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Considerazione sparse su scienza, nomadismo e affini.
Qualche giorno fa, nel mezzo di una appassionata e condivisibile perorazione sulla democraticità della scienza, la biologa molecolare Alessia Ciarrocchi, a PropagandaLive su La7, ha spiegato pure che gli scienziati si basano sui fatti, sulle evidenze, e che il nomadismo (ché dire precariato è brutto) nella ricerca è una scelta dei ricercatori stessi. Due affermazioni che non rendono giustizia né alla scienza, né agli scienziati. E che mi pare siano legate allo stesso abbaglio. Rispondere con slogan semplici all’altrettanto rozza semplificazione del negazionismo ed affini è il modo peggiore per tirarsi fuori dal pantano nel quale siamo finiti. La scienza non si basa sui fatti o sulle evidenze, perché semplicemente una definizione di fatto scientifico non esiste o è estremamente problematica (e quindi non è, appunto, un fatto). La scienza è la migliore interpretazione possibile che, in un determinato tempo, la comunità dei ricercatori elabora rispetto ai problemi posti dalla realtà esplorata. Finché l’interpretazione regge, cioè ‘funziona’, consente di incidere operativamente sul mondo ottenendo i risultati previsti, si conserva, per essere poi sostituita da un’altra, quando non riesce più a tenere insieme in una visione coerente domande e risposte. Se pensassimo alla scienza come ciò che si basa sulle evidenze, senza spiegare che queste evidenze non sono nulla di immediato, ma a loro volta emergono e cambiano a seconda del tipo di sguardo che portiamo sulla realtà non avremmo avuto la rivoluzione copernicana (dopotutto, non è evidente che fuori dalla finestra il sole sorge e tramonta?) e nemmeno la teoria della relatività o la fisica quantistica (voi vedete lo spazio-tempo curvo o la nuvola di probabilità nella quale si trova un elettrone prima che ne decidiate la posizione?). Che sono interpretazioni, per il momento piuttosto predittive e funzionanti, ma interpretazioni. Nascondere questa complessità significa alimentare la visione dello scienziato come oracolo di una verità che si pretende assoluta e indubitabile, fuori dal tempo e dello spazio della sua formulazione. Questo porta ad almeno due problemi. Quando il lavoro di una certa comunità scientifica, per ragioni urgenti (tipo una pandemia), finisce sotto gli occhi di tutti, la costatazione che gli scienziati procedono per prove ed errori, attraverso ipotesi e conclusioni anche tra loro contraddittorie, verso l’elaborazione di uno scenario plausibile per risolvere il problema, provoca un trauma in chi aspetta ‘certezze’ e può spingere a pensare che sia tutto opinione, impressione soggettiva. E invece tra l’opinione e il dogma ci sono molte sfumature. Una delle più belle è proprio la scienza. L’altro problema è che bisogna capire che la scienza, come tutte le attività umane, è condizionata dalle situazioni materiali nelle quali si svolge. Questo significa che la ricerca non è mai ‘pura’, sia perché le domande nascono o diventano più urgenti a seconda dei tempi in cui sono formulate (la ricerca sui coronavirus, per esempio, sono state a lungo sottofinanziate e lo sarebbe sicuramente ancora se questa epidemia fosse confinata al Centro-Africa, come Ebola) sia per la ragione che ciò che uno scienziato e qualsiasi ricercatore riescono a fare dipende dalle condizioni delle loro esistenze. Perciò dire che il nomadismo dei ricercatori è una scelta, un’opportunità significa ipocritamente guardare solo ai casi privilegiati e non alle storie di tanti che si spostano, e non vorrebbero, per continuare a lavorare o di quelli che alla ricerca rinunciano perché, banalmente, la vita li chiama ad occuparsi della sopravvivenza materiale della propria esistenza.
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