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Andrà tutto bene? Sulla chiusura delle scuole in Campania


20 Ott , 2020|
| Visioni

Bilanci provvisori

A sette mesi dall’inizio della pandemia, disponiamo di materiale sufficiente per provare a stilare un primo provvisorio bilancio su quanto il Coronavirus, e tutto ciò che esso ha comportato, abbiano segnato il volto del Paese.

L’Italia è divenuta negli ultimi mesi più povera e, soprattutto, più diseguale.

Sono gli ultimi, finora, come era prevedibile, ad aver pagato il prezzo più alto della pandemia: gli anziani, i soggetti con patologie pregresse, gli immunodepressi, verso i quali la malattia si è manifestata con sintomi più gravi, ma anche i soggetti socialmente svantaggiati. Per i senza tetto, i migranti, i detenuti, le prostitute, rispettare le norme di prevenzione e le misure di distanziamento sociale non è stato sempre possibile. Alcune categorie di lavoratori hanno continuato a raggiungere il luogo di lavoro durante tutte le fasi dell’emergenza, talune volte usufruendo di mezzi pubblici affollati e sono risultati pertanto maggiormente esposti al contagio. I disabili hanno visto ridursi sensibilmente le forme di assistenza che venivano loro prestate prima del Covid. I lavoratori, in particolar modo quelli precari, si sono trovati a gestire con estrema difficoltà la conciliazione tra lavoro e vita privata. Le donne, in molti casi, sono state costrette a sospendere (o, peggio ancora, a lasciare) il  posto di lavoro. Le violenze di genere sono aumentate.

E i più giovani? In che misura siamo riusciti a tener fede a quella promessa – “andrà tutto bene”  – che, all’inizio della pandemia, i bambini avevano impresso sotto gli arcobaleni colorati, sulle lenzuola appese alle finestre delle città italiane, come a contrastare la paura e lo smarrimento collettivo?

Diversi studi hanno già dimostrato che i minori hanno vissuto come un macigno il peso psicologico del distanziamento. A partire dalla fase del lockdown, molti di loro hanno manifestato ansia, disturbi comportamentali e  somatoformi, alterazione del ritmo sonno-veglia, irritabilità e diversi sintomi di regressione.

Una condizione di disagio registrata, d’altra parte, da genitori e famiglie che, negli ultimi mesi, hanno costituito comitati, dato vita a manifestazioni e proteste per chiedere il ripristino, in condizioni di sicurezza, di una qualche forma di socialità, soprattutto attraverso la scuola: hanno reclamato, in primis, la  riattivazione della didattica in presenza.

E in effetti, seppur tra mille difficoltà (la parziale mancanza di strutture scolastiche adeguate; l’insufficienza dell’organico; le scarse tutele dei lavoratori nella scuola, alcuni dei quali assunti a termine attraverso i “contratti covid”) la scuola ha finalmente riaperto: a metà settembre, in buona parte delle regioni italiane, dieci giorni dopo in Campania, Puglia, Basilicata, Abbruzzo e Calabria.

Nonostante una gestione dei casi sospetti di Covid ancora migliorabile (poche, ad esempio, le regioni finora attrezzate per effettuare dei test antigenici rapidi negli stessi istituti scolastici), le prime settimane di didattica in presenza hanno registrato un aumento tutto sommato ridotto dei contagi tra gli alunni (circa lo 0,08%).

E’ arrivata allora come una doccia fredda l’ordinanza regionale n.79 del 15 Ottobre 2020, la quale  ha disposto, su tutto il territorio della Campania, l’interruzione, per la seconda metà di Ottobre, della didattica in presenza nelle Università (con esclusione dei corsi destinati agli studenti del primo anno) e nelle scuole di ogni ordine e grado.

Una misura in controtendenza rispetto alle posizioni dal governo centrale più volte illustrate dallo stesso Premier Conte, il quale aveva tendenzialmente escluso l’eventualità di lockdown generalizzati, prefigurando invece l’adozione di misure di restrizione pur rigorose ma riservate a zone ristrette e, soprattutto, motivate da specifiche esigenze.

La misura ha destato infatti la disapprovazione della ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, dello stesso premier Giuseppe Conte, e, come era prevedibile, le proteste delle famiglie, tanto energiche da indurre a ridimensionarne la portata solo poche ore dopo, attraverso un’integrazione che esclude l’applicazione della norma rispetto alle scuole e ai nidi d’infanzia.

L’ordinanza non solo impone alle famiglie, nuovamente, di affrontare una “conciliazione impossibile” tra la DAD e l’impegno lavorativo (e il prezzo più alto, c’è da scommettere, lo pagheranno anche stavolta le donne e i lavoratori precari).

Essa penalizza gli studenti: impone loro di passare diverse ore al giorno davanti al computer, in dispregio di tutte le avvertenze sui rischi di un abuso dei dispositivi elettronici in giovanissima età e soprattutto, li ricondanna a quel senso di straniamento e di solitudine che la didattica a distanza aveva generato.

Comporta inoltre il rischio di aggravare  quel divario già prodotto durante i mesi trascorsi di DAD, che naturalmente non può aver raggiunto in egual modo tutti gli studenti.

