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Geometria del conflitto. Conversazione con Francesco Marchesi
Francesco Marchesi, assegnista di ricerca e professore a contratto presso l’Università di Pisa ha pubblicato recentemente la sua ultima fatica, Geometria del conflitto: Saggio sulla non-corrispondenza (Quodlibet, 2020). Studioso di Machiavelli, autore al quale ha dedicato due monografie Riscontro: Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli (Quodlibet, 2017) e Cartografia politica: Spazi e soggetti del conflitto in Niccolò Machiavelli (Olschki, 2018) e della filosofia contemporanea, in particolare di Louis Althusser. Dialoghiamo con l’autore sui temi che ha sviluppato nel suo ultimo libro.
AV: Il tema del conflitto, e il problema del suo rapporto con la dimensione dei processi storici attraversa la tua riflessione fin dagli esordi, ed in questo testo, attraverso un itinerario nel pensiero di alcuni autori contemporanei, prende la forma di una proposta di teoria (o forse dovremmo dire di ontologia) politica. Gli autori chiamati in causa sono sei più due: Michel Foucault, Carl Schmitt e Hannah Arendt (per la prima parte del libro, dedicata al conflitto simmetrico); Jacques Lacan – e il lacanismo politico – Louis Althusser ed Ernesto Laclau (per la seconda, dedicata al conflitto asimmetrico). Infine, nell’ultima parte del testo in cui si passa ad una proposta teorica più esplicita – composta da tre capitoli, intitolati rispettivamente Quale conflitto, Materia e Storia – insieme alla rivendicazione del pensiero di Althusser, troviamo delle parti dedicate a Machiavelli e a Gramsci. Questa è più o meno la “geometria” del tuo libro. Per iniziare ci spiegheresti questa distinzione fra autori che teorizzano un conflitto simmetrico e un conflitto asimmetrico che è alla base dell’articolazione del tuo ragionamento, anche se poi vuole andare oltre queste proposte, pur partendo da alcune di esse….
FM: Intanto è forse utile spendere qualche parola sulle ragioni che conducono a questo libro. L’idea di tornare a riflettere sul conflitto come fattore di trasformazione storica nasce dall’osservazione di almeno due fenomeni contemporanei. Da un lato il decennio populista appena terminato, che a partire da uno specifico uso del conflitto – ossia l’insistenza su specifiche linee di divisione sociale al fine di creare un noi collettivo, un popolo – ha sconvolto i sistemi politici occidentali, il discorso pubblico diffuso ed è alla base ancora oggi di alcune esperienze di governo come quelle italiana e spagnola (oltre che, in altre forme, largamente diffuso in America latina). Il secondo è l’emergere di un nuovo volto della globalizzazione, non più nella veste irenica e “liscia” degli anni Novanta dell’egemonia statunitense, ma sotto forma di conflitto tra diverse idee di mondializzazione a seguito della grande “convergenza” tra Oriente e Occidente. Questi fenomeni conflittuali sono tutti rivolti alla trasformazione storica: il popolo di Podemos non è quello del PPE, così come la mondializzazione cinese non è quella americana. Comunque si giudichino tali esperienze.
Ora, anche solo da questo quadro sommario si nota come la nostra strumentazione concettuale relativa a un pensiero del conflitto risulti largamente inadeguata. Da un lato abbiamo teorie che pensano il conflitto attraverso la metafora militare, che propongo di definire conflitto simmetrico, le quali fanno appunto della omogeneità tra i contendenti – eguali per obiettivi, mezzi, strategie – il loro carattere saliente, trasformando l’antagonismo in semplice competizione. Questo è tipico, nelle loro immense differenze, di autori come Foucault, Schmitt, Arendt e, in Italia, Tronti. Ma già Machiavelli, contro Platone e Aristotele, avvertiva che il conflitto è il contrario della competizione, perché non mira a vincere la partita ma a trasformare il campo di gioco.
C’è poi quello che propongo di chiamare conflitto asimmetrico – i cui modelli sono il conflitto psichico e l’antagonismo tra centro e periferia – che non esclude una trasformazione “totale” del campo da gioco, ma la pensa costantemente alla mercé di un nucleo irrazionale, appunto l’antagonismo come una sorta di ritorno del represso. Qui ogni forma politica esito della trasformazione si presenta come sempre temporanea, congiunturale e contingente. Insomma, come direbbe forse Machiavelli, non dura. E questo è tipico di autori come Laclau, Badiou, Rancière, dunque di molte, se non tutte, le derivazioni delle scuole lacaniana e althusseriana.
È chiaro poi, e nel libro cerco di mostrarlo, quanto queste logiche siano del tutto indifferenti alle intenzioni politiche, spesso opposte, dei loro autori, ma come emergano da alcuni processi e scelte concettuali.
