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Lo Stato precario


18 Nov , 2020|
| Visioni

Qualche sera fa, nel consueto appuntamento serale dalla Gruber, il filosofo Massimo Cacciari ha avuto gioco facile nell’evocare la locuzione pacta sunt servanda  e pretendere così dal governo il rispetto dell’impegno preso in estate su un determinato aumento delle strutture di terapia intensiva, ma sicuramente meno quando ha evitato, probabile per la circostanza, di contestualizzare storicamente quella pretesa. Ma ci torneremo poco più avanti.

In queste settimane di pandemia di ritorno, magari anche con giusta ragione e buoni argomenti, si è denunciato lo strisciante venir meno delle prerogative parlamentari a favore di un esecutivo e soprattutto di un capo del governo sempre più investito di pieni poteri. Fatto salvo una sgangherata pattuglia di decisionisti, il grido di dolore che si è levato ha coinvolto da sinistra a destra pressoché tutto l’arco politico e culturale. Forse però una riflessione specifica meriterebbe il quadro sconfortante dello squilibrio di forze in campo tra il politico e l’economico, quello che un tempo si sarebbe indicato con Stato e Mercato.

Ebbene, a fronte dei guadagni strabilianti conseguiti da una manciata di multinazionali, in particolare i colossi dell’e-commerce, a cui si è ridotto ormai il quadro macroeconomico, spesso personificati nella rassicurante veste del filantropo (“lupi travestiti da agnelli”, Matteo 7,15), gli Stati che da un pezzo hanno completato il loro percorso di  democratizzazione avviato con la Rivoluzione francese, e che per questo avrebbero titolo se non per incarnare l’Universale hegeliano quanto meno per rappresentare al meglio gli interessi diffusi e prevalenti, si ritrovano in una condizione  di estrema debolezza e strutturale precarietà. Il Covid ha reso evidente nella sua drammaticità una verità troppo a lungo rimossa, che lo Stato sociale è uno sbiadito ricordo da rintracciare perlopiù in un capitolo di storia riferito al secondo ‘900, quale protagonista assoluto dei trenta gloriosi (1945-1975) e della svolta economica impressa da Keynes. Per la cronaca, un economista che si vantava della propria impostazione storico-umanistica e che forse per quello era capace di pronunciare delle autentiche perle come “il capitalismo è la sbalorditiva convinzione che il più malvagio degli uomini farà la più malvagia delle azioni per il massimo bene di tutti”, che paiono appartenere ad un’altra era geologica.

E così per fronteggiare la seconda ondata, nella peggiore delle ipotesi, da parte dei Paesi anglofoni in particolare, si invoca imperterriti l’immunità di gregge per rimarcare sì l’appartenenza ad una ideologia, quella ultraliberista, ma forse più crudamente per nascondere una mancanza di mezzi e risorse; nella migliore delle ipotesi, e veniamo al nostro Paese, si mettono in campo forniture massive di mascherine a favore di tutte le scuole di ogni ordine e grado, non senza rivendicarlo con un certo orgoglio. L’uso della mascherina, assieme al distanziamento e al lavaggio frequente delle mani è difatti annoverato tra le misure decisive per tenera a bada il virus.

Ora, però, occorrerebbe chiedersi: se avessimo potuto contare su un numero almeno triplo di posti di terapia intensiva e di attrezzature e personale sanitario adeguato, la narrazione sarebbe stata identica? Probabilmente no. Si badi, questo scenario non è il frutto fantasioso di una mente particolarmente fervida, ma la realtà concreta di un Paese come l’Italia, non proprio una superpotenza, tra gli anni ’70 e ’80, prima che lo tsunami neoliberista si abbattesse. Dati ufficiali alla mano, basti ricordare che nel 1981 i posti letto in ospedale erano più di 500 mila per calare a circa 250 mila nel 2017. Nel solo decennio 2009-2018 il saldo negativo dei posti letto è stato pari a 70 mila, mentre i reparti chiusi sono stati circa 360. Complessivamente nel decennio la sanità pubblica ha subito un taglio che sfiora i 40 miliardi.

Fino a questi livelli si è insinuata la micidiale ristrutturazione neoliberista che ha ridisegnato il volto delle istituzioni democratiche europee. La responsabilità storica della politica è stata quella di non aver protetto come pure avrebbe potuto le comunità, esponendole in questo modo al richiamo della foresta del populismo; anzi, prima di subire lo sberleffo finale dei potentati economici, anche nella variante cosiddetta progressista ha per larghi tratti promosso e accompagnato la svolta senza comprendere che la logica  del profitto, che ha poco a che spartire con una compiuta economia (forse trova più un’analogia con la crematistica aristotelica), se estesa a tutti gli ambiti del vivere sociale ha come sua conseguenza, come in un’equazione di matematica, un cambio di segno e la riduzione in costi di quello  che poco prima era considerato un investimento sociale. Con la legge del valore, difatti, c’è la riscrittura del sociale in caratteri econometrici astratti, fatti di numeri, tabelle e formule previsionali senza più alcun addentellato con la concretezza del vivere, come si sta incaricando di dimostrare l’epidemia.

Ritorniamo a Massimo Cacciari. Bene invocare l’impegno dello Stato, benissimo fare di tutto per scongiurare un nuovo mortifero lockdown, ma ci sia consentito di chiosarlo a partire dalla circostanza che i medici ad esempio non si creano da soli ma vanno formati e che il numero chiuso introdotto da tanti anni ormai nelle Università, oltre ai costi di frequenza esorbitanti, si sono incaricati di ridurli drasticamente. Col retro pensiero neppure troppo celato di non voler concorrere accidentalmente a reclutare un esercito di medici buono magari ad ingrossare il corpaccione pubblico.

Stesso discorso potrebbe essere fatto per il trasporto, nazionale e pure locale, che di pubblico forse conserva a stento solo il nome e neanche. Non serve invocare più efficienza e più corse quando mancano all’appello le carrozze, come ha ricordato di recente in uno slancio di sincerità un presidente di regione. Nulla di sorprendente e perfettamente in linea con una razionalità solo imprenditoriale che persegue il massimo risultato con l’impiego minimo dei mezzi. Ci si aspetterebbe che pure per sbaglio o di striscio una volta sola si nominasse nel dibattito pubblico la parola tabù capitalismo, che detto per inciso nella sua lunga fase finanziaria non sta facendo altro che inverare la sue premesse, in quanto basandosi sulla valorizzazione del valore, astratto e quantitativo, non può che finire come sta finendo in una compiuta civiltà del denaro, come aveva per tempo messo a tema Marx: “la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro questo movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura”.

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