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Rivolte senza direzione di marcia
Le piazze di questi giorni, pur con tutte le contraddizioni già rilevate da molti, sono una impietosa cartina di tornasole della bruciante sconfitta della sinistra nel nostro paese, ma anche delle profonde trasformazioni intercorse nei rapporti sociali e nelle relazioni politiche.
Certo nelle piazze stanno andando in scena istanze generalmente legittime. Chi rischia di chiudere la propria attività, chi non potrà mai aprirne una, chi perderà quell’unico lavoro precario, che è riuscito a trovare, chi vede cancellare anche la esile trama di una vita al limite, sempre minacciata di essere sommersa dal flusso sopravveniente della competizione globale.
Nelle piazze c’erano anche le tante forme dell’odierno sfruttamento del lavoro, o meglio dell’estorsione del lavoro nelle sue forme più odiose, vilipese, mortificanti: quelle che ti tolgono finanche la proprietà della tua vita e di te stesso.
Eppure la protesta sociale che è andata in scena non sembra avere in sé, pur nelle molte varianti, lo stigma del cambiamento. Non c’è visione alternativa.
Storicamente le alleanze sociali tra ceti oppressi e conculcati – si pensi alle rivoluzioni borghesi dell’età moderna- erano progressive e progressiste, si saldavano attorno ad una visione di trasformazione economica e sociale, che si dischiudeva seppure sotto l’ala protettiva della classe borghese. La difesa degli interessi proprietari delineavano comunque una prospettiva di sviluppo anche per coloro che proprietari non erano, anzi che erano di proprietà di qualcuno.
Oggi tutte le istanze rappresentate nelle piazze italiane parlano di diritto alla vita e al lavoro, denunciano l’oltraggio perpetrato contro i sacrifici fatti finora, rivendicano con orgoglio la dignità di chi vive del proprio lavoro. Ancor di più: dicono che il patto sociale si è rotto e che a questo punto la ribellione può tracimare.
Eppure parole d’ordine che rivendicano diritti si mescolano, come vino al fiele, a istanze corporative, anti-sociali ed antisolidaristiche, lasciando trapelare pure accenti qualunquistici.
Allora ecco qui la rappresentazione plastica della depoliticizzazione, pesante come una condanna a morte, che da diversi decenni semina incontrastata vittime: coscienza politica, visione di futuro, cittadinanza attiva, senso di appartenenza ad una comunità politica.
Questa depoliticizzazione è il portato di una sedimentazione storica di fallimenti e tradimenti, di falsificazioni e di assimilazione ai meccanismi riproduttivi del potere e all’ordine simbolico dominante, che, inseparabilmente, impediscono la costituzione della politica, il vivere in comune, l’interpretazione della realtà e l’intervento nei suoi processi per modificarla.
Persino Durkheim aveva ben percepito il rischio di dissociazione che pende come una tagliola sulle società moderne. Una forma di “disaffiliazione”, di disancoraggio – generalmente legata a disfunzioni del/nel mondo del lavoro- che deriva dalla perdita da parte degli individui di regolazioni collettive, di basi, di supporti, di riferimenti.
Se a partire dal XIX secolo gli individui hanno potuto accedere allo status di individuo, ciò è dipeso dall’essere stati parte di “sistemi di regolazione collettiva che hanno fornito loro le basi necessarie per esistere da se stessi”.[i]
Lo sviluppo strutturale del modo di produzione capitalistico sta facendo uscire dal suo vaso di Pandora l’erosione dei diritti sociali e delle protezioni collettive e con essa la crisi del concetto stesso di individuo, che pure la borghesia aveva teorizzato[ii]: dell’individuo, riconosciuto come portatore di diritti universali, estesi a tutti, anche ai non proprietari, e come potenziale soggetto politico.La Costituzione italiana nel porre il principio personalista, lega lo svolgimento della personalità umana alle formazioni sociali in cui essa si realizza, ne valorizza i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale verso la comunità, sino al suo impegno in organizzazioni sociali e politiche.
