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No virtue no commonwealth
Quando, nell’ultimo quarto del Settecento, i rivoluzionari americani attendevano alla costruzione dello Stato federale pensavano fosse cauto indagare l’ultimo secolo della res publica di Roma antica: alla ricerca delle ragioni della sua corruptio e della conseguente sua dissoluzione. La conclusione fu che la miglior garanzia consistesse nella virtù diffusa perché senza di essa nessuno stato avrebbe potuto conservare a lungo la libertà. In una repubblica la virtù porta con sé tanti doveri a carico dei cittadini e, soprattutto, dei governanti. I poli sono fondamentalmente due: l’agere pubblico rivolto unicamente alla realizzazione dell’interesse comune; e, per i governanti, il controllo della loro ambitio.
Proprio il dilagare dell’ambitio era stata la cifra della crisi della res publica alla quale guardavano come un modello gli americani in lotta contro la madre patria. L’ambitio aveva condotto alla tirannia di Caio Giulio Cesare; e i rivoluzionari americani non volevano finire un giorno con il trovarsi soggetti al comando di uno solo, una volta che si fossero liberati dall’Inghilterra che, per parte sua, aveva la pretesa di imporre ai coloni quanto avrebbero dovuto fare senza che ad essi fosse consentito di portare le loro ragioni a Westminster. Sorvegliare, contenere, reprimere l’ambitio: George Washington lo farà in prima persona e spontaneamente quando rifiuterà il terzo mandato da presidente; e quale novello Cincinnato giustificherà la sua scelta di “tornare a quel ritiro” al quale era stato sottratto per adempiere nulla più che a un dovere. Così il primo presidente degli Stati Uniti spezzava l’ambitio (non sua ma) del gruppo che gli stava attorno; e il suo definitivo commiato assumeva il valore di un gesto o di una condotta costituente: proprio perché l’ambitio degli uomini politici è spesso insaziabile occorreva una regola giuridica che, passato un certo tempo, imponesse a questa gente di tornare tra i comuni.
Il latino ambitio ha un’etimologia capace di mettere a nudo la disposizione d’animo dei candidati politici e di chi il potere abbia poi conquistato. Dietro c’è un verbo pregnante, ambire: è l’andare in giro per conquistare consenso, quindi voti. Da qui si apre un passaggio quasi scontato: ambire è brigare per conquistare e/o mantenere il potere e l’ambitio è tutto questo e altro, come il voler creare apparenze ingannatrici: parole e condotte menzognere perché volute per celare le reali intenzioni, l’amicizia creata ad arte per strumentalizzare l’amico o, anche, una situazione da cui strappare un vantaggio personale. Sì, l’ambitio – come ambizione tout court – può anche essere causa di virtù perché spinge all’azione e questo agere può essere utile alla comunità. Ma resta pericolosa: più un vizio che una virtù, specie per chi cerchi di guadagnare il potere pubblico.
L’etimologia di ambitio – dalla quale il nostro sostantivo ambizione – è davvero ampia e portentosa: svela una gamma di pulsioni che l’analisi attenta potrebbe confermare in questo o quel candidato o dirigente politico dei giorni nostri. Gli elettori di una repubblica, in quanto cittadini (doverosamente) attivi, dovrebbero essere attrezzati a compiere indagini di questo genere: non farsi irretire, cioè strumentalizzare, è proteggere la nostra prima dignità, non dovendo essere consentito a nessuno, maxime in democrazia, di considerarci e usarci come mezzi per.
Questa è storia; ma è soprattutto ontologia, essenza, anima di quella forma di stato e di governo che si chiama repubblica. Tutto ciò si è formato, e sedimentato, storicamente attraverso successive elaborazioni di pensiero e concrete esperienze politiche. Chi crede che la storia sia inutile (e molti la pensano così, anche presso le nostre alte dirigenze ministeriali) avrà interrotto quasi subito la lettura di quanto ho appena voluto ricordare; ma qualche volta la storia è, se non proprio magistra vitae, un deposito di attrezzi per orientarsi. E allora, quando al tempo della rivoluzione americana, un anonimo aveva composto la massima No virtue, No Commonwealth, doveva essere condivisa l’idea che non si potesse mantenere una comunità politica libera e coesa se non vi fossero in essa gli antidoti per il contrasto degli interessi particolari, cioè moduli di virtù civile accettati dai più e scrupolosamente osservati dai governanti. Ma nelle nostre repubbliche e/o democrazie occidentali come siamo messi? Siamo sufficientemente provveduti quanto a virtù civile? E i sistemi riescono a calmierare la naturale ambitio dei politici?
