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Il partito dei lavoratori e gli utili idioti del Capitale
Quando Alberto Asor Rosa pubblicò nel 1977 il suo Le due società: ipotesi sulla crisi italiana nemmeno la fantasia del più fervido indiano metropolitano avrebbe potuto immaginare lo scenario di questi giorni. L’ipotesi di un virus in grado di paralizzare la vita del potentissimo e liberissimo Occidente, infatti, poteva affascinare un lettore di Urania, e non certo un compagno di movimento. Oltre quattro decenni dopo la fantascienza è realtà: anzi, parafrasando Marx, è farsa. Tralasciando l’enorme massa di argomenti sulla (pessima) gestione e sui (falsi) rimedi contro la (scontata, essendo in autunno) seconda ondata, vorremmo concentrarci sull’analisi sociale delle conseguenze della crisi, in accordo con quanto già scritto in merito al problema della classe rivoluzionaria.
Partiamo dal dato reale: chi preme per il cd. lockdown è di norma un soggetto che ha dalla propria parte la sicurezza del posto di lavoro e un certo benessere accumulato. Viceversa, chi si oppone è sovente un piccolo imprenditore- proprietario di attività al dettaglio e di commercio minuto, piccole imprese con pochi dipendenti-, un libero professionista o una partita iva. Dal punto di vista strutturale, la linea di faglia è tra garantiti e non, tra lavoratori dipendenti (pubblici e privati di grandi imprese) e unità produttive autonome. In più, l’enorme massa dei disoccupati e dei precari che tende naturalmente a salvaguardare quegli scampoli di normalità fittizia. Si può perciò affermare, generalizzando, che la gestione delle misure di contenimento (sic) del virus siano un’immensa cartina di tornasole della divisione in classi della società italiana. Anzi, la ratio e la misura dei provvedimenti mostrano la totale incuranza da parte dei governanti delle condizioni di vita della gran parte dei governati: si pensi alle farsesche discussioni sui doppi servizi, sui mezzi di trasporto, sulle case al mare in cui ricoverare gli anziani, come se la villa a Capalbio fosse patrimonio comune di ogni cittadino.
Ancora una volta, le forze della sinistra liberal hanno mostrato il loro volto intollerante: chiunque si ribelli, o osi quantomeno criticare i provvedimenti presi da un governo con ben poca legittimità popolare, va subito etichettato come “negazionista-complottista-fascista” e segnalato alle forze dell’ordine (borghese). Per i pochi compagni che ancora credono nella possibilità di una costruzione dalla base di una forza socialista, e perciò democratica e costituzionalmente orientata alla giustizia sociale, tutto questo non può andare bene. Riteniamo perciò opportuno individuare almeno una proposta di linea per un confronto scevro da ogni pregiudizio ritardato verso le classi più sensibili ai problemi attuali.
Sfruttamento e lavoro autonomo
La classe operaia non può più essere la classe generale della società perché, semplicemente, è stata indebolita dalle riconversioni industriali e dai nuovi processi produttivi. Da allora, ogni soggetto di sinistra – radical o moderato che sia – non è più riuscita a individuare un corpo sociale con cui confrontarsi e costruire un’alternativa. Il ripiegamento, del tutto strumentale e pertanto ipocrita, sul tema delle libertà individuali e dei diritti civili è servito soltanto come cortina fumogena per nascondere il vuoto pneumatico del tradimento. Se si vuole riorganizzare un movimento di classe di critica al sistema, si deve affrontare seriamente il problema dei lavoratori autonomi: partite iva, piccoli imprenditori, proprietari di attività al dettaglio e via discorrendo. Non si tratta più, come negli anni Ottanta, di evasori in grado di guadagnare cinque o sei volte il salario di un operaio: nella gran parte dei casi, il piccolo commerciante e l’avvocato di provincia senza protezioni ed eredità familiari sono redditualmente posizionati sotto un lavoratore dipendente. In più, non avendo alcuna protezione contrattuale, non possono beneficiare dei sacrosanti diritti sanciti – seppur in misura minore rispetto al passato – dai CCNL di categoria. Se v’è una classe “proletarizzata”, ebbene essa è quella sopra descritta. Stretti tra l’ossessiva pervasività del fisco e la concorrenza totalitaria dei grandi monopoli multinazionali, colpiti a fondo dalla crisi di domanda strutturale che attanaglia la società italiana grazie ai vincoli europei, i working poors del 2020 non sono soltanto i rider, gli stagisti e i salariati con contratti da fame: occorre dunque considerare – e dialogare – anche con i lavoratori autonomi. Non a caso, nell’esplosione di rabbia svoltasi nella notte di Napoli, la saldatura tra sottoproletariato e piccola borghesia è avvenuta perché la seconda:
“[ha] negli ultimi anni dimostrato attitudine allo scontro (si pensi ai Forconi) [e ciò] deriva dal fatto che a) sia la fascia sociale che abbia visto più rapidamente decadere il suo status con la crisi (mentre i lavoratori dipendenti sono ormai pressati da decenni, iper-controllati sul posto di lavoro, spesso frenati dai sindacati nell’organizzarsi); b) la sua cultura sia egemone in Italia e in particolare a Napoli, dove esistono ancora molte categorie di autonomi rispetto ad altri paesi europei in cui la dimensione di impresa è più grossa e ci sono in proporzione più lavoratori dipendenti.”[1]
La stessa base sociale che ha decretato un grosso avanzamento della Lega tra il 2014 e il 2018 era, in gran parte, costituita da ceti medi impoveriti e orfani di rappresentanza politica. Quello che era un tempo la mediazione politica della DC e poi, in misura diversa, di Forza Italia, è oggi assente perché non più praticabile nello scenario di monopolizzazione spinta del profitto. La distruzione creatrice di schumpeteriana memoria passa così dalla eliminazione di ogni soggetto intermedio tra il consumatore e la grande multinazionale. Nel Manifesto Marx aveva intuito che
“Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.”
