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Femminismo nazionale e popolare


14 Nov , 2020|
| Sassi nello stagno

La famosa citazione di Fredric Jameson, secondo la quale “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, ripetuta da pensatori come Slavoj Žižek, Mark Fisher e Jorge Alemán, sembra aver assunto un’attualità nuova di fronte al vertiginoso scenario della pandemia. Ma al contrario di ciò che molte voci scettiche stanno pronosticando, ovvero che la pandemia si è configurata come lo scenario propizio per mettere fine alla democrazia e inaugurare un potere autoritario bio-tecnologico senza precedenti, penso che questa situazione-limite ci chiede di non cedere alle tentazioni fataliste e orientare i nostri sforzi verso la costruzione di quella immaginazione alternativa che il capitalismo non cessa di occludere. E questa decisione in nessun modo vuole evadere dalla realtà, al contrario, mira al cuore dell’esistente, ovvero, a quei lasciti che ci possono aiutare a immaginare qualcosa come un’idea di futuro. Ma in questo caso si tratta di una vocazione al futuro lontana dai precetti europei alla moda, la cui compulsione alla ripetizione del vedere se stessi come il luogo d’avanguardia oscura ciò che c’è di inaudito ad altre latitudini, come può essere il caso latinamericano. E per inaudito mi riferisco a ciò che la parola stessa contiene nella sua etimologia: ciò che è rimasto inascoltato (in-auditus). Risulta perciò curioso scoprire voci riconosciute come quelle di Jaques Rancière, Bifo Berardi o Toni Negri respingere, quasi irriflessivamente, le esperienze dei populismi latinoamericani associandoli ad esperienze fallite o residui del passato. Ed ancor più impresionante è scoprire una buona parte dell’intellettualità latinoamericana riprodurre in maniera meccanica questi luoghi comuni di certo eurocentrismo in fase di decadenza. Come ci ricorda Mariátegui: “l’esperienza del realismo non ci è servita ad altro che a dimostrarci che possiamo trovare la realtà solo attraverso le vie della fantasia”. E queste vie della fantasia non possono disinteressarsi né dell’eredità storica che le rende possibili né dei luoghi d’enunciazione che ci aprono a questa immaginazione del futuro.

In questo senso, ci sembra interessante invertire la posizione degli intellettuali europei alla moda e fermarci ad immaginare cosa c’è di inaudito in questi presunti residui del passato, in questi strati di sedimentazione storica che delimitano un modo di fare e pensare il politico dall’America Latina. E ciò che riecheggia davanti a noi è la configurazione di due forze storiche: il campo popolare e il femminismo.

Tuttavia, sembra che quando cerchiamo di pensare il femminismo insieme al campo popolare qualcosa collide, perché è difficile immaginarli come parte della stessa lotta politica. Se ci chiediamo le ragioni di questo desencuentro (mancato incontro), mi sembra che tutto suggerisca di guardare agli ostacoli patriarcali che, da un lato, pongono barriere alla femminilizzazione del campo popolare, e dall’altro, mettono in secondo piano la politica della cura.

Di fronte a questo scenario alcune compagne femministe prendono distanza dal campo popolare e cercano di costruire una forza politica autonoma. Molte di queste compagne vogliono autonomizzare il femminismo perché fanno coincidere questa lotta con i loro progetti intellettuali o artistici. Ma non c’è qualcosa di narcisista nella ricerca di svincolarsi simbolicamente dalle altre lotte contro l’oppressione? Partendo dallo slogan che il patriarcato permea tutto finiscono per promuovere narrative antagoniste all’interno degli stessi settori popolari. Credo che questo cammino sia pericoloso e perda di vista le accumulazioni storiche di cui abbiamo bisogno per un’immaginazione politica del futuro. Mi sembra che non si tratti di stabilire una falsa alternativa che ci obblighi a scegliere fra femminismo e il campo popolare, quanto, piuttosto, liberare questo campo dai residui patriarcali e restituirlo a una lotta comune capace di articolarsi come movimento collettivo. Il significante campo popolare è stato molto potente nella capacità di articolare differenti lotte contro l’oppressione, e conserva un’accumulazione storica verso la quale il femminismo dovrebbe mostrarsi solidale. Insieme all’oppressione di genere esiste quella di razza e di classe. Perché, quindi, dovrebbe essere strategicamente più efficace produrre una scissione fra tutte le lotte contro l’oppressione? Non è troppo grande il potere dell’oligarchia mondiale perché ci conceda il lusso di creare spaccature nel campo popolare? Il desiderio di far esplodere le logiche patriarcali non deve portarci a distruggere i legami di solidarietà fra le lotte di razza, classe e genere che donne e uomini cotruiscono ogni giorno. Forse lì, nell’articolazione di tutte queste eredità, emergerà una nuova opportunità di riattivare le nostre sedimentazioni storiche irrisolte.

Apparso originalmente in spagnolo in Reporte Sexto Piso (https://reportesp.mx/2020/11/columnas/la-raja/). Traduzione di Alessandro Volpi.

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