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MES, capitolo chiuso?


2 Nov , 2020|
| Visioni

La Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) deliberata dal consiglio dei ministri il 5 ottobre e il successivo Documento programmatico di bilancio non prevedono l’utilizzo della linea di credito del Mes per il potenziamento della sanità. Nelle 200 pagine dei due testi il Mes non viene nemmeno nominato, diversamente dagli altri strumenti predisposti dall’Unione Europea per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia. In sostanza, con questi due provvedimenti il governo esclude ufficialmente il ricorso al Mes dalla manovra di finanza pubblica per il triennio 2021-2023. <<Per ora il Mes non serve; e comunque c’è tempo fino a dicembre 2022>>, ha dichiarato il Ministro dell’economia nel corso dell’audizione in Parlamento il 12 ottobre. Il giorno successivo, in occasione della comunicazione del Presidente del consiglio alla Camera in vista del Consiglio europeo, Brunetta e Lupi hanno presentato una risoluzione che avrebbe impegnato il governo al tempestivo utilizzo della linea di credito del Mes per le spese sanitarie direttamente e indirettamente imputabili all’epidemia da Covid-19. Con il parere negativo del Ministro per gli affari europei, che si è espresso per conto del governo, e con 409 voti contrari e soltanto 81 favorevoli la risoluzione è stata respinta. Non se ne parla più; argomento chiuso. Lo ha ribadito Conte nella conferenza stampa del 18 ottobre sulla manovra di bilancio: il ricorso al Mes per finanziare spese sanitarie aggiuntive rispetto a quelle già stanziate a legislazione vigente implicherebbe aumenti del deficit e del debito che sarebbero incompatibili con i valori già elevatissimi stabiliti dalla manovra di bilancio. Fare spazio ai fondi erogati dal Mes senza sfondare deficit e debito programmati, come ha detto Conte, <<significa introdurre prima o poi nuove tasse e tagli di spesa>>.

La determinazione del governo risulta difficilmente comprensibile per l’opinione pubblica anche perché è stato pressante l’orientamento nella direzione opposta proposto da una campagna mediatica che ha ignorato (o non capito) le reali motivazioni della svolta governativa. Da un lato, la gente avverte l’esigenza di potenziare i presidi sanitari a seguito della riaccensione della pandemia e, dall’altro, vede il rifiuto di accedere ad un finanziamento finalizzato alla sanità che potrebbe arrivare in tempi brevi (seppure rateizzato in sei mesi) e a tassi di interesse molto contenuti. Ci sono motivazioni ragionevoli dietro la decisione del governo o ci sono soltanto opportunismi politici ? In realtà, la decisione è fondata su vincolanti esigenze economiche facilmente comprensibili se si alza lo sguardo dal presente e si mettono in prospettiva temporale le conseguenze sugli equilibri finanziari prospettici che saranno prodotte, nei prossimi anni, dalle scelte di finanza pubblica effettuate nell’emergenza contingente. Si tratta di motivazioni pregiudiziali che stanno a monte di ogni altra considerazione; motivazioni che sgombrano definitivamente il tavolo da ogni discussione in merito alle eventuali condizionalità, alla sorveglianza rafforzata, ai calcoli di convenienza economica, all’effetto stigma, alla condizione di creditore privilegiato e alle dirette conseguenze sul costo del debito ordinario. Non si fa perché non si può fare; non ci sono le condizioni. Punto.

