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Politica estera e identità nazionale. L’Italia tra Europa e Mediterraneo


4 Gen , 2021|
| 2021 | Visioni

Il 1° settembre 2020, la Marina del generale Khalifa Haftar fermava i due pescherecci Antartide e Medinea con l’accusa di aver sconfinato nella Zee (Zona economica esclusiva) della Libia. Le imbarcazioni stavano navigando a 38 miglia dalla costa libica, internazionalmente riconosciuta quale «linea di base» per la misurazione delle canoniche 12 miglia (Convenzione di Montego Bay, 1982) di acque territoriali nazionali. Nihil sub sole novum: da tempo, sempre più pescherecci, sfruttando il contrasto tra il diritto internazionale e le rivendicazioni sovrane del Paese africano, sfidano l’autorità libica su un tratto di mare che pare incarnare un paradosso della sovranità.

Dunque, qual è il problema? Il problema è che otto nostri connazionali (insieme agli altri dieci componenti dei due equipaggi) verranno immediatamente tratti in arresto e saranno rinchiusi per 108 giorni (con annessi maltrattamenti) nelle carceri libiche; è solo di questi ultimi giorni la loro liberazione.

Il caso merita un’attenta riflessione, non foss’altro perché nella sua tragica paradossalità dice tanto dell’immagine internazionale dell’Italia, delle capacità politiche del Ministro degli esteri Luigi di Maio e della quasi totale assenza di razionalità strategica e geopolitica nella tutela degli interessi nazionali da parte della classe dirigente italiana.

Che sta avvenendo, in questi tempi, nel Mediterraneo? Limitandoci alla nostra teorica sfera di influenza: che l’Algeria disegni la propria Zee praticamente a ridosso delle coste sarde e che Turchia e Russia di fatto dominino sulla Libia: un’area da sempre strategicamente cruciale per la difesa e l’approvvigionamento energetico italiano nonché per il governo dei flussi migratori. Queste (e altre) potenze stanno cercando, in sostanza, di approfittare strategicamente della ritirata americana dal Mediterraneo perché sanno che esiste un nesso piuttosto forte tra difesa dell’interesse nazionale, marittimità e legittimità interna; e sanno anche che il valore di una classe dirigente si misura soprattutto da come sa proteggere i propri cittadini: ne va della tenuta degli equilibri politici e sociali della nazione. Da noi, invece, l’opinione pubblica mediamente liberale, la sinistra e il Pd, sostenuti dalla propaganda dei giornali di regime (leggi dei poteri forti) bollano con la qualifica di «sovranista» tutti coloro che osano ribadire l’ovvio, ovvero la centralità di sovranità e interesse nazionale quali elementi cruciali anche della governamentalità democratica.

Nella classifica dei Paesi che sostengono l’ordine a-politico del discorso globalista, liberal e vocato all’apertura e all’inclusione dell’alterità, l’Italia occupa sicuramente i primi posti: siamo maestri in quello sport che consiste nell’accusare gli studiosi e gli intellettuali che ricordano l’importanza della cifra costitutiva del ‘politico’, ovvero la possibilità di fare guerra, di “agire” la potenza che è implicita a ogni ordine politico (si badi: la logica di guerra non è la guerra).

La riprova che in Occidente, e soprattutto in Italia, ci si sia ormai totalmente assuefatti a un’accezione moralistica, irenica e quindi vuota del ‘politico’ è che non sappiamo nemmeno più distinguere un’epidemia da una guerra, uno stato di emergenza sanitaria da uno stato di eccezione tout court: abbiamo perso il senso della misura, la nostra stampa è uscita definitivamente dal campo della ricerca della verità e mentre le potenze non-occidentali attuano una corsa al riarmo, noi, abbandonati dal nostro alleato maggiore, facciamo appello all’Europa per difendere i nostri interessi nazionali nel Mediterraneo: «Il ridicolo cresce in proporzione a quanto ci si dà da fare per difenderlo», scriveva Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos.

Sarebbe una grande notizia se una potenza democratica come l’Italia cominciasse a pensarsi attore strategico nel Mediterraneo, utilizzando le proprie ingenti forze navali per sostenere, oltre che i propri interessi nazionali, anche il rispetto dei diritti umani che, nonostante i tanti appelli della comunità internazionale, vengono sistematicamente violati. Considerata la nostra marittimità, le capacità della nostra Marina e la presenza del Papato, quale altro Paese meglio dell’Italia potrebbe fare da ponte umanitario e geopolitico tra le sponde del Mediterraneo? Come non vedere che esiste la concreta possibilità di giocarsi un ruolo cruciale in campo internazionale? Giova ricordare che, nel 2018 l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) ha riconosciuto la Sar libica, ciò che ha permesso l’aperta violazione dei diritti umani da parte dello Stato africano. Come se non bastasse, Libia e Malta, il 28 maggio del 2020, hanno firmato un Memorandum of Understanding (MoU), così da fornire una base legale bilaterale a pratiche illegali.

