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Polarizzazioni crescenti: strategia o casualità?

Ciò che contraddistingue il clima culturale di questi ultimi decenni è una continua e inesorabile spinta verso gli estremi. Ogni discorso, ogni conversazione – più o meno animata – ogni tentativo di instaurare un dialogo che sia capace di far convergere due posizioni inizialmente antitetiche in un punto di comune accordo sembra destinata a fallire. C’è come un divario incolmabile, una forra dentro la quale finisce ogni speranza di dialogo costruttivo. Usando un’iperbole potremmo dire che stiamo vivendo un clima culturale che si fonda sull’idea (malsana) di comunicare per essere incomunicabili. Quasi come fosse un gioco sottile a chi crea maggior fraintendimento. Ci si diverte, a volte si; ma la partita non finisce bene.
È evidente che una tale disaffezione nei confronti del dialogo, come mezzo per raggiungere un comune pensare, non arriva dal basso. Le classi dirigenti di questi ultimi decenni si sono distinte per la loro incapacità di realizzare una comunicazione che fosse al servizio del cittadino, invece che pollai capaci di far ingalluzzire i conduttori televisivi, e far salire di qualche punto l’audience dei loro programmi. Per non parlare dei giornali che spesso sono stati terreni feritili per la proliferazione di battibecchi, scontri e ammucchiate fra giornalisti di ogni razza.
Se questo è vero sul piano politico, sociale e comunicativo, ora bisogna vedere quanto sia vero sul piano tecnico e universitario. Come funziona l’ambiente universitario? Come nasce una dimensione conviviale, dialogica e di riflessione comune dentro le mura universitarie? La risposta è tremendamente semplice: nel chiuso della propria stanzetta. Infatti, che senso ha scambiarsi punti di vista; che senso ha porre critiche o dibattere su idee regolative; qual è il motivo per cui sarebbe meglio creare ponti che uniscano i vari saperi, da quello scientifico a quello umanistico, se poi tutto si riduce al particolarismo e al mio piccolo, specifico, ambito di studio? È chiaro che questo tipo di rapporto è tutto meno che universale. Senza considerare il fatto che, continuando di questo passo, anche la democraticità, in un tipo di assetto individualistico e settoriale come quello attuale, rischia di venire meno. Ma queste problematiche sono orami arcinote.
Solo per dovere di cronaca, è bene ricordare – fra le molte osservazioni critiche che sono state sollevate in questi ultimi anni – alcune delle parole del sociologo tedesco Ralf Dahrendorf che all’inizio del XXI secolo diceva:
“Una delle perdite maggiori di cui oggi mi rammarico è proprio il dibattito democratico, la discussione informata e ponderata sulle grandi questioni. Questa funzione, nella democrazia tradizionale, la svolgevano i Parlamenti. Più i Parlamenti si indeboliscono e perdono questo ruolo, meno opportunità ci sono per un dibattito democratico, più poteri impropri vengono assunti dai nuovi intermediari”[1].
Parole quanto mai realistiche. Dunque anche secondo Dahrendorf l’esempio viene dall’alto, dal potere politico legislativo depauperato e reso inerte di fronte ai “poteri impropri”, che fungono da “nuovi intermediari” manipolando – aggiungo io – l’opinione pubblica e la stessa dimensione politica e dirigenziale. Ma chi sono questi “nuovi intermediari”? Oggi, rispetto a vent’anni fa, è ancora più evidente: si tratta infatti di tutti quei sistemi di strapotere (con il portafoglio alle isole Cayman) che gestiscono grandi multinazionali (WebSoft) aventi il solo intento di governare intere nazioni con un semplice click.
Ovviamente ci sarà qualcuno che penserà che Dahrendorf, Habermas, Foucault eccetera, siano tutti pensatori complottisti, allucinati da cose che non esistono. Ecco, questo accade proprio perché il dibattito pubblico è sempre più polarizzato. Ci viene comodo pensare per estremi. È molto più faticoso, impervio e scomodo cercare di illuminare le zone d’ombra presenti in ognuna delle posizioni in campo. Sapere aude! dicevano gli illuministi.
Quando gli estremismi diventano la regola, questi si radicalizzano. Iniziano a schizzare sempre più distanti, sempre più violenti, e allora davvero il dibattito democratico è in serio pericolo.
La situazione globale, con questa epidemia più o meno delirante, non può farci dimenticare questo tipo di riflessione critica. Non può in nessuno modo. Altrimenti è come se ci rassegnassimo a immaginare il mondo a partire unicamente dalla prospettiva medico sanitaria. O, peggio, da quella economico-finanziaria. Entrambe prospettive indubbiamente importanti, ma non fino al punto di barattare con esse secoli di conquiste democratiche.
Occorre immaginare un equilibrio sensato fra necessità medico-sanitaria e organizzazione sociale. “Tutto giustifica il mercato!” sembra essere lo slogan che continua a imperare nel discorso della cultura dominante. Polarizzando così, ancora una volta, l’opinione pubblica che si vede etichettata un giorno come troppo attaccata alla salute, a dispetto dell’economia, e il giorno seguente come maliziosa e troppo preoccupata al proprio portafogli, mentre fuori c’è una pandemia praticamente inarrestabile. In sostanza, una situazione di stallo, che in qualunque modo tu faccia sbagli.
Eppure ci dovrà essere una via alternativa, un modo che possa ripristinare un minimo di riflessione sulla libertà personale senza per questo essere additati di voler pensare ai propri interessi, quando per decenni l’individualismo, l’egocentrismo e il “mi faccio da solo” sono stati sbandierati e resi dei veri e propri codici virtuosi, senza perseguire i quali eri escluso dalla società. Adesso, tutto di un tratto, sembra che la società, il bene comune e il rispetto della dimensione collegiale siano fondamentali, anzi, inderogabili. E allora: meglio l’isolamento.
Quando si entra in modo così spedito e diretto in un terreno così delicato e sensibile come è quello dei diritti fondamentali, nonostante le motivazioni sanitarie siano – in parte – comprensibili; e quando ciò avviene per lo più sulla spinta emotiva di una informazione schizofrenica e paranoica, che non lascia spazio al minimo comune denominatore; quando tutto questo accade e sembra essere normale e “oggettivo”, in quel preciso momento, l’intero assetto di uno stato di diritto rischia di venire meno. Dal mancato sentire comune, alla sfiducia verso le istituzioni, fino ad arrivare alle incomprensioni sul piano medico e deontologico (vedi le perenni diatribe fra i diversi dottori), che dovrebbero essere al contrario punti di ancoraggio e di sicurezza per il cittadino, diventano tutti, purtroppo, motivo di sconforto e di svalutazione del principio democratico.
Orami abbiamo capito qual è la strategia di una certa comunicazione. Quei pochi che ancora non la vedono o sono totalmente assuefatti o collaborano per far sì che questo tipo di messaggio esasperante si insinui pervicacemente nella psiche di ogni essere umano.
Uscire da questo schema, da questa sciarada impossibile, dove ogni riflessione sembra inutile e faziosa, richiede una forte presa di responsabilità personale. Il lavoro di apertura mentale e di elaborazione culturale è soprattutto un lavoro che ci coinvolge interiormente come agenti singoli, come soggetti pensanti liberi di percorrere strade nuove. Sull’onda del poeta Antonio Machado:
“Ho percorso molte strade,
e aperto molti sentieri”[2].
È questo spirito di avventura che ci manca. Per questo certi meccanismi di comunicazione propagandistica hanno un così forte potere persuasivo su di noi. Fatichiamo ad aprire sentieri, dove la strada ci sembra essere a senso unico, ininterrotta. Fatichiamo ad ascoltare le mille e più voci che compongono il panorama della riflessione politica, economica, medica e filosofica. C’è ancora troppa ideologia in tutto questo caos del mondo falsamente post-ideologico. Meglio è ancora ficcarsi dentro un contenitore già precostituito, piuttosto che arrischiarsi in una strada trasversale, poco asfaltata, che guardi l’insieme delle parti, senza per questo prendere una posizione rigida, escludente e ottusa. Per quanto tempo ancora dovremmo subire dialoghi che sono meri monologhi autoreferenziali? Per quanto tempo ancora l’informazione dovrà pungolare sadicamente lo spettatore, il lettore, con frasi cerimoniose degne di una campagna elettorale, invece di svolgere un servizio pubblico che ponga seriamente sullo stesso piano riflessioni provenienti da mondi, forse poi, non così distanti? Per quanto tempo ancora dovremmo stare a osservare una modalità di studio universitario che, invece di andare controcorrente e sfornare visioni sempre nuove della realtà, si ostina a camminare coi paraocchi, ossequiando e cavalcando quel clima di algido fraintendimento, tanto utile ai poteri forti, quanto dannoso al vivere comune? Per quanto tempo? Per quanto tempo? Per quanto tempo?
[1] Ralf Dahrendorf, Dopo la democrazia, Laterza, Roma, 2001 pag. 100
[2] (He andando muchos caminos,/ he abierto muchos veredas) Antonio Machado, Poesie, Il viaggiatore, Newton Compton, Roma, 1971 pag. 25
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