempre nuove fondamenta.
Il compito è individuare soggetti rivoluzionari che abbiano il coraggio di riportare questi temi all’ordine del giorno, affinché la grande missione dell’Europa di illuminare tutti i popoli del mondo torni a destarsi, con tutta l’esperienza accumulata nel travaglio della sua storia.
Con questo auspicio, mi piace terminare questa breve disamina ancora una volta con le parole di Jaspers, che suonano così attuali e forti forse proprio perché pronunciate in uno dei momenti più difficili della storia mondiale: «Ecco il grande quesito: si tratta veramente del tramonto, oppure sono le doglie di una crisi che conduce a una nuova configurazione dell’antichissima essenza europea? È lo sprofondare di un’intellettualità già inconsistente nella totale incoscienza che segue gli ultimi sprazzi di fuochi artificiali, o le molle dello spirito europeo sono già in tensione per rilanciare in alto la nostra vita? (…) Ci sentiamo angosciati. Tutto ciò che riusciremo a fare, potremo farlo solo in virtù della risolutezza che è sorretta dalla nostra origine, con pazienza imperturbabile, con spregiudicatezza verso le nuove realtà, con modestia priva d’illusioni, affinché nel “qui e ora” otteniamo quanto è possibile, e conseguiamo in tal modo una base sostanziale per il futuro»[xii].
[i] Commissione delle comunità europee, La governance europea. Un libro bianco, Bruxelles, 25 luglio 2001.
[ii] Alexander Langer (1946-1995), europarlamentare e attivista politico per la pace, subito prima di suicidarsi a causa della Jugoslavia lasciò scritto: «Se la situazione attuale è il risultato delle politiche disordinate, rinunciatarie e contraddittorie dei nostri governi, l’Unione europea in quanto tale è rimasta muta, impotente, assente. Bisogna che l’Europa testimoni e agisca! (…) Per recuperare un credito assai largamente consumato, l’Unione europea deve oggi dar prova di un coraggio e un’immaginazione politica senza precedenti nella sua storia. L’Europa può farlo, l’Europa deve farlo. Lo deve tanto ai bosniaci quanto a se stessa». In L’Europa muore o rinasce a Sarajevo, articolo del 25 giugno 1995 apparso su “La terra vista dalla luna”.
[iii] John Florio, L’ombra di un sogno. Perché l’europeismo è antieuropeo. In Il muro portante, numero di Limes dell’ottobre 2019, pag. 168-69.
[iv] Ivi, pag. 171.
[v] Ivi, pag. 168.
[vi] Jürgen Habermas, Democrazia o capitalismo? Gli stati-nazione nel capitalismo globalizzato, Roma, Castelvecchi 2019, pag. 42-43. Comparso in lingua originale nel 2013, sulla rivista Blätter für deutsche und internationale Politik.
[vii] Carlo Galli, Europa: linee di frattura, punti esplosivi; Intervento introduttivo al seminario di Sinistra Italiana, Roma, 4 dicembre 2015. Disponibile nel blog Ragioni politiche.wordpress.com.
[viii] Karl Jaspers, Lo spirito europeo, Brescia, Morcelliana 2019, pag. 37.
[ix] Ivi, pag. 32-35.
[x] Ivi, pag. 39.
[xi]Ivi, pag. 51.
[xii] Ivi, pag. 49.
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