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Il ministro, la nave e l’articolo 96

La vicenda del processo Gregoretti, che vede Matteo Salvini sul banco degli imputati, tende a essere semplificata nel pubblico dibattito, ignorando più o meno inconsapevolmente il carattere e l’iter particolare riservato al reato ministeriale proprio per la sua natura delicata.
A metà tra l’esigenza di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge e quella di salvaguardare la responsabilità politica dell’organo di Governo, preservandola da una sua strumentale criminalizzazione, l’articolo 96 della Costituzione stabilisce che «il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati». Così riformata nel 1989, la norma costituzionale volle sottrarre i membri del Governo a un’istruttoria interamente politica (secondo la forma della messa in stato di accusa da parte delle Camere che rinviavano alla Corte Costituzionale), che li aveva resi praticamente immuni dall’azione penale. In effetti, gli unici procedimenti arrivati in Corte Costituzionale prima della riforma furono quelli – a seguito dello scandalo Lockheed – a carico dei ministri Gui e Tanassi.
Il nuovo disposto prevede che sia il Procuratore a stabilire la fattispecie di reato e a stabilire se si tratti di reato ministeriale o meno: nel primo caso già c’è il riconoscimento che l’illecito è stato commesso nell’esercizio delle funzioni del membro del Governo, comportando da qui in poi uno sviluppo particolare. Stabilito che di ciò si tratti, il procedimento passa al cosiddetto tribunale dei ministri (un “Collegio” di tre giudici ordinari), che divergendo dalla normale procedura penale funge sia da giudice che da inquirente. Ѐ il tribunale dei ministri infatti che decide se archiviare o chiedere l’autorizzazione alla Camera competente.
La Camera chiamata a concedere l’autorizzazione deve fare una valutazione meramente politica; deve cioè stabilire se il presunto illecito è stato commesso «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico». Il giudizio è insindacabile. Non esiste quindi un’alternativa netta, come credono alcuni commentatori generalisti, tra l’aver commesso un reato di un cittadino comune e l’essere processati per ragioni politiche, dal momento che già la qualificazione di ministeriale è un riconoscimento della politicità del fatto, e il giudizio parlamentare rende questa valutazione ancora più stringente.
Nel caso in esame del divieto di sbarco dei migranti a bordo della nave Gregoretti, mentre il Procuratore aveva chiesto l’archiviazione, il Collegio ha ritenuto si potesse procedere per sequestro di persona e ha chiesto l’autorizzazione al Senato, Camera di appartenenza dell’allora ministro Salvini. La storia è poi nota: il Senato l’ha autorizzato. Da questo momento il tribunale dei ministri esce di scena e il procedimento torna nell’alveo della normale procedura penale, davanti a un giudice terzo e con una pubblica accusa. Ma la Procura ha reiterato la richiesta di archiviazione e il GUP ha disposto un supplemento di indagine volendo ascoltare, tra gli altri, il premier Conte, gli ex ministri Trenta e Toninelli, e gli attuali ministri Lamorgese e Di Maio.
Così la natura funzionale del fatto è ancora più evidente dato che chiama in causa direttamente gli altri membri dell’Esecutivo. Scopo del giudice è infatti conoscere se le procedure allora adottate per gli sbarchi lo sono tuttora; secondo molte ONG lo sarebbero eccome. Se questo fosse appurato il giudice si potrebbe trovare di fronte a una situazione paradossale, o dovendo riconoscere che il reato di cui l’ex ministro è accusato continua a reiterarsi impunemente, oppure dovendo far cadere le accuse e accogliere la richiesta di non luogo a procedere. Inoltre, se dalle audizioni dovesse emergere che gli allora membri del Governo presero parte alle decisioni di Salvini, il caso assomiglierebbe più a un atto collegiale, e secondo l’articolo 95 della Costituzione «i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri». L’epilogo della vicenda potrebbe portare il giudice a fare una valutazione politica dunque, sconfessando nella sostanza il giudizio dato dal Senato.
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