Chi invoca il Mes (36 miliardi) ed esulta per l’ex Recovery Fund ora Ngeu (209 miliardi) sembra aver dimenticato che soltanto pochi mesi fa dovevamo fare i conti con vincoli di bilancio stringenti (deficit e debito) cui ci richiamavano sia la Commissione europea, sia le pressioni sul costo del debito da parte del mercato dei titoli di stato. La lettura della Nadef mette in chiaro l’impatto  che i prestiti europei eserciterebbero sul deficit e sul debito e aiuta a fare un bagno di realtà; aiuta a mettere i piedi per terra e a moderare gli entusiasmi per la <<pioggia di miliardi>>. Nella redazione dei piani di finanza pubblica il governo non può prescindere dalla considerazione che la sospensione delle regole di bilancio europee è assicurata soltanto per il prossimo anno e il programma anti-pandemico di acquisto di titoli da parte della Bce è garantito soltanto fino a giugno 2021. Chiusa questa parentesi di neutralizzazione dei dogmi su cui si regge l’architettura dell’eurozona (contenimento dei debiti pubblici e indipendenza della banca centrale), si tornerà alle regole pre-Covid, ma arriveremo al redde rationem con un livello degli squilibri di finanza pubblica enormemente aumentato. Per questi motivi la redazione della Nadef – sotto l’occhio vigile della Commissione – ha dovuto contemperare due esigenze: sostenere l’economia con una finanza pubblica che sia espansiva ma non fino al punto di pregiudicare la possibilità di portare deficit e debito, in tempi ragionevoli, su un sentiero di riequilibrio. Il deficit e il debito saranno spinti a fine anno a livelli di record storico, rispettivamente al 10,8% e al 158% del Pil. Secondo i programmi del governo il debito in rapporto al Pil crescerà dal 134,8% del 2019 al 158% del 2020. Crescerà di 23,2 punti percentuali in un anno. In un solo anno si determinerà pressoché lo stesso incremento che si è cumulato nel corso di 10 anni dal 2008 al 2018 (+24,1 punti percentuali) e la previsione potrebbe risultare ampiamente ottimistica. Oltre questi limiti non si ritiene di poter andare considerando che, ai livelli programmati dalla Nadef, occorreranno ben 10 anni per riportare il rapporto debito/Pil ai valori del 2019. Non c’è spazio per ulteriore debito. Perfino l’utilizzo della quota a debito del Ngeu (127,6 miliardi) è rinviato dalla Nadef, per quasi il 70%, al triennio 2024-2026. Il che equivale a dire all’Unione Europea: grazie per gli aiuti che ci proponete, ma non ce li possiamo permettere; ne riparleremo fra tre anni e vedremo se sarà possibile utilizzarli tenendo conto che si tratta di prestiti e che vanno ad aumentare il debito pubblico. Viene infatti precisato nella Nadef che si farà ricorso a questi fondi soltanto nella misura in cui  sia possibile sostituire con questi prestiti il finanziamento di programmi di spesa già deliberati (a legislazione vigente) in modo da non impattare sull’indebitamento netto. Proprio per questo motivo sono stati invece richiesti i fondi del prestito Sure perché, essendo il loro utilizzo destinato a sostituire le somme già raccolte e stanziate per la cassa integrazione, non genereranno né nuovo deficit, né nuovo debito. Anche per questo motivo 16 paesi hanno fatto ricorso al Sure e nemmeno uno ha attivato la linea pandemica del Mes. Insomma, se e quando saranno attivati, i prestiti europei non verranno destinati al finanziamento di nuovi investimenti aggiuntivi ma alla sostituzione di debito già contratto con il mercato con debito europeo meno oneroso.