Per agire su tale scenario bisogna risolvere anzitutto la questione dei confini della sovranità libica, cioè mettere mano a una vicenda che risale al 1973, quando la Repubblica Socialista Popolare di Libia, guidata da Muʿammar Gheddafi, in barba a un principio del diritto internazionale secondo cui non si può “chiudere” un’insenatura per una lunghezza superiore alle 24 miglia, tracciava una linea addirittura di 300 miglia lungo il parallelo 32° 30′ N tra Misurata e Bengasi (successivamente definita «linea della morte»), così da trasformare l’intero Golfo della Sirte in un mare interno. L’Italia, pur di non mettere in discussione gli accordi energetici stipulati con Tripoli, non batté ciglio mentre l’alleato maggiore americano cominciò una guerra diplomatica che maturerà nella crisi e nei bombardamenti del 1986.

L’arresto dei due pescherecci italiani dimostra che, a oggi, Haftar continua a ritenere legittimo misurare le 72 miglia della propria Zee a partire dalla «linea della morte»: alla faccia del parere contrario dell’Onu.

Secondo l’Ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, in riferimento al progetto di legge sull’istituzione di una Zee italiana, bisogna cominciare col dichiarare il massimo possibile, cioè 200 miglia nautiche: dopo di che, al tavolo negoziale con i libici, si valuteranno le eventuali sovrapposizioni sulla base dei rispettivi interessi nazionali. A suo parere, la questione è cruciale perché inerisce alla nostra capacità di azione in un’area che, con il crollo dell’Urss e l’allontanamento americano, è diventata piuttosto effervescente: Turchia, Russia, Israele, Egitto e Algeria vi si stanno imponendo come protagonisti[1].

E l’Italia? Possiamo legittimamente provare ad avere un ruolo da protagonisti? La Marina italiana è seconda solo alla Francia in area mediterranea. Non si tratta, ovviamente, di promuovere un’egemonia ma di cominciare a far contare la nostra potenza al tavolo dei negoziati. Non sarà un’impresa facile. D’altro canto, possiamo scendere più in basso di così? No. Basta osservare la disproporzione tra la pena comminata ai nostri connazionali e quella toccata di recente ai pescatori turchi che, per aver sconfinato nella Zee libica, hanno subìto una semplice ammenda e dopo cinque giorni se ne sono andati. 

Altro grande ostacolo da superare: la storia e la psicologia nazionale. L’atlantismo e l’europeismo sono stati i prius di ogni politica estera italiana a partire dal 1945, con tutto ciò che ne è conseguito (e ancora consegue) in termini di libertà d’iniziativa. Si dovrebbe, in realtà, parlare di complesso egemonico atlantista-europeista, nel senso di ordine del discorso che non ammette alternative. Potremmo dire, usando il gergo di Ferdinand de Saussure, che l’europeismo fu la parole della langue atlantica, ovvero quell’atto linguistico individuale e irripetibile con cui i parlanti entrano in relazione all’interno di una stessa koiné di cui condividono i codici di fondo, il sistema dei segni. L’europeismo fu la parole utile a far digerire il “codice atlantico” al Pci e il procedimento funzionò fin troppo bene, se è vero che, come ricorda Valter Coralluzzo[2], tra il 1975 e il 1977 Enrico Berlinguer, dapprima al XIV Congresso del Pci (1975), poi in un’intervista concessa a Giampaolo Pansa del «Corriere della Sera» (1976) e infine con la partecipazione comunista al governo della «non sfiducia» del 1977, parlava della Nato come fattore di pace e di equilibrio tra l’Est e l’Ovest e della necessità di rispettare gli impegni comunitari europei: sappiamo, con la successiva mutazione in Pds-Ds-Pd, che cosa significasse e ciò cui preluse.  

Come in ambito di politica interna, anche in quella internazionale la sovranità italiana era limitata e, come abbiamo visto, verso la fine degli anni Settanta, tale limitazione venne favorevolmente accolta anche dal Pci, con il risultato di rendere irreversibile l’inserimento dell’atlantismo-europeismo nella costituzione materiale del Paese. La «svolta comunista», se di svolta si trattò, ricomponeva idealmente e discorsivamente anche