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Il calcio politico di Diego Armando Maradona


28 Nov , 2020|
| Visioni

Due grandi coincidenze saltano all’occhio quando si guarda alla recente scomparsa di Diego Armando Maradona. La prima è la data della scomparsa: il 25 novembre, lo stesso giorno del suo grande amico Fidel Castro, che aveva definito un “secondo padre”, lo aveva accolto più volte a Cuba, volendo conoscere l’uomo dietro il campione, il figlio del popolo argentino divenuto icona globale, il peronista e socialista contrario a ogni forma di oppressione e di imperialismo, ambasciatore mondiale del castrismo prima e dei suoi epigoni latinoamericani poi.

La seconda è forse saltata agli occhi solo agli esperti e agli addetti ai lavori del mondo del calcio: Maradona è venuto a mancare pochi giorni dopo l’annuncio della realizzazione di una statua a grandezza naturale di Juan Roman Riquelme, l’unico atleta che nell’immaginario dei sostenitori della sua squadra argentina per eccellenza, il Boca Juniors, è paragonato al Pibe de Oro. Come a voler sottolineare la necessità di una dedicazione pubblica anche per il simbolo più forte dell’Argentina contemporanea.

Queste coincidenze richiamano al profondo legame tra Maradona e la sua terra, l’Argentina, nonché tra il campione nativo di Lanùs e il suo spazio di mondo, quell’America Latina che travalica ogni definizione geografica precisa, va oltre categorizzazioni di sorta, è patrimonio culturale, storico, politico e sociale allo stesso tempo. Come i Balcani possono iniziare, a seconda di chi osserva, a Lubiana, Zagabria o Sarajevo (celebre in tal senso quanto scritto di Pedgrag Matvejevic) restando sospesi tra reale e irreale, così l’America Latina è area identitaria che unisce Città del Messico e Montevideo, El Paso e San Salvador, Santo Domingo e Buenos Aires. Essere balcanici è come essere latinoamericani, sentirsi parte di un sistema fortemente eterogeneo, in perenne equilibrio tra i fattori omologanti e le pulsioni distruttrici interne. Non è un caso che il calcio sia un fattore estremamente identitario in entrambe queste aree di mondo. E per Diego Armando Maradona il calcio ha assunto anche la funzione di un poderoso medium politico.

Il calcio è l’epica dell’America Latina, atto di fede collettiva, rituale catartico per popoli che dal riscatto da un destino di povertà e dal contrasto alle disuguaglianze storiche e sistemiche hanno costruito, nei decenni, progetti politici, sogni collettivi, utopie talvolta tragiche salvo poi trovare nel rettangolo verde un fattore di livellamento sociale e un raro caso di mezzo di comunicazione e concordia interclassista. In Argentina, Sud dell’America Latina, all’epica si aggiungono la devozione popolare e il folklore. Non esistono video delle sue gesta, ma si racconta, ed è atto di fede nel Dio del pallone credere, che le migliori gesta su un campo da calcio siano state compiute da “El Trinze” Tomas Felipe Carlovich, recentemente scomprso, che non sia un caso il fatto che questi sia stato nativo di Rosario, la città del calcio, da cui provengono alcuni dei campioni più cristallini della storia del calcio argentino (Angel Di Maria, Lionel Messi, Jorge Valdano) e nella cui locale squadra del Newell’s Old Boys giocò cinque partite, a fine carriera, lo stesso Maradona, che della devozione collettiva e del legame sociale con la palla rotonda è stata la massima espressione e il primo interprete.

I tifosi argentini sono romantici, scaramantici, umorali. I loro miti più grandi sono i campioni che non hanno dimenticato, durante le peregrinazioni europee, le loro radici. El Mudo Riquelme e il Payaso Pablo Aimar, ad esempio, occupano nell’immaginario collettivo dei tifosi di Boca Juniors e River Plate un posto d’onore. Il “Loco” Marcelo Bielsa, allenatore giramondo, a sua volta nativo di Rosario, ha conquistato gloria imperitura in vita vincendo due campionati alla guida del Newell’s e vedendosi intitolato lo stadio. Ogni squadra avrà, sempre, il suo “più grande”, perché non c’è dubbio nell’indicare, in ambito collettivo chi sia stato il Più Grande in senso assoluto. Dopo l’avvento della “folgore” Maradona il calcio argentino è diventato clero gerarchico, con un sommo sacerdote indiscusso.

E se Maradona è il calcio, e il calcio è l’Argentina, Maradona è l’Argentina. Questo sillogismo è stato compreso da chi, come i leader socialisti dell’America Latina, ha visto in lui un ambasciatore mondiale, un simbolo del riscatto del continente, il “macchinista del treno dell’Alba” (parola di Hugo Chavez), un’icona mondiale antimperialista come avrebbero potuto esserlo Thomas Sankara o Bobby Sands. Maradona, con le sue gesta atletiche e il suo spirito controcorrente, ha fatto del calcio una predicazione. Della predicazione politica. Maradona è al fianco delle madri di Piazza di Maggio che ricordano le vittime della dittatura, ma condivide col popolo argentino il senso di frustrazione per l’onta delle Falkland del 1982. Vive la partita della “Mano di Dio” contro l’Inghilterra del 1986 come uno schiaffo alla terra di Albione, alla signora Thatcher, all’Occidente capitalista, al destino cinico e baro che ha portato anzitempo al declino del suo Paese, costretto a riscattarsi sul rettangolo verde.

Per Maradona “las Malvinas son Argentinas” e l’America Latina non deve essere il cortile di casa degli Usa. Il populismo di Juan Domingo Peron e la rivoluzione castrista, il frutto dello zelo politico dei due figli dell’educazione gesuita ritrovatisi tribuni e capi di Stato, prima di trovare sintesi nel progetto politico di Hugo Chavez vide nell’estro del Diez la sua manifestazione. Come ha scritto Giacomo Bonetti su Osservatorio Globalizzazione, nulla meglio dell’exploit dell’Azteca del 1986 lo testimonia:

“La sua partita è una dichiarazione politica, lui è il “Che” del calcio come lo ha definito argutamente Fidel Castro, il rivoluzionario che con gesta eroiche e clamorose, con fiammate contesta il potere: è un fuoco, è un lampo, è la rivoluzione che non diventa brace e che a differenza di Castro (morto lo stesso giorno) ci ha lasciati a 60 anni, prima di diventare brace. In questa partita sono condensati tutti gli elementi dell’antimperialismo sudamericano, c’è un oppressore che schiaccia e opprime un popolo e c’è una figura carismatica attorno alla quale tutto il popolo (in questo caso i giocatori e i tifosi) si compatta e decide di credere nel lìder affidandosi ad esso, andando oltre ogni aspettativa”

Su queste basi si può capire il portato del Maradona “politico” che non è estraneo, ma complementare, al Maradona campione. Il “Pibe” capì che il calcio, divenuto fenomeno globale, sarebbe presto divenuto anche una colossale industria e fabbrica di interessi politici e provò a remare contro il corso degli eventi, mettendo la sua popolarità al servizio di cause da lui ritenute benemerite: l’emancipazione dell’America Latina, il contrasto all’egemonia statunitense, il sostegno ai nuovi leader della regione.

Non a caso nel mondo del calcio i più grandi contrasti di Maradona sono stati con la Fifa guidata da Joao Havelange, di cui non si possono negare le indubbie doti organizzative ma che è responsabile di aver avviato la transizione dei grandi eventi del calcio globale a enormi occasioni di business prima ancora che a semplici manifestazioni sportive.

Dal Mondiale 1986 in avanti Maradona contestò ad Havelange, brasiliano e alla guida della Fifa dal 1974 al 1998, la sudditanza del calcio agli interessi televisivi, l’ingresso massiccio di sponsor destinati a condizionare l’attività di sponsor e federazioni, la connivenza del presidente con regimi autoritari e multinazionali. Insomma la deriva di un calcio-business la cui ascesa fu favorita, ironicamente, dall’attenzione che tutto il mondo rivolse alle gesta di un fantasista senza tempo. Che ha provato poi con coerenza a contrastare l’inesorabile flusso della storia. Facendo del calcio un mezzo politico. Come era destino che sarebbe stato guardando i tratti identitari di Maradona. Argentino verace, latinoamericano orgoglioso. Umano, troppo umano, in un calcio che perdeva, anno dopo anno, l’essenza e l’incanto dell’essere, in fin dei conti, solo un gioco.

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