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Il riflusso del voto sbagliato


11 Nov , 2020|
| Visioni

La sconfitta di Trump chiude una stagione irrequieta, in cui gli elettori di gran parte del mondo occidentale hanno espresso ribellione contro lo status quo, o il sistema, o l’establishment, comunque lo si voglia chiamare.

La ribellione ha preso diverse forme, sicuramente non tutte condivisibili e non tutte bene organizzate. Nel 2016 gli elettori britannici, soprattutto quelli dell’Inghilterra in cui il degrado della deindustrializzazione è più doloroso, hanno optato a sorpresa per la Brexit, nonostante gli scenari catastrofisti che in tanti preconizzavano.

Gli elettori americani, e a sorpresa quelli della rust belt, cioè ancora una volta quelli più colpiti dal degrado della deindustrializzazione, hanno votato per Trump che prometteva loro protezione.

Nell’Europa continentale abbiamo assistito alla crescita di consensi dei movimenti di ispirazione populista, Podemos in Spagna, Mélenchon in Francia, che raccoglievano il consenso delle fasce di popolazione più insofferenti, tra cui coloro che pagano i danni della crisi economica con l’impoverimento e la precarietà. Prima di Mélenchon, a parlare nelle fabbriche francesi in via di delocalizzazione ci andava soltanto Marine Le Pen e anche lei, a suo modo, rastrellava consensi nei settori sociali in cui il disagio sociale è più alto.

In Italia abbiamo avuto il fenomeno del m5s, che si è imposto elettoralmente già nel 2013 e ha trionfato nel 2018, sparigliando le carte del bipolarismo, a cui in Italia ci eravamo tutti abituati. Per un decennio abbondante, in Italia si sono sfidati gli amici di Berlusconi per la distruzione dello stato di diritto, da un lato, e i tifosi dell’Unione europea per la distruzione della sovranità e del ruolo dello Stato in economia, dall’altro.

Di fronte a questo scenario, non è del tutto inspiegabile il successo di un movimento di agitatori di piazza, in cui circolavano, insieme a idee conservatrici di squisita tradizione liberista e anti-stato, anche idee e progetti di rinnovamento che nei circuiti sedicenti progressisti non trovavano cittadinanza. Peraltro, anche all’interno del gruppo dei distruttori dello stato di diritto, dal 2018 è diventato egemonico Salvini, che come Le Pen in Francia è stato abile a costruire consensi in un blocco sociale dove il disagio della deindustrializzazione, del precariato e della crisi è più sentito.

La virata leghista a guida salviniana ha dato un’ulteriore occasione alla sinistra italiana di non riflettere sulla propria inadeguatezza storica: alzare furiose barriere contro il razzismo, il sovranismo, il fascismo era più urgente che riflettere su come rispondere, senza retorica e senza ipocrisia, al tema del disagio.


Oggi tutto questo scenario molto teso e inedito, che tanto sembrava spaventare la gente per bene e i vertici delle istituzioni nazionali e sovranazionali, sembra essersi sgonfiato.

In Francia, dopo la vittoria di Macron, il movimento che si era coalizzato intorno alla candidatura di Mélenchon si è via via polverizzato. Podemos in Spagna, oltre ad avere smesso di crescere, ha cambiato pelle ed è diventato la stampella di sinistra di un governo a guida socialista che mi pare abbia ben poco di anti-establishment.

In Italia, il m5s ha dissipato i suoi consensi nel primo anno di governo, per assoluta incapacità e per la sua subalternità politica a Salvini e in seguito, nel tentativo di sopravvivere, ha scelto di diventare subalterno al PD, limitandosi a portare avanti poche battaglie ma controproducenti (ogni riferimento al recente referendum sulla riduzione dei parlamentari è voluto), che certamente non gli bastano a fermare l’emorragia di consensi.

Nella mia piccola insignificante bolla social, poi, è pieno di gente ammirevole che ha provato, negli anni passati, a occupare uno spazio politico per dare voce, e soprattutto una chiave di lettura non ipocrita né confusionaria, alla ribellione e al dissenso anti-establishment e in particolare di assumere una posizione critica più consapevole e meno incantata di fronte alla frode del sogno europeo da cui la sinistra italiana si è fatta anestetizzare per decenni (anestesia da cui non direi che si sia ancora svegliata: si veda ad esempio la recente invocazione di Landini ad accettare la manna del MES “sanitario”). Ma niente da fare! La voce dissenziente, per quanto fondata, non è mai uscita da quel piccolo circuito di intellettuali senza popolo e lo spazio di navigazione, in cui abbiamo cercato di incunearci, per adesso si trova compresso dall’avanzare della glaciazione a cui stiamo assistendo.