Disconosce e mortifica il lavoro portato avanti nelle ultime settimane da dirigenti scolastici, insegnanti, personale della scuola, studenti e famiglie perché la scuola potesse tenere aperte le porte. Infine,  in assenza di altre misure restrittive, rischia di aggravare la gestione degli assembramenti; è prevedibile infatti che, eliminando la didattica in presenza, l’esigenza naturale di socialità dei ragazzi si manifesti in altre forme. Come ha già notato la stessa ministra Azzolina “Gli studenti della Campania non sono nelle aule ma in giro nei centri commerciali”.

L’imperium paternale

Non è finora così chiaro quale sia l’emergenza specifica che abbia imposto l’adozione di una misura così improvvisa e tanto estesa.

La motivazione non può certamente essere rintracciata nel tasso dei contagi tra gli studenti, che in Campania si attesta intorno allo 0,075%, dato sostanzialmente allineato alla media nazionale.

La ratio non sembra neppure riconducibile alla necessità di non sovraffollare i mezzi pubblici, come il governatore ha affermato. La misura, infatti, riguarda anche le scuole primarie, che nella maggior parte dei casi vengono raggiunte dagli alunni e dagli insegnanti attraverso mezzi privati o veicoli destinati unicamente al trasporto degli studenti.

Quello che emerge, piuttosto, dall’ordinanza regionale, sembra una sorta di “sanzione collettiva” rispetto ai comportamenti dei cittadini, dal governatore ritenuti poco responsabili.

Ai cittadini campani sono già ben noti i modi di Vincenzo De Luca. Da sindaco di Salerno, nella sua rubrica settimanale, egli non mancava di commentare – con una certa teatralità – alcune delle violazioni di norme che si erano verificate in città (parcheggi in doppia fils, violazione delle disposizioni sulla raccolta differenziata, disturbo della quiete pubblica in tarda serata), non esitando a definire i trasgressori  di legge come “bestie”, “imbecilli” , “cafoni”.

Da governatore della Campania, De Luca è andato oltre. Non si è limitato ad adottare, durante tutta le fasi della pandemia, le misure più rigide di tutto il territorio nazionale. Sembra che abbia anche deciso di impartire ai campani delle vere e proprie lezioni di vita: vietando l’acquisto di dolciumi artigianali anche nei negozi rimasti aperti, aveva suggerito di preparare la Pastiera in casa “come facevano le nostre mamme”; enunciando le norme che regolavano l’attività fisica all’aperto, aveva espresso un malcelato disgusto nel constatare che i runner non fossero solo delle belle ragazze con dei fuseaux aderenti come si vedono nelle pubblicità, ma anche dei “vecchi cinghialoni” (dando prova di saper combinare, nella stessa frase, una discreta dose di sessismo e anche di body shaming).

E, infine, poche settimane fa, di fronte all’aumento dei contagi e, soprattutto, all’evidente affanno della sanità pubblica (problema atavico in Campania, ma decisamente peggiorato dopo il commissariamento della sanità, che ha comportato sì un riordino dei conti, ma attraverso un’insostenibile riduzione dell’offerta sanitaria), e forse galvanizzato dal consenso elettorale appena registrato, il governatore De Luca aveva tuonato che, al superamento della soglia dei 1000 tamponi risultati positivi, egli avrebbe disposto una “chiusura totale”.

Così è stato. O per meglio dire, l’ordinanza ha chiuso la scuola prima di ogni altra attività.

Quello che sembra sfuggire al governatore allora è che, in uno stato liberale di diritto (e questo l’Italia rimane, seppure in un momento di “emergenza”) le restrizioni della libertà personale e dei diritti fondamentali devono essere sempre motivate dalla salvaguardia della salute collettiva e adottate come extrema ratio, in casi limitatissimi. Esse non possono essere lo strumento per rieducare i cittadini. La liberalità dello Stato non consente quest’uso del diritto.

Facciamo un esempio che renda questo discorso più chiaro: De Luca può ritenere, da privato cittadino, che Halloween sia un’imbecillità e un’americana (sebbene la festa sia in realtà di origine celtica, secondo alcuni addirittura romana, derivante dai riti di Pomona, quindi europea d.o.c., ndr), ma non è questo a poter giustificare misure restrittive sui suoi festeggiamenti. Ciascuno sarà ugualmente libero di poterla festeggiare, seppur rispettando le norme di legge, per non incorrere nel rischio della sanzione.

Allo stesso modo, non si può ritenere di poter violare un diritto fondamentale come quello all’istruzione o addirittura di esautorare la scuola – un organo costituzionale, come la definiva Pietro Calamandrei – perché la misura possa essere un monito verso atteggiamenti ritenuti sconsiderati.

Non sfuggirà a De Luca, considerando i suoi studi in filosofia, la preoccupazione kantiana verso il pericolo sempre in agguato di questo esercizio paternalistico del potere politico. L’imperium paternale secondo Kant, è quello che considera i cittadini dei minorenni, e come tali li tratta. Esso rischia di produrre un’incolmabile asimmetria fra governante e governati. Quest’ultimi, ritenuti  «incapaci di servirsi del proprio intelletto», sono automaticamente privati della loro qualità di adulti e di cittadini, e considerati come mero oggetto della cura che può provenire dall’alto.

Secondo Kant (e secondo noi) il pericolo che il potere politico non si limiti a governare attraverso le norme, ma si arroghi illegittimamente la facoltà di suggerire ai cittadini quale stile di vita adottare attenta all’essenza stessa di uno Stato liberale. 

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