Processo logico nel capitalismo, impedito e ribaltato solo durante il trentennio keynesiano e la gestione sociale dell’economia, che oggi riemerge in tutta la sua forza. Negare la tendenza oggettiva del modo di produzione significa così regalare alla reazione ingenti masse dal potenziale rivoluzionario.
Armonia di interessi tra lavoratori dipendenti e autonomi
Il conflitto sezionale tra autonomi e dipendenti serve, come tutte le divisioni orizzontali, a perpetuare il dominio delle classi dominanti. Una proposta di composizione dello scontro tra diversi settori del mondo del lavoro passa così dalla determinazione delle rivendicazioni comuni. Brevemente si può riassumere che esse possono e devono, insieme, lottare per ottenere quello che da quarant’anni manca in Italia: il partito dei lavoratori, la cui base di classe si rintraccia nella comunità di chi lavora per vivere. La demarcazione tra rendita e lavoro, come già delineato in Costituzione, rappresenta la linea del Piave su cui concentrarsi. Il rentier, colui che sfrutta le sue ricchezze e trae profitto dall’impiego del capitale accumulato, è il nemico di classe a cui contendere il governo della cosa pubblica. A chi interessa infatti distruggere le piccole attività di quartiere, i limiti alla concorrenza inumana nelle professioni e la tutela pubblica di alcune produzioni tipiche? Ai poteri indiretti del finanzcapitalismo, gli stessi che hanno distrutto le garanzie di civiltà dei lavoratori dipendenti attraverso l’egemonia del pensiero unico neoliberale. Il partito dei lavoratori nasce e vince se si uniscono finalmente le istanze di tutti gli sfruttati. Salari dignitosi, piena occupazione, diminuzione delle ore di lavoro, servizi pubblici civili sono diritti che interessano tutta la classe lavoratrice, e devono tornare a essere la bandiera di ogni lotta. Diritti economici che si saldano così ai diritti civili e alle libertà garantite dalla Costituzione, proprio nell’ora in cui si delinea una seconda e gravissima violazione di tutte le libertà.
Il problema della coscienza di classe
Per saldare le componenti del mondo del lavoro serve necessariamente coscienza di classe. E questa, si badi bene, può venire solo dalla costruzione di una contro-egemonia che rimuova le false coscienze liberali purtroppo presenti in tutti i settori. Sia nel milieu del salario che in quello del lavoro autonomo occorre quindi rimuovere le ragioni dei conflitti sezionali e costruire incessantemente una piattaforma comune di convergenza. Su questo punto si può aprire un discorso comune e costruttivo, senza tuttavia cadere nei luoghi comuni che hanno per anni consegnato tali segmenti a forze opposte ai loro interessi. I socialisti devono al momento abbandonare vecchie retoriche superate dai fatti, gli autonomi e i liberi professionisti, simmetricamente, devono comprendere che non sono né potranno mai essere dei Gianni Agnelli in sedicesimo: l’unica ancora di salvezza per la loro esistenza passa dalla consapevolezza del proprio stato di subalternità al Capitale. Da lì all’unione con i salariati organizzati e i disoccupati il passo potrà esser breve trovando un soggetto politico accogliente e non divisore.
Conclusione
Nel 1946 Lelio Basso poteva affermare che
Ai ceti medi, come del resto agli impiegati (che quasi sempre solo una mera parvenza, un fatto puramente esteriore distingue dall’operaio, al quale li lega la stessa dipendenza dal capitalista e la stessa insicurezza del domani) non resta che unirsi al grande esercito dei lavoratori, al proletariato e riconoscersi proletari, abbandonando ideologie, che sono più di retaggio di tradizioni superate e manifestazioni di una retorica da strapazzo, che non la reale espressione di legittimi interessi spirituali […]essi devono appunto rinunciare alla pretesa di costituire la spina dorsale della società borghese, rinunciare alla funzione di mediatori fra capitalisti e lavoratori, che si risolve in definitiva in una funzione di cani da guardia della società borghese, e assumere invece il proprio posto nella lotta rivoluzionaria contro questa società, accettando la guida politica del proletariato, che è la classe più preparata a questo compito.[2]
A differenza di allora, non esiste una classe già pronta che assuma su di se il compito rivoluzionario di costruzione del Socialismo. A uno stato di difficoltà ulteriore, però, si può controbattere attraverso l’impegno e la volontà decisa di costruire una società libera e giusta, in cui “il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti”. Per fare questo bisogna lavorare per esasperare le contraddizioni della società capitalistica oggi in crisi, rialimentando a livello di senso comune l’attesa verso una società più giusta e solidale. A tal fine serve l’unità di tutti i subalterni e di tutte le persone che abbiano a cuore i valori iscritti nella nostra Costituzione. Chi ancora ciancia di bottegai e kulaki rischia di fungere da utile idiota del Capitale: e i lavoratori italiani, modestamente, tanto idioti non sono.
[1] https://contropiano.org/news/politica-news/2020/10/24/ero-in-piazza-a-napoli-prime-riflessioni-0132895?fbclid=IwAR36OjXde82r_nrFcw_X7t-7hM6XaN91nlZBYh6flg8UltUnOk1KtYUQWzs
[2] L. Basso, La politica dei ceti medi, Libreria editrice Avanti!, Roma, 1944.
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