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Il debito pubblico e le lezioni sull’inflazione che ci vengono dalla storia
Negli ultimi trimestri i titoli di stato italiani hanno goduto del favore del mercato domestico ed internazionale grazie ad una serie di circostanze di particolare rilievo e per alcuni versi uniche. Gli effetti sono noti: una consistente riduzione dei tassi d’interesse (il 17 dicembre il BTP benchmark decennale è sceso sotto lo 0,5%, e lo spread BTP-Bund decennale si è portato a 108 b.p.). I driver che costituiscono i pilastri della straordinaria performance di mercato dei treasury italiani sono al momento sostanzialmente quattro:
1) Il sostegno che viene dagli acquisti diretti della BCE in proporzione superiore rispetto ai Capital Keys: l’azione determinante della Banca Centrale Europea ha giocato un ruolo primario nell’assorbire l’offerta sul mercato dei titoli italiani, nello sforzo di allontanare i rischi di disgregazione dell’Unione di fronte alle difficoltà di finanza pubblica del nostro Paese combinate con la crescita esangue, che vede l’Italia agli ultimi posti nell’Area. Essa costituisce un sostanziale back-stop che limita il rischio dell’investimento in treasury italiani, specie in BTP, attirando la domanda estera degli istituzionali e costituisce anche una leva fondamentale per l’azione di supporto fornita dagli altri driver a seguire.
2) L’ampia diffusione sul mercato dei titoli europei di tassi di rendimento negativi, pressoché lungo tutta la curva dei rendimenti: la diffusione di rendimenti negativi sui titoli di stato europei, ed in particolare su molti dei Treasuries dell’Eurozona, ha costituito il secondo rilevante driver. La rarefazione di Treasuries con rendimenti positivi ha spinto molte categorie di investitori istituzionali, fondi pensione ed assicurazioni in testa, ad incrementare la quota di titoli italiani in portafoglio. Le prospettive di ulteriori riduzioni dei tassi di mercato hanno irrobustito e dilatato nel tempo tale tendenza.
3) La disponibilità, almeno sul breve termine, delle autorità europee a venire incontro alle esigenze di stabilità del nostro Paese concedendo, ad esempio, un assetto del Recovery Fund apparentemente più favorevole per noi.
4) L’interruzione del Patto di Stabilità.
Il nostro debito pubblico sta quindi “spopolando” tra gli investitori istituzionali, nonostante i non favorevoli fondamentali macroeconomici ed un’evoluzione dei saldi di finanza pubblica, specie a seguito della pandemia, tutt’altro che rassicurante e che non avrebbe giustificato una simile performance, se non in tale eccezionale contesto.
Paradossalmente i problemi per i nostri titoli di stato potrebbero presentarsi con l’esaurirsi della crisi epidemica: il ritorno ad un “new normal” significherebbe verosimilmente la fine della sospensione del Patto di Stabilità, un atteggiamento meno accomodante della BCE che, cessata l’emergenza avrebbe maggiore difficoltà a tenere a bada le componenti più rigoriste, espressione delle posizioni dei paesi cd. “frugali”.
È tuttavia da sottolineare che a fare da sfondo ai quattro fattori summenzionati vi è un quinto elemento, un vero e proprio “convitato di pietra”: la certezza che il tasso di inflazione rimanga su recenti livelli storici, assai contenuti. Un tasso di inflazione trascurabile è ritenuto da molti “strutturale”: più solido dei precedenti fattori, che hanno una connotazione in buona parte politica, e che quindi possono essere in qualche misura soggetti agli umori alterni degli interessi nazionali e di bottega coinvolti.
Il vero rischio, proprio perché ampiamente sottovalutato, potrebbe venire proprio da un reversal nell’andamento dei prezzi al consumo e delle aspettative di inflazione che ribalterebbe l’opinione mainstream, sorprendendo la maggior parte degli operatori.
