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La contesa del Sud: i partiti italiani e il vuoto da colmare
Siamo in tempi di elezioni americane. Ma gli “swing states” o “battlefield states” non esistono solo oltreoceano. Anche in Italia c’è una terra di conquista (elettorale): il Sud. Notoriamente, il Mezzogiorno non ha mai espresso e non esprime tuttora una forza politica capace di rappresentare le istanze di questo territorio con risultati elettorali soddisfacenti. Contrariamente a questo trend, sin dalla nascita, la Lega (Nord) è riuscita a imporsi come partito del settentrione, spaziando tra diverse configurazioni ideologiche e tematiche. Il “Carroccio” ha, in particolare, sostituito la tradizionale preminenza della Democrazia Cristiana in regioni come Veneto e Friuli-Venezia Giulia, causando un cambiamento cromatico della geografia elettorale di molti territori del Nord Italia.
Sei elettorati in cerca di rappresentanza
Quali sono le cause che possono spiegare l’insuccesso elettorale dei partiti meridionalisti? Tra queste, probabilmente, si potrebbero individuare limiti e lacune nel lato dell’offerta, tra cui la mancanza di personalità e organizzazioni politiche forti, capaci anche di interpretare e rimodellare la modernità. Ma si potrebbero trovare anche elementi di debolezza nel lato della domanda: se, infatti, esiste davvero una domanda di rappresentanza politica delle istanze meridionaliste proveniente dagli elettorati delle sei regioni appartenenti a questa area geografica (escludendo l’Italia insulare), perché i partiti che si fanno carico di rappresentarle non vengono premiati nelle urne? Naturalmente sono questioni ampie e complesse. Tuttavia, ciò che si può dire con certezza è che se questa “domanda di Sud” esiste davvero, i partiti che hanno provato a darne rappresentanza, dal secondo dopoguerra in poi, non sono stati abili e credibili nel coglierla e tradurla elettoralmente: hanno, quindi, lasciato un “vuoto da colmare” che ha trasformato il Mezzogiorno in una zona elettoralmente instabile e contesa, dove vi è un continuo cambiamento elettorale e politico. Anziché un sistema partitico stabile, si è infatti andato a creare un sistema ben più stabile di voto individuale[i].
Dalla DC al Movimento, passando per Forza Italia: who’s next?
La geografia elettorale del Mezzogiorno è mutata nel corso del tempo, consegnando il titolo giornalistico di “partito del Sud” a diverse forze politiche nazionali dal secondo dopoguerra in poi. Tra questi, un ruolo primario l’hanno esercitato la Democrazia Cristiana (DC) negli anni della Prima Repubblica, Forza Italia (FI) e altri partiti di centrodestra in specifiche realtà del Mezzogiorno nei primi anni della Seconda Repubblica, e, infine, il Movimento 5 Stelle (M5S), in quella che è stata definita (forse con troppa fretta) la Terza Repubblica. Tuttavia, né la DC, né FI, né il M5S hanno presentato livelli di radicamento territoriale al Sud paragonabile alle zone tradizionali di altre aree d’Italia. Si pensi in particolare alla cosiddetta “zona rossa” formata da Emilia-Romagna, Umbria, Toscana e Marche, che ha per molti anni garantito il successo elettorale ricorrente del Partito Comunista Italiano e dei suoi eredi. Eppure, se volgiamo lo sguardo verso le ultime tornate elettorali, non si può certamente sottovalutare la capacità di attrarre consensi del M5S: dopo l’exploit del 2018, i pentastellati sono riusciti a mantenere la leadership dell’area anche nelle deludenti elezioni europee, raggiungendo quasi il 30%, a fronte dei tredici punti percentuali in meno a livello nazionale. Considerando gli ultimi appuntamenti elettorali regionali il quadro torna, invece, ad ingrigirsi: in Campania (roccaforte della creatura di Beppe Grillo) la lista del Movimento non raggiunge il 10%, medesimo risultato in Puglia. In Calabria va anche peggio, superando di poco il 6%. Il cambiamento degli equilibri politici a livello nazionale, che stanno vedendo come protagonista in particolare il Movimento 5 Stelle, impongono dunque una riflessione circa il futuro elettorale del Mezzogiorno: se i pentastellati vedranno ulteriormente diminuire i consensi, come sta accadendo ormai dall’accordo di governo con la Lega, chi saprà colmare il vuoto? Questa domanda pare essersela posta anche una forza politica ben precisa.