AV: Alla definizione geometrica del conflitto attraverso le categorie di simmetria e asimmetria mi sembra risulti, anche se non lo tematizzi esplicitamente come un asse centrale, la corrispondenza di un’altra diade, quella di immanenza e trascendenza. Ma, rimanendo sul tuo linguaggio, non mi sembra ci sia simmetria, ovvero non c’è una corrispondenza immediata fra queste due coppie: simmetria-immanenza e asimmetria-trascendenza. Se infatti in relazione al conflitto simmetrico parli spesso del fatto che si sviluppa su un piano di immanenza, alludendo soprattutto all’indifferenziazione fra gli elementi in lotta, e all’improduttività politica in termini di istituzione di ordine politico, nel caso del conflitto asimmetrico non mi sembra che si possa parlare di una produzione di trascendenza, cioè di una politica che superi questa indifferenza dando inizio ad un ordine dia forma stabile alla conflittualità sociale. O per meglio dire: la trascendenza politica probabilmente può essere una forma della differenza, della “non corrispondenza” che si viene a produrre fra gli elementi del conflitto, ma non è la strada che sembri prendere tu… In che senso quindi il conflitto asimmetrico ha una produttività politica che va oltre una conflittualità puramente immanente, senza produrre una trascendenza politica?
FM: Il più grave problema che condividono queste impostazioni è, mi pare, che non riescono a distinguere quasi nulla. Il che si osserva bene nella ricorrente tendenza del pensiero contemporaneo a vedere rivoluzioni là dove ci sono solo vandee o, dall’altra parte, a feticizzare sovranità e katéchon, quali che siano.
Sono i risultati, in fondo convergenti, della crisi del fondamento, o derealizzazione postmoderna, o crisi del marxismo ecc. Detto più chiaramente: se le teorie immanentistiche (o simmetriche) del conflitto, che ne valorizzano la produttività intrinseca, l’autonoma energia politica, si proibiscono fin dall’inizio di valutare i risultati di quel conflitto – perché ogni ordine e istituzione è di per sé tradimento di quella energia pura – quelle asimmetriche rendono indifferenti tutte le forme. Ogni ordine politico è una police contrapposta a una politique per Rancière, è una situazione cui sottrarsi mediante un evento per Badiou, è una articolazione egemonica attentata da un antagonismo per Laclau. Se nel primo gruppo di teorie il processo conflittuale, privo per altro di una logica descrivibile, non incontra mai l’altro dell’istituzione (come si vede dal fatto che il suo impensato radicale è l’ideologia, ossia l’auto-rappresentazione della struttura economica), nelle seconde la costruzione politica, logica o retorica, non incontra mai il processo storico, cui adeguarsi o meno. Si finisce così, in particolare in Italia, per schierarsi astrattamente per i movimenti o per lo Stato, per la sovranità o per la sua destituzione, invece di chiedersi: quale conflitto? per quali istituzioni?
C’è insomma un problema di, mancato o scarso, materialismo in tutte queste opzioni, che si riflette nella relazione esterna tra conflitto e ordine, evento e istituzione. Bisogna ricucire questa distanza per produrre non tanto una trascendenza verso l’alto, ma un trascendimento del presente verso il futuro: solo realizzandosi in istituzioni l’energia conflittuale trasforma la realtà, e solo misurandosi sulle necessità imposte dal processo capitalistico, e non su astratte condizioni retoriche, un’egemonia può trasformarle e durare.
AV: Mi interessa in questo senso per esempio la tua collocazione del discorso schmittiano nel campo del conflitto simmetrico, facendo riferimento in effetti ad un elemento molto noto del suo pensiero, ovvero una difficoltà a differenziare i due soggetti dell’inimicizia (che è il modello del conflitto) – e quindi anche la dimensione formalista del discorso del giurista tedesco. Tuttavia mi sembra che tu ponga poca attenzione alla produttività politica di ordine di questo conflitto, che si produce sul piano della trascendenza politica. A ciò mi sembra interessante connettere la tua lettura di Laclau, il quale riprende da un lato il modello schmittiano, ma attraverso la sua teoria del significante vuoto e dell’equivalenza, e la sua ripresa delle idee lacaniane di totalità fallita e di sutura, lo ridefinisce su di un piano diverso. In che modo incide la teoria lacaniana in questo passaggio? (e te lo chiedo sia in relazione alla questione Schmitt-Laclau ma più in generale, visto che nel tuo libro la svolta fra i due paradigmi del conflitto si dà con l’intervento di Lacan e soprattutto del lacanismo politico)
FM: A differenza di quanto si dice spesso la mia impressione è che il pensiero di Carl Schmitt, soprattutto in Italia, sia stato un grande fattore di spoliticizzazione del pensiero filosofico e del discorso pubblico, ben prima dell’egemonia sordiana (nel senso di Alberto Sordi) del “né di destra né di sinistra”. E questo sia nella sua versione weberiana e katechontica – che attraverso l’autonomia del politico, e dunque la separazione dalla società, ha condotto i “nuovi filosofi del PCI” direttamente da Enrico Berlinguer a Mario Monti – sia nella versione nietzschiana e genealogica che ha sostituito il conflitto regolato e l’alternanza democratica, secondo l’eterno prototipo polemologico, al conflitto sociale.