Se si facesse ricorso al Mes il deficit salirebbe al 13% e il debito al 164%, valori molto più alti di quelli programmati dalla Nadef e probabilmente non avallabili dalla Commissione europea. In sostanza, bisognerebbe “aggiornare di nuovo” l’aggiornamento al Def approvato soltanto pochi giorni fa e sarebbe necessario ottenere, preventivamente e informalmente, il parere positivo della Commissione per non avere, poi, una probabile bocciatura ufficiale. Ma c’è un’altra domanda che ci si deve porre: siamo certi che sarebbe possibile (e sensato) dimostrare e rendicontare 36 miliardi di spese che siano connesse al contrasto del Covid-19 ? 36 miliardi in rapporto ad una spesa complessiva di 120 miliardi per la sanità (il 30% in più) ? Spese che, per di più, dovrebbero essere una tantum per non gravare sul sentiero di rientro del deficit e del debito. Siamo certi che il Mes e la Commissione lo consentirebbero ? Curiosamente si tratterebbe all’incirca della stessa cifra (37 miliardi) che, secondo un report della fondazione Gimbe, è stata sottratta negli ultimi 10 anni alla crescita del finanziamento del sistema sanitario; crescita che sarebbe stata necessaria per mantenere, non per aumentare, la qualità dei servizi. E lo si è fatto per ragioni di equilibrio del bilancio pubblico sotto la pressione della Commissione e delle regole europee di finanza pubblica.

Per il finanziamento della  sanità nel 2020 il governo ha già stanziato 5,4 miliardi in più rispetto al 2019 (7,1 miliardi complessivi nei prossimi 4 anni). Si tratta di importi già compresi nei saldi di finanza pubblica programmati dalla Nadef. Se fosse necessario ed urgente aumentare ancora di più la spesa sanitaria, il governo potrebbe farlo, senza indebitarsi ulteriormente, utilizzando soldi che ha in cassa: a fine settembre aveva sul conto di tesoreria in Banca d’Italia una giacenza di circa 80 miliardi derivante dal fatto che il Tesoro ha emesso titoli in misura maggiore rispetto alla concreta capacità di spesa dei fondi stanziati nel corso dell’anno con i vari decreti a sostegno dell’economia. Insomma i 36 miliardi che ci verrebbero concessi dal MES li abbiamo già sul conto corrente, anzi ne abbiamo il doppio. Non solo non c’è la pioggia (di miliardi) ma non c’è nemmeno la siccità, non manca la liquidità e la capacità di procurarla. Anche volendo ricorrere al debito ulteriore, oltre i limiti stabiliti dalla Nadef, il governo potrebbe farlo a tassi di interesse negativi. Gli investitori istituzionali sono infatti disposti a pagare pur di aggiudicarsi i titoli di stato italiani per scadenze fino a 4 anni. Evidentemente scommettono su ulteriori ribassi dei tassi di interesse sul nostro debito, ribassi che farebbero aumentare il prezzo dei titoli sottoscritti generando un guadagno in conto capitale. E sarebbero debiti contratti senza condizionalità di alcun genere, senza sorveglianza rafforzata e senza ricorrere ad un organismo pensato e regolamentato per soccorrere e disciplinare paesi dell’eurozona non più in grado di accedere al mercato finanziario. L’Italia non si trova in questa condizione e l’esito delle aste nel corso del 2020 indica che la domanda di titoli di stato italiani da parte degli investitori è di gran lunga superiore agli importi emessi e i tassi di aggiudicazione sono in costante diminuzione. Dopo che il governo ha accantonato il ricorso al Mes per le fondate ragioni economiche sopra richiamate, ai sostenitori irriducibili non rimane altra argomentazione se non quella che non vogliono o forse non possono dichiarare: l’opportunità che il Mes offre di incanalare la nostra finanza pubblica verso un percorso di sorveglianza rafforzata da parte delle istituzioni europee. In tal modo, con la cessione da parte nostra della residua sovranità fiscale, si potrebbe arrivare ad una drastica correzione degli squilibri secondo i principi e le regole europee nel caso in cui, come è molto probabile, le previsioni del governo si rivelassero eccessivamente ottimistiche e fondate su ipotesi non realistiche. Il sentiero di riduzione del debito delineato dalla Nadef poggia infatti su due condizioni auspicabili ma invano attese da molti anni: crescita e inflazione. In assenza di queste due travi portanti del progetto governativo, verrebbero riproposte le sole terapie che l’Unione Europea conosce: austerità e svalutazione interna; questa volta in dosi da cavallo. Non credo che sarebbe facile convincere il paziente.

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