Si dirà che l’inflazione “fa bene” al debito pubblico: è vero, un tasso di inflazione relativamente apprezzabile tende a ridurre l’onere reale del debito per il Tesoro attraverso una compressione dell’effetto “snowball”. Questo accade quando il tasso nominale di crescita del PIL supera il saggio di interesse nominale pagato sul debito. Il punto è che l’impatto sull’economia reale è graduale: la crescita nominale del PIL tende ad essere lenta mentre esiste il rischio tangibile che le aspettative sui tassi di interesse si adattino molto più velocemente a sorprese dal lato dell’inflazione; difatti, se gli operatori di mercato si convincono che il trend inflattivo è cambiato ed estrapolano tale attesa nel futuro è probabile che i prezzi dei titoli di stato accusino il colpo prima che si possa manifestare l’effetto positivo. Si potrebbe paragonare alla situazione, aneddotica, del giapponese che combatte con la spada contro più avversari mentre dietro di lui si trova un mitra carico e con il colpo in canna: quelli lo tengono talmente impegnato da impedirgli di prendere l’arma con la quale potrebbe facilmente sopraffarli.
Molti osservatori mainstream gettano acqua sul fuoco: osservano che i salari non mostrano assolutamente quell’evoluzione a spirale che caratterizzerebbe un episodio di forte accelerazione dei prezzi al consumo o, peggio, di iperinflazione. Altri, ad esempio la rivista The Economist[1], ha recentemente sottolineano come la vigorosa e storicamente inedita crescita degli aggregati monetari a livello globale, dopo la GFC (Great Financial Crisis) del 2008, non si sia riflessa in un’accelerazione al consumo, dimenticando che da allora si è manifestata una vistosa inflazione degli asset finanziari piuttosto che un surriscaldamento della domanda di beni reali. Inoltre si sostiene che un eventuale arrivo dell’inflazione dovrebbe essere graduale, insomma che si annuncerebbe, magari accendendo una spia rossa di allarme.
Superficialmente appare tutto corretto: la narrativa messa in campo sembra tenere. In realtà, l’inflazione è oggi tenuta a bada anche dalla forza deflattiva esercitata dalle conseguenze economiche della pandemia sulla domanda aggregata, non solo italiana. Un fattore che si esaurirà con la pandemia. In secondo luogo è già visibile una forte accelerazione dei corsi delle materie prime non energetiche, che aspetta solo la situazione opportuna per riversarsi nella pipeline dell’economia reale internazionale. Ci si dimentica poi dei colli di bottiglia potenziali creati, sul lato dell’offerta, dalle diffuse interruzioni delle catene di fornitura (cd. “supply chain disruption”) globali seguite alla disputa commerciale tra Stati Uniti e Cina ed alla relativa politica tariffaria. Un fattore ora latente per carenza di domanda di beni reali, ma che verosimilmente inizierà a farsi sentire con la ripresa della suddetta, attualmente repressa (la cd. “pent-up demand”). Last but not least, la regionalizzazione del commercio internazionale, specie dopo l’accordo RCEP nell’area asiatica, potrebbe verosimilmente contribuire a sostenere un’accelerazione dei prezzi al consumo nei paesi occidentali nel momento della ripresa.