Forse l’unico caso in cui l’esito dell’irrequietezza degli anni scorsi si esprime ancora politicamente è la Gran Bretagna, anche se, dopo l’abdicazione di Nigel Farage, il conservatore pro-Brexit Boris Johnson, eletto con i voti dei ribelli delle zone deindustrializzate dell’Inghilterra, ha addirittura concesso inedite aperture al bisogno di Stato sociale, portando i Tories inglesi in una posizione tutto sommato meno radicale rispetto alla loro storia thatcheriana.


Lo scenario, alla fine del 2020, è di sostanziale acquiescenza nei confronti di una gestione tradizionale del potere. Sarà in parte colpa della pandemia, che non consente troppi esperimenti politici e sociali, e ha messo tutti gli irrequieti, gli impoveriti e gli indignati a tacere (i francesi arrabbiati, per fare un esempio plastico, da quasi un anno a questa parte non possono più andare il sabato a mettere fuoco nei boulevards di Parigi). Sarà anche l’incapacità dei rappresentanti della rabbia sociale ad avere indotto gli elettori a una marcia indietro.


Sta di fatto che le ragioni del disagio, che hanno generato il mare mosso degli anni scorsi, non sono scomparse. Al contrario, con la pandemia del 2020, in Europa, da un lato, stiamo assistendo a un’intensificazione del disagio sociale e delle disuguaglianze già esistenti e dall’altro osserviamo ancora una volta un’enorme sproporzione fra l’entità della crisi e gli interventi minimalisti predisposti per non farla degenerare in catastrofe civile. L’ammorbidimento della politica europea in favore di una maggiore solidarietà, che alcuni salutano un po’ prematuramente come un cambiamento storico, non è certamente un passaggio consensuale e nessuno sa dire quanto durerà. Peraltro, si potrebbe affermare che si tratti, più che di una svolta, di un déjà vu, in quanto nel 2009 abbiamo già assistito a un atteggiamento “morbido” delle istituzioni europee nei confronti dell’indebitamento pubblico: in piena diffusione della crisi finanziaria all’economia reale, nessuno chiedeva agli Stati nazionali di risanare il debito, anche perchè i consistenti stimoli fiscali erano funzionali a salvare le banche private intasate di titoli tossici; in quel periodo gli spread erano bassissimi e il nemico dichiarato, anche nei convegni del G20, era la finanza internazionale; dopo un annetto, il nemico dichiarato era diventato il debito pubblico, gli spread erano alle stelle e il vento dell’austerità espansiva e dei salvataggi condizionati ha cominciato a soffiare.

Con la sconfitta di Trump si è chiusa dunque una lunga parentesi. 

Complice l’emergenza pandemica, il voto “sbagliato” che ha dominato la scena in questi anni sembra essere rifluito in qualche luogo sotterraneo, come un fiume carsico. Poiché dovrebbe essere palese per tutti che le cause del disagio e della rabbia sociale non sono state rimosse, mi pare altrettanto ovvio interpretare il riflusso del consenso verso la gestione tradizionale del potere come un fenomeno temporaneo se non del tutto apparente.

Più che gioire per lo sventato pericolo, a me verrebbe da preoccuparmi per la situazione di stallo in cui ci troviamo. Da un lato, finchè il dissenso resta sotterraneo e non si manifesta in modo davvero pericoloso, nulla spingerà le nostre classi dirigenti a fare un passo verso la rimozione delle cause che lo alimentano (lo ammetto: in questo preciso momento storico non credo nella forza della ragione e tantomeno degli argomenti; il patto sociale su cui si regge la società cambia solo se le classi dirigenti e il blocco sociale che rappresentano si sentono minacciati). Dall’altro, se il dissenso si manifesta in modo minaccioso, rischia di diventare una bestia difficile da domare e si sa che i più abili domatori sono quelli pronti a dirigere la rabbia sociale verso soluzioni distruttive del tessuto sociale. Tra queste due ipotesi rischiamo di oscillare pericolosamente, in una nuova forma di bipolarismo acrobatico.

Mi auguro che analisti e strateghi più esperti di me siano capaci di trovare la via d’uscita.

Di:

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