Nella decostruzione di questo tipo di soggetto il colpo mortale è stato assestato dall’inarrestabile processo di polverizzazione e scomposizione delle classi lavoratrici, divise da contratti e modalità di ingaggio talmente diversi tra loro da aver irraggiato la competitività persino tra coloro che ne erano le principali vittime. Ognuno col suo piccolo privilegio di schiavo da difendere contro gli altri. La guerra di tutti contro tutti, dell’ultimo nei confronti del penultimo. Ma anche attraverso forme subdolissime di ingaggio come il lavoro delle piattaforme, a cottimo, somministrato, il lavoro in false cooperative e con false partite IVA,di interposizione insomma, che esimono i datori di lavoro dall’assunzione diretta dei dipendenti e quindi dal riconoscimento di diritti e della loro presa in carico. Ciascuno è solo sul mercato globale nel disperato tentativo di non lasciarsi sopraffare dall’onda assassina dell’estrazione di valore, ma soprattutto è convinto di non avere più una reale controparte. Non è l’impresa, che ha affidato l’appalto alla mia cooperativa, non è nemmeno la cooperativa, di cui io non sono formalmente un dipendente, ma un lavoratore autonomo, non è una piattaforma, non lo è chi mi ha costretto ad aprire una partita IVA….
Nelle piazze italiane c’erano insieme la vittima e il carnefice: le imprese piccole e medie del variegato mondo della ristorazione, del commercio, del turismo ( vittime a loro volta, ancor prima dello scoppio dell’epidemia, di una bassa produttivà, di strutture precarie, di una fragile sostenibilità economica), e i lavoratori/trici precari che quelle stesse imprese hanno assunto con contratti a termine, spesso a nero, sottopagati.
Oltre all’abolizione delle varie misure di chiusure disposte dal governo, le nostre piazze, perlomeno nella loro componente più spontanea, non hanno lanciato strali contro Confindustria, contro la sua insaziabile voracità nel prosciugare le casse e le funzioni dello stato, né hanno richiesto una qualche forma di patrimoniale o di ridistribuzione della ricchezza. Eppure la tracotanza padronale ha offerto in questi mesi una delle migliori rappresentazioni di sé. Bonomi ha apertamente rivendicato la libertà d’azione dell’impresa senza limite alcuno nei confronti dei lavoratori, ha espressamente parlato di outplacement, come di una prerogativa illimitata dell’impresa, di abbandono dei contratti collettivi di lavoro, di lavoro somministrato come preferibile tipologia di assunzione.
Cose da rivoluzione in altri tempi!
Dalla conciliazione alla convergenza degli interessi di classe, sino all’identificazione nella classe dominante, nel suo status, nei suoi valori, nei suoi privilegi. L’iter di questa capitolazione è tutto imputabile a chi avrebbe dovuto ostacolarlo, la sedicente sinistra sindacale e politica, se non fosse stata essa stessa colonizzata culturalmente e resa cinghia di trasmissione dei sistemi di riferimento e delle gerarchie valoriali dominanti.
Rivolte senza indirizzo, dunque, ancora interne all’ordine sociale dominante ed ai suoi meccanismi riproduttivi, alleanze senza sbocchi.
Eppure questi modi “di non esistere”, che sono stati rappresentati nelle piazze italiane, la dicono lunga sulla deriva della crisi in corso, sull’acuirsi delle contraddizioni intercapitalistiche, dei mercati finanziari, sulla inconciliabilità della dittatura del profitto con le istanze della vita, della salute, del lavoro.
Se queste rivolte non hanno una direzione di marcia, sono però sospinte da una marcia innescata dalla crisi di un modello economico senza sbocchi.
[i] R. Castel, C.Haroche, Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé, Macerata 2013 p.80)
[ii] R.Fineschi, Persona, razzismo, Neo-schiavismo: tendenze del capitalismo crepuscolare, in Sinistra in rete, 2020. sinistrainrete.info/articoli-brevi/18686-roberto-fineschi-persona-razzismo-neo-schiavismo-tendenze-del-capitalismo-crepuscolare.html
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