Quello che però conta maggiormente è che la storia ci indica come negli episodi di accelerazione significativa dei prezzi al consumo le cose siano andate diversamente dalle attese correnti prevalenti. Nell’agosto 1971, Nixon annuncio l’inconvertibilità del dollaro in oro e controlli su prezzi e salari, la crescita dei prezzi al consumo passò dal +3,3% di quell’anno al +3,4% nel 1972, più che raddoppiando la velocità all’8,7% nel 1973 e toccando il +12,7% nel 1974. Bisogna sottolineare che la crisi petrolifera arrivò solo da ottobre 1973 e già i prezzi degli alimentari e dei prodotti energetici avevano iniziato ad accelerare in misura significativa:
Negli anni ’70 i prezzi al consumo negli USA quasi triplicarono nel giro di due anni e mezzo! Non è il solo esempio: nel ‘900, durante l’iperinflazione degli anni ’20, in Germania i prezzi al consumo sono cresciuti del 2400% dal dicembre 1920 al settembre 1922 (meno di 24 mesi). In quest’ultimo caso la base monetaria è aumentata solo del 435%: in misura assolutamente inferiore rispetto ai prezzi al consumo. Per inciso negli USA la base monetaria dall’inizio del 2008 a maggio 2020 è cresciuta di circa il 590%. In questi, ed in altri numerosi casi, la fiammata inflattiva è stata sempre preceduta da un significativo indebolimento del cambio, che apre la strada all’inflazione importata – specie se le materie prime entrano, o sono, in tensione – mentre si è assistito ad una accelerazione dei salari solamente dopo che il processo inflattivo si era avviato attraverso il canale esterno.
Ovviamente questi sono esempi relativamente estremi ma il punto è che sottolineano come gli episodi inflattivi non siano eventi che maturano necessariamente con gradualità: si può passare, in un tempo relativamente breve, da un tasso di inflazione assai contenuto ad una accelerazione dei prezzi al consumo significativa e, spesso, inattesa.
Ora, però, intendiamoci bene: non necessariamente le attuali condizioni dovrebbero portare ad una fiammata inflazionistica diffusa nel mondo occidentale. Inoltre, anche se ciò accadrà, è verosimile che si presenti con intensità assai diverse: in misura più marcata nei paesi anglosassoni e, probabilmente, assai meno vivace in Eurozona, dove la BCE vigila per statuto innanzitutto sulla stabilità dei prezzi e potrebbe reagire in modo più deciso rispetto alla FED ad una simile eventualità. Il punto è che bisogna essere pronti a tutto: come nei movimenti tellurici, le forze si accumulano lentamente con il contributo di più concause e si manifestano in un intervallo di tempo breve ma con intensità. Ciò in alcune situazioni ha una rilevanza pratica minore, ma in altre può, e sottolineo “può”, essere determinante. Nel caso del debito pubblico italiano il rischio è che, visto l’attuale livello assai modesto, anche un aumento dei tassi piuttosto contenuto possa produrre conseguenze notevoli.
Questa in buona approssimazione potrebbe essere oggi la situazione del debito pubblico italiano in titoli: impossibilitato ad uscire dalle secche di una gestione affannosa se non con un comportamento virtuoso – leggi crescita e, possibilmente, superiore o almeno prossima a quella dei partner dell’ Eurozona – del Paese sul medio periodo; condannato a rimanere agganciato ad un aiuto di tipo “support life-line” della Banca Centrale, nella speranza che questo non venga meno con il dissolversi – per ora potenziale – della pandemia; ma, soprattutto, esposto alla spada di Damocle di una inversione delle attese inflattive. Forse è per questo che il Tesoro sta “correndo” e cercando di allungare il più possibile la vita media del nostro debito in titoli di stato, approfittando, fin quando possibile, della favorevole congiuntura.
Nella speranza di sbagliare e che:
- i fattori in grado di accendere una fiammata inflattiva non si combinino e/o,
- in caso contrario, le autorità monetarie siano pronte e decise ad intervenire,
è comunque opportuno ricordare il sempreverde detto latino” Si vis pacem para bellum”: non si può evitare di guardare in faccia la realtà, per cruda che sia. Bisogna vagliare con attenzione tutte le possibili alternative, senza escluderle dogmaticamente perché sgradite, anzi, più sono sgradite più vanno esaminate e considerate. Non si può prescindere da una simile impostazione: citando Einstein “La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre”. I rischi non scompaiono se facciamo finta di non vederli.
[1] The Economist: “A surge in inflation looks unlikely”, December 12th 2020.
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