Lega: dopo la nazionalizzazione, la meridionalizzazione?
Non è un segreto che l’obiettivo di Salvini, sin dal 2014, sia quello di operare un re-branding della Lega all’insegna dell’apertura verso Zona Rossa e Mezzogiorno. Ben più incerto appare, invece, il risultato di questa operazione. Senza dubbio, negli ultimi tempi, la Lega “non più Nord” ha incrementato di molto i consensi in aree tradizionalmente poco gratificanti elettoralmente, riuscendo a conquistare anche gli uffici di governo nelle giunte comunali e regionali di queste zone (emblematico, da questo punto di vista, l’assessorato alla cultura in Sicilia). Tuttavia, la tenuta del Movimento 5 Stelle nel Mezzogiorno e una possibile crescita del Partito Democratico potrebbero minare le aspettative di Salvini. Infatti, ci sono due elementi controversi su cui occorre fare chiarezza per comprendere meglio l’espansione della Lega al Sud: il personale politico e la comparazione con il “punto di partenza”. Il personale politico della Lega al Sud non rappresenta sicuramente il “nuovo che avanza”: molti esponenti e candidati che si presentano con il partito di Salvini hanno già esperienze pregresse in altri partiti del centrodestra (in particolare Popolo della Libertà e Forza Italia), e in altri casi provengono dalla galassia dell’estrema destra. Tuttavia, per conservare un proprio controllo su questi esponenti, e gestirne le inevitabili differenze, Matteo Salvini pone a capo del partito nelle regioni del Sud personaggi di primo rango della Lega “nordista” (come Nicola Molteni in Campania e Stefano Candiani in Sicilia, rispettivamente nativi di Cantù e Busto Arsizio). Ma l’elemento più interessante non riguarda il personale politico e la gestione della classe politica locale, quanto i risultati elettorali, e dunque il seguito che la Lega riesce ad attrarre nel Mezzogiorno. Il tasso di crescita della Lega al Sud è “viziato” dal fatto che il “punto di partenza”, ovvero i risultati elettorali del partito ottenuti in passato, non raggiungono mai la doppia cifra, e talvolta faticano ad arrivare al 2%. Naturalmente questo comporta che, negli ultimi anni, la Lega sia uno dei partiti che cresce di più al Sud. Le ultime elezioni regionali hanno segnato una battuta d’arresto per le “mire espansionistiche” della Lega, sia nella Zona Rossa (con le sconfitte in Emilia-Romagna e Toscana) che nel Mezzogiorno (dove, però, nessun candidato presidente rappresentava espressione diretta della Lega). Se le Europee del 2019 avevano quindi indotto a pensare ad una conquista del Sud, le regionali di settembre impongono una battuta d’arresto. Ma in politica nulla è così prevedibile.
L’utopia dell’appartenenza nella politica della volatilità e del disincanto
Il Mezzogiorno è sempre stato caratterizzato da alti livelli di incertezza politica ed elettorale. Oggi più che mai appare complesso pensare ad un partito che possa riflettere negli elettori tassi di fedeltà e appartenenza come quelli che si registrano negli anni delle forti e radicate culture politiche. L’evoluzione della politica e della società sta mettendo, e ha già messo ampiamente in discussione, molte, se non tutte, quelle culture e appartenenze territoriali. Il contesto del Sud rimarrà, quindi, un’area di contesa elettorale, senza una rappresentanza partitica chiara. Un territorio dove, paradossalmente, potrebbe risultare più probabile una crescita elettorale del “partito del Nord” che una “entrata in scena”, che sia dirompente e di successo, di un nuovo “partito del Sud”.
[i] Su questo tema si veda in particolare V. Emanuele, B. Marino, Follow the candidates, not the parties? Personal vote in a regional de-institutionalized party system, in «Regional & Federal Studies», 26(4), 531-554.
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