È difficile dare a queste domande una risposta incoraggiante. Specie se le lenti son quelle dell’osservatore che vive e indaga l’Italia contemporanea. È indubbio che l’ubriacatura consumistica – per la quale siamo divenuti mezzi di un’economia avida – ha creato un ambiente ‘occidentale’ poco consono alla coltivazione delle virtù civili e perfetto per l’irrobustirsi dell’individualismo egoista. Gli USA sono il nostro specchio: dall’Italia ci guardiamo dentro e, magari giurando che no, è presente, è presente in parecchi, il desiderio di essere come loro. Ma non ce la facciamo. Comunque, al di là dell’Oceano, lo spirito dei rivoluzionari settecenteschi è una specie in via di estinzione. Anche la Repubblica federale americana, concepita e strutturata per evitare la corruptio, sembra progressivamente corrompersi. La smodata ambitio e anche la scarsa qualità dei dirigenti politici sono abbastanza evidenti anche solo considerando il grande circus delle elezioni presidenziali.
Segnali di declino se non proprio di decadenza? Forse sì, anche se gli USA riescono ancora ad avvertirsi una community sufficientemente coesa sotto la bandiera a stelle e strisce: l’essere (per ora) una grande potenza globale è un collante da non poco. Ma l’Italia? É da anni in preda a un consumismo che l’ha consumata; e la comunità è dissolta, se mai sia veramente esistita. Il suo progressivo, grave, indebolirsi l’ha ulteriormente divisa; e facilmente se si considera che la sua unità è stata problematica fin dall’inizio. Vi troviamo non solo l’individualismo egoista che impedisce, tra l’altro, al ceto imprenditoriale di esser corredato di una dose sufficiente di lungimiranza e responsabilità; vi troviamo anche un radicato familismo, nemico della promozione dei talenti nell’interesse comune; e poi l’uso, anche il gusto, diffuso di aggirare qualunque regola, a cui si accompagna un’inspiegabile accettazione dell’impunità e dei giochi avvocateschi e giustificazionisti tramite cui pervenirvi.
Preoccupante è l’ambitio di quest’ultima generazione di politici. Non che quelli della precedente ne fossero immuni, ma un qualche equilibrio era possibile raggiungerlo, a vantaggio del Paese, perché i leaders erano mediamente corredati di una buona, qualche volta ottima, cultura, anche istituzionale. Venivano da un tempo in cui le scuole funzionavano abbastanza (e, per piacere, adesso non inventiamoci l’alibi della DAD …). Oggi è rimasta solo l’ambitio che, anzi, è cresciuta alquanto per come, nel frattempo, si è evoluto il mondo. E i cittadini non sono più in grado di valutare i candidati politici. Un po’ non ne hanno voglia, un po’ non ne hanno gli strumenti; e a ciò si aggiunge la sensazione – corretta – dell’inutilità di dedicarsi ad indagini del genere perché i candidati da eleggersi sono scelti, imposti, in base a chissà quali alchimie, dalle segreterie dei partiti (o, comunque, tramite inaffidabili procedure). Forse si dovrebbe ripartire proprio, o anche, da qua: restituire ai cittadini il potere – che è loro – di scegliere i propri dirigenti politici, dopo averli messi nelle condizioni, attraverso la scuola e un’informazione pubblica non collusa, di saper scegliere. Un piccolo consiglio: impariamo a leggere con acribia critica, in filigrana insomma, il curriculum di chiunque si presenti a qualunque elezione, fosse anche (penso ai miei colleghi accademici) quella di direttore di un dipartimento universitario.
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