Nel libro cerco di far notare come queste due vie siano ben radicate nel testo schmittiano, tanto nella teorizzazione del vuoto politico e sociale in cui si svolge la decisione, quanto nell’esatta simmetria della relazione amico-nemico. Se insomma lo svuotamento decisionista della sovranità popolare e l’anonimato di un’inimicizia utilizzabile contro ogni capro espiatorio sono serviti negli anni Trenta per anestetizzare gli effetti di una democrazia di massa in cammino verso il socialismo, e sono tornati utili nella crisi italiana dei Settanta, forse è possibile evitare una terza puntata che assuma la veste di una generica sovranità occidentale contro il ritorno dell’ex Terzo Mondo.
Detto questo hai ragione nell’osservare che tra lo Schmitt del primo modello, weberiano e tecnocratico in quanto vi si è cercata l’autonomia di una tecnica politica che prescinda dalle circostanze (finendo per avvallare ogni circostanza), e alcune tesi laclausiane si possa individuare un’assonanza. La differenza, netta, è tuttavia data dal fatto che Laclau non recide del tutto il nesso con la società, ma la interpreta come insieme di domande irrelate (piuttosto che come processo) alla luce dello sfarinamento neoliberista. La sua soluzione, egemonica e retorica, si fa carico almeno di alcune di queste domande, mentre la tecnocrazia schmittiana le neutralizza per definizione. E se l’uno ottiene una trasformazione troppo fragile, l’altro semplicemente la impedisce.
Si potrebbe dire anche così: in Italia il venir meno del soggetto operaio è stato scambiato, schmittianamente e non, per la fine della società come tale, mentre altrove, con Lacan e Althusser, si è tentato di ripensare lo statuto dell’uno e dell’altra. Ottenendo nel primo caso la tecnocrazia o un conflittualismo sterile e nel secondo un soggetto timido per una società debole (il populismo di Laclau) o l’evento destituente di un soggetto marginale (i sans papiers di Badiou).
AV: Per concludere, veniamo al punto che più caratterizza la tua proposta teorica: l’irruzione della storia in un modello di conflitto – che tanto negli autori della simmetria, quanto in quelli dell’asimmetria – sembra darsi su di un piano sincronico, valorizzando il momento della contingenza. Che significa invece pensare quello sembra definirsi – usando un’espressione fuori moda, ma piena di significati pregressi – : “materialismo storico”? E che modello paradigma del conflitto proponi?
FM: Quanto al materialismo storico non saprei, ma di materialismo si parla moltissimo in questi anni: ad esempio in Francia si sta affermando una generazione di studiosi, prevalentemente allievi di Badiou e Balibar, che pongono questo tema al centro delle loro ricerche, anche in polemica con le impostazioni prevalenti nel trentennio precedente.
Nel libro mi soffermo sul rapporto tra materialismo e storia, nel senso esatto per cui il primo produce la seconda. In effetti un conflitto pensato secondo il modello machiavelliano (e marxiano) della lotta sociale – che non è necessariamente lotta di classe – prevede attori differenti per scopi, strumenti, tattiche, e conduce di necessità a una conservazione del campo da gioco o a una sua trasformazione. Dal che segue una storicità pensata nell’articolazione tra momenti di durata ed eventi conflittuali che possono o meno portare a un mutamento.
Il termine della tradizione che mi pare possa utilmente designare questa prospettiva è quello di non-corrispondenza. Sul piano sincronico essa descrive il nesso, questa volta interno, tra conflitto e forma politica, nel senso che ogni conflitto si giudica sulla base della forma cui è in grado di dare luogo, così come in ogni forma alberga un rapporto tra forze che ne caratterizza l’orientamento. Contemporaneamente, sul piano diacronico, ogni trasformazione può essere pensata, e ancora una volta giudicata e misurata, come l’incontro tra azione e processo strutturale, tra politica e materia: due logiche non-corrispondenti il cui incontro può dare luogo ad avanzamenti o regressioni. Insomma, nessun automatismo da filosofia della storia ma neppure le opposte autonomie del sociale e della politica.
In ultima istanza direi che la non-corrispondenza è un metodo, quello sperimentato dalle avanguardie classiche allo strutturalismo e, in Italia, fino alla neoavanguardia di sinistra: esibire la conflittualità del reale anche laddove venga celata – ad esempio in molte delle nostre filosofie postmoderne, come tali schiacciate su una realtà senza totalità o su una rappresentazione senza referente –, osservare come i fenomeni e le loro rappresentazioni non si corrispondano, è la prima condizione per attivare la conflittualità stessa. E con essa la trasformazione.
Come scriveva Edoardo Sanguineti, e come purtroppo dimostrano le due crisi economiche attraversate dalla nostra generazione, “le condizioni esterne è evidente esistono realmente, queste [condizioni esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi”.
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