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Patrimoniale e libera circolazione dei capitali: un cancello nella prateria
Gli ingenti costi economici delle necessarie misure anti-contagio impongono una riflessione sulle fonti di finanziamento per lo Stato. Com’è ovvio, eterogenee sono le ricette proposte dalle varie aree dell’arco politico-parlamentare. Proviamo a ricapitolare le varie posizioni in campo.
A destra si fa leva sulle istanze più libertarie e si cerca di bypassare il problema, negando (se non l’esistenza del virus, almeno) la necessità delle misure anti-contagio adottate: l’economia deve continuare a (s)correre, business as usual. Il centro-destra e il centro (da Forza Italia al PD), invocano a gran voce il ricorso al MES come irrinunciabile panacea. Il Movimento 5 Stelle punta, invece, tutte le sue fiches sul Recovery Fund: strumento europeo ancora ben lungi dall’essere realmente utilizzabile e che, con buona pace del M5S, propone un misto tra prestiti e fondo perduto, le cui criticità, in larga parte, sono non dissimili da quelle riscontrabili nel MES. La sinistra ripropone, invece, un grande classico: la patrimoniale.
Ora, tralasciando per ragioni di economia espositiva l’inconsistenza e/o insufficienza e le controindicazioni delle ricette proposte da destra, centro-destra e M5S, ci concentriamo sull’unica, tra queste, che sembra prima facie orientata al buon senso, alla solidarietà e al principio costituzionale di progressività fiscale: la patrimoniale.
In linea di principio, un’imposizione patrimoniale una tantum o, più in generale, una maggiore progressività fiscale sono eticamente, costituzionalmente ed economicamente degli auspicabili strumenti di perequazione sociale e redistribuzione delle ricchezze.Di più: è vero che siamo di fronte ad una sempre maggiore accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi. Ad ogni crisi, i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e la classe media va assottigliandosi e schiaccandosi al ribasso.
Questa ricostruzione ha il merito di rilevare un problema che ha ormai raggiunto dimensioni drammatiche: le enormi disuguaglianze socio-economiche che investono la (quasi) totalità dei paesi occidentali. A partire da questi legittimi presupposti, si dipanano diverse vie per un’imposizione patrimoniale: in quasi[i] tutte le proposte si fissa, per prima cosa, una soglia a partire dalla quale attuare il prelievo impositivo sul patrimonio. Si definisce, poi, la base imponibile: mobiliare, immobiliare o complessiva. Com’è noto, nell’eventualità in cui si ancori la base imponibile all’intero patrimonio (o alla sola composizione immobiliare dello stesso), si ingenera un evidente problema di liquidità per il soggetto inciso dall’imposta, certamente acuito dalla situazione sanitaria ed economica che stiamo vivendo. Si pensa, allora, possa essere più equa ed efficace una patrimoniale sui valori mobiliari di più immediata liquidità.
Tuttavia, nell’attuale regime di libera circolazione dei capitali, imposto dall’Unione Europea, misure come la patrimoniale (specie se sganciate da valori immobiliari) hanno la stessa efficacia di un cancello in una prateria.
Infatti, in dottrina tributaria e nella letteratura specialistica, è pacifico che la mobilità dei capitali (e quindi della base imponibile) è direttamente proporzionale alla capacità contributiva[ii]: in altri termini, più si è ricchi più aumenta la mobilità transfrontaliera e l’agilità dei propri capitali, liberi di spostarsi fuori e dentro l’UE. [Si pensi, d’altronde, a quando (mai) e quanto (poco) abbiamo approfittato nella nostra vita della libera circolazione dei capitali: ciò dovrebbe far riflettere su chi tragga vantaggio da questo liberalissimo sistema UE.]
Dunque, queste misure, lungi dall’attaccare i nuovi latifondisti economico-finanziari, finiscono, nei fatti, per colpire solo chi va a sbattere contro il cancello: ciò che rimane di una classe media sempre più impoverita.
Eccoci, così, al paradosso per cui un provvedimento che nasce, a monte, come improntato a progressività e redistribuzione, finisce per risolversi, a valle, come una misura dagli effetti economicamente regressivi, a tutto discapito di una classe media già fiaccata da anni di austerità e politiche “lacrime e sangue”.
Risultato? Aumento delle disuguaglianze tra élite dei super-ricchi e classi subalterne (in cui il ceto medio si schiaccia al ribasso sul proletariato, mentre quest’ultimo scivola sempre più in povertà assoluta).
Una patrimoniale sui valori mobiliari, in un regime di libera circolazione dei capitali, come quello dell’Unione Europea, si può intendere come un pendolo che oscilla tra inefficacia (nel caso in cui si opti per una soglia di imposizione particolarmente alta) e regressività (nel caso in cui si opti per una soglia impositiva bassa, che arrivi a incidere sul ceto medio).
Si potrebbe obiettare che optare per una patrimoniale con soglia impositiva molto alta non avrebbe vere controindicazioni diverse dalla scarsa efficacia e dall’esiguo gettito: anche al netto del valore simbolico, è vero che poco è comunque meglio di niente. Tuttavia, è anche chiaro che, proprio per il valore simbolico, la misura potrebbe essere adottata solo al prezzo di un alto investimento in termini di capitale politico (già particolarmente limitato per l’area politica che ne propone l’adozione). A questo punto, c’è da chiedersi che senso ha investire il proprio (limitato) capitale politico sul prendere qualche spiccio da quei pochi-tra-i-pochi che, quasi volontariamente, si sottometterebbero all’imposizione fiscale, come fosse un’elemosina. Non sarebbe, invece, il momento di investire tutte le proprie energie e il proprio capitale politico sul ridiscutere questo sacro totem della libera circolazione dei capitali, vera pietra angolare dell’assetto ordoliberista della UE?
Si fa un gran parlare di patrimoniale, ma nessuno si azzarda a mettere in discussione quelle previsioni che sterilizzano, di fatto, ogni eventuale intento perequativo e redistributivo.
Ancora una volta, va smentito con forza il mistificatorio mantra secondo cui non ci sarebbero i soldi per uscire dal drammatico ricatto tra salute ed economia, “la borsa o la vita”. I soldi per le fasce più deboli e non garantite ci sarebbero anche, ma manca la volontà politica di dotarsi degli strumenti necessari per andarli a sottrarre al latifondo economico-finanziario.
NB: Chi pagherà allora il costo della crisi? Lo Stato, a differenza di una famiglia o di un’impresa, ha (o dovrebbe avere) una fonte di finanziamento ulteriore: la creazione di moneta ex nihilo. Pertanto, a parere di chi scrive, la soluzione realmente auspicabile, a breve termine, sarebbe la monetizzazione di tutto il deficit necessario a “congelare” e indennizzare l’economia per il periodo di chiusura forzata. Insomma, più che di solidarietà, avremmo bisogno di una Banca Centrale.
[i] per un’eccezione a questa via, si veda la proposta di Giuseppe D’Elia, pubblicata per La Fionda e disponibile al seguente link: https://www.lafionda.org/2020/11/06/contributo-di-solidarieta-dell1-ecco-lalternativa-al-mes-120-miliardi-in-3-anni/?fbclid=IwAR2lrvAajkxxZXtTJb58ws9sm2tP6Sg9GkLVA2YY34kl4vFxo7w032JuH6k
[ii] Ex multis, si veda, ad esempio, A. Alstadsæter, N. Johannesen, and G. Zucman, Tax Evasion and Inequality, in American Economic Review 2019, 109(6), pp. 2073–2103: “The probability of hiding assets offshore rises sharply and significantly with wealth, including within the very top groups of the wealth distribution”.
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