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Il voto spacca l’America del malessere

Joe Biden si appresta a fare il suo ingresso, il prossimo 20 gennaio, alla Casa Bianca come 46esimo presidente degli Stati Uniti al termine di uno dei voti più contesi e controversi della lunga storia degli States. Ma l’avvicendamento tra Donald Trump e l’ex vicepresidente di Barack Obama a seguito del voto del 3 novembre scorso non segnala solo la chiusura della parentesi presidenziale dell’ex tycoon newyorkese. Esso avviene al termine di un voto contraddistinto da una mobilitazione elettorale senza precedenti, in cui entrambi i candidati hanno fatto un’enorme pressione sulle proprie basi e hanno dato fondo a tutti gli arsenali politici e retorici per chiamare alle urne i propri sostenitori; nel pieno di un’annata che ha portato in emersione tutte le enormi polarizzazioni degli Usa piegati dalla pandemia, fiaccati dalla crisi economica e posti di fronte alle asimmetrie sociali ben manifestate dalle proteste “razziali” della primavera e dell’estate scorsa.
Un’America disunita, dunque, in cui si possono individuare polarizzazioni nette e note da tempo, contraddistinte da faglie ancora più profonde: centro e periferia, metropoli costiere e interno de-industrializzato, Rust Belt e Silicon Valley, l’America “rossa” conservatrice, individualista e a maggioranza evangelica del Sud e dei flyover States contro l’America “blu” progressista e liberal di New York e Los Angeles.
Faglie a cui corrispondono visioni del mondo antitetiche e difficilmente in grado di comunicare. Che difficilmente possono risolversi per compartimenti etnici, come una narrativa semplicistica troppo spesso pretende di fare: Donald Trump fa sua la Florida sfruttando il voto ispanico tradizionalmente legato ai democratici grazie alla componente cubano-americana, ma perde l’Arizona dei messicano-americani e, soprattutto, gli Stati industriali della Rust Belt in cui Joe Biden incassa il sostegno di una quota di voto bianco rifugiatosi nell’astensione nel voto del 2016 che vide Trump superare Hillary Clinton. Sono state cinquanta elezioni in una, anzi di più, guardando al voto delle contee nei singoli Stati. Elezioni con un’affluenza senza precedenti dal 1908 (vicina al 70%) e in cui 102 milioni di americani hanno votato per posta. Elezioni in cui in larga misura si è votato proprio seguendo la linea di faglia della divisione piuttosto che la proposta politica organica. Sfugge a questa logica, forse, la sola Rust Belt: in Michigan, Wisconsin, Pennsylvania i lavoratori dell’industria si aspettavano un ritorno alla sicurezza di un tempo che la “Trumpnomics” non ha dato e ora guardano con attenzione al “Build Back Better” di origine bideniana. Un piano di re-industrializzazione del Paese su cui si può ben innestare l’idea di Bernie Sanders di evitare un ritorno alla fase selvaggia delle liberalizzazioni commerciali.
Un’America, due Americhe, 50 Americhe: la vittoria di Biden avviene in un voto in cui anche il Presidente uscente ottiene un numero di voti maggiori a quanti ne avesse mai ottenuti qualsiasi candidato in precedenza, tranne l’ex senatore del Delaware che si è ritrovato a sfidare, già oltre quota 75 milioni. E gli Stati in maggioranza appaiono sempre più assegnati in partenza Per la quattordicesima elezione di fila i repubblicani conquistano l’Alaska, lo Utah, il North e South Dakota, l’Oklahoma, il Kansas, il Wyoming e l’Idaho, “rossi” dal 1968, per la tredicesima volta su quattordici fanno bottino pieno in Indiana e Nebraska, dal 1980 non mollano il Texas e l’Alabama e sono pronti ad aggiungere alla cornice degli Stati solidamente repubblicani Florida e Ohio. Dal canto loro, i democratici si confermano per l’ottava volta di fila in California, Delaware, Connecticut, Maine, Maryland, New Jersey e Vermont, per la nona espugnano Massachusetts Hawaii, New York, Oregon, Rhode Island, Washington, per la dodicesima consecutiva tengono il Minnesota.
Il cuore delle elezioni va concentrandosi sempre più nell’America cantata da Bruce Springsteen, da quegli Stati industriali emblema e simbolo della storia e delle contraddizioni statunitensi del Novecento: terre centrali per l’economia americana retrocesse a periferia, aree (Philadelphia, Detroit in primis) dove si è scritta la storia politica e industriale del Paese desiderose di riconquistare un futuro, Stati in cui il melting pot culturale ha avuto la sintesi nell’unione tra storico ceppo Wasp e immigrazione di origine tedesca e nord-Europea.
Risulta difficile che l’esito elettorale possa essere ribaltato da Trump con una raffica di riconteggi e conseguenti ricorsi alla Corte Suprema: essi, come argomentato su Osservatorio Globalizzazione, rischiano di risolversi in una strada in salita e senza via d’uscita.
Quel che è certo è che il nuovo Presidente, il prossimo 20 gennaio, entrato allo Studio Ovale si troverà di fronte alla dura consapevolezza della necessità di ridare unità al Paese. Forse per la prima volta nella storia recente statunitense sarà il fronte interno, e non quello globale, lo scenario “caldo” su cui l’amministrazione si concentrerà. Anche perché la pandemia corre veloce, i morti da Covid-19 sfiorano quota 250mila, l’inverno statunitense va sempre più avvicinandosi. E per dare un futuro credibile agli Stati Uniti il governo federale e il Congresso dovranno partire dalla necessità di includere nuovamente nel corpo sociale e nel progetto di sviluppo del Paese le sue componenti più fragili: dagli abitanti, in larga parte appartenenti alle minoranze, degli slums e delle periferie urbane, su cui già la Grande Recessione aveva impattato riducendo drasticamente il rapporto tra la ricchezza posseduta da ispanici e afroamericani e quella della maggioranza bianca della popolazione, per arrivare alla categoria psicologicamente più frastornata dalla crisi sociale, quella dei bianchi di mezza età degli Stati dell’America profonda. Colpiti negli scorsi anni con durezza dalla deindustrializzazione e dalla crisi economica e risultati decisivi nel 2016 nell’elezione di Donald Trump. La fascia sociale in questione risulta una diquelle psicologicamente più fragili e la più esposta a minacce quali l’alcolismo, la dipendenza da oppiacei e il suicidio.
Potrà farcela Joe Biden? Certamente non da solo. Alla politica servirà uno sforzo corale per fare quello che ai candidati in campagna elettorale non è riuscito: mobilitare energie politiche, sociali ed economiche per capire come reagire a un malessere divenuto sistemico, all’insorgere di frange estreme nella popolazione (come dimostrato dalle proteste degli ultimi mesi), allo spaesamento legato al declino relativo della superpotenza. Insomma, parlare di temi concreti come Trump e Biden sono stati costretti a fare nel contesto della Rust Belt. Sanità, istruzione, disuguaglianze, re-industrializzazione, digitalizzazione, inclusione: l’agenda del futuro Presidente è talmente ricca e il suo programma talmente articolato che non potremo fare a meno di seguire il processo di costruzione della sua squadra e la definizione dei reali obiettivi politici con grande interesse. Vincere un’elezione tanto complessa non è stato che l’inizio del compito: ora Biden deve governare, e il fattore polarizzante del “o me o Trump”, una volta entrato nella stanza dei bottoni, non è più valido come alibi.
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