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Un’amara riflessione sulla riforma del MES
Mala tempora currunt per l’Europa, potremmo dire. Il momento attuale ci restituisce l’immagine di un continente alle prese con una sfida di dimensioni epocali, la pandemia da Covid-19, che ha provocato una severa contrazione del PIL in tutti i paesi europei. L’Unione Europea, probabilmente con ritardo, ha reagito predisponendo una serie di misure di politica economica: il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) senza condizioni per le spese sanitarie (su questa linea di credito, in verità, ci sarebbe molto da dire), i fondi BEI per le imprese, il piano SURE per finanziare la cassa integrazione – misure che valgono 540 miliardi di euro di prestiti, il che inevitabilmente implica un aumento dello stock di debito pubblico – ed il Recovery Fund, anche noto come Next Generation EU, che è stato, ed ancora oggi lo è, al centro di un animato dibattito politico ed economico.
Nel marzo del 2020 la Commissione europea ha poi attivato la general escape clause, che ha condotto alla «sospensione» del Patto di Stabilità e Crescita. Nello specifico, l’attivazione di tale clausola di salvaguardia consente una deviazione «temporanea» dai parametri del Patto, permettendo ai governi di aumentare la spesa pubblica attraverso deficit di bilancio. C’è però da obiettare che se da una parte l’aumento di spesa pubblica è certamente stato necessario per fronteggiare la grave recessione provocata dalle misure di contenimento della pandemia, dall’altra però potrebbe esporre gli Stati con un alto debito (come l’Italia) – nel momento in cui i vincoli del Patto di Stabilità, oggi sospesi, rientreranno in vigore – ad un periodo di politiche di austerità e di riforme strutturali.
A tutte queste misure deve poi essere aggiunto il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), il programma di acquisto di titoli del debito pubblico e di obbligazioni private messo in campo dalla Banca Centrale Europea. Un programma che, oltre a immettere liquidità nel sistema finanziario europeo, fa sì che i tassi di interesse rimangano a livelli prossimi allo zero. Una condizione fondamentale per l’Italia, che si trova ad emettere titoli di stato (cioè nuovo debito) a tassi d’interesse molto bassi.
Ma veniamo alla riforma del MES, in realtà in discussione da diverso tempo, che ha suscitato un acceso dibattito per le conseguenze che potrebbero derivare dalla sua applicazione. La riforma sembra dividere gli Stati in due categorie, Stati di serie A e Stati di serie B. Si prevede infatti che uno Stato che abbia un deficit contenuto entro il 3% del PIL; un saldo di bilancio strutturale pari o superiore al parametro di riferimento minino specifico per il paese; e un debito inferiore al 60% del PIL, ovvero una riduzione di questo rapporto ad un tasso medio di 1/20 all’anno, potrà chiedere un prestito, ricorrendo ad una linea di credito condizionata precauzionale (PCCL), semplicemente presentando una lettera di intenti (senza dunque firmare un memorandum d’intesa), con la quale si impegna a rispettare i suddetti criteri. Al contrario, uno Stato che non rispetti i parametri di cui sopra potrà accedere solamente ad una linea di credito soggetta a condizioni rafforzate (ECCL) che, come è noto, impone la sottoscrizione di un memorandum d’intesa, in cui sono contenute le «condizionalità» da rispettare, e cioè austerità e riforme strutturali. Nondimeno, perché sia attivata una linea di credito soggetta a condizioni rafforzate il debito dello Stato beneficiario dovrà essere giudicato «sostenibile» dagli organi tecnici del MES, diversamente lo Stato sotto «esame» corre il rischio di una ristrutturazione del debito.
Sulla ristrutturazione del debito, è qui opportuno ricordare che la riforma prevede che gli Stati dovranno emettere titoli di debito con Clausole di azione collettiva (CAC) single limb, che consentono di procedere alla ristrutturazione del debito con una «singola» votazione, che riunisce tutti i creditori, anziché procedere con votazioni «multiple». Per quanto non sia possibile affermarlo con certezza, questo punto della riforma lascia spazio a qualche dubbio. I problemi potrebbero infatti sorgere se la Banca Centrale Europea dovesse smettere, e prima o poi lo farà, di comprare titoli di Stato ai livelli attuali. Occorre infatti ricordare che l’acquisto di titoli di Stato da parte della BCE non è «infinito», per cui tutti quei paesi che si troveranno in una situazione di forte esposizione debitoria, una volta che la politica monetaria della BCE si sarà «normalizzata», potrebbero essere costretti dalla contingenza – o forse sarebbe meglio dire dalla insostenibilità del debito – a fare ricorso al MES.
Un altro aspetto della riforma, tutt’altro che marginale, riguarda poi l’introduzione del common backstop (paracadute finanziario), che trasforma il MES – a partire dal 2022, con due anni di anticipo rispetto a quanto inizialmente previsto – nel «prestatore di ultima istanza» del Fondo di Risoluzione Unico – istituito con il fine di salvare le banche in crisi, grazie ai contributi del settore bancario stesso –, laddove si siano esauriti i mezzi finanziari disponibili del FRU o nel caso in cui questi risultino insufficienti per la risoluzione del caso specifico.
La riforma del MES ha certamente molti aspetti che la rendono ostica da comprendere per l’alta cifra di tecnicismo che la caratterizza, facendo sì che i discorsi nella sfera pubblica discorsiva si fermino ad un livello epidermico, quasi coperti da una sorta di «velo d’ignoranza». D’altronde, in quasi tutti gli Stati si è preferito trattare la riforma come una questione meramente «tecnica», quando è in realtà un problema tutto politico per le implicazioni che ne potrebbero derivare. Ci si può chiedere se il momento attuale, in cui la pandemia ancora miete vittime e provoca enormi costi sociali, sia quello più opportuno per affrontare questioni così delicate come la riforma del MES. Nondimeno, la volontà di riformarlo, nei termini indicati, evidenzia il desiderio europeo di non abbandonare le «vecchie abitudini», rafforzando i poteri di «controllo» del Fondo salva-Stati, che, come è noto, si muove unicamente nell’interesse dei creditori, indipendentemente dalle conseguenze che la sua «amministrazione» genera nel paese debitore. Più che pensare alla riforma di uno strumento nato per affrontare la crisi economica iniziata nel 2008, e dunque inattuale per il momento che stiamo vivendo, sarebbe stato pertanto più urgente rivedere la governance economica europea, dei cui limiti la pandemia ci ha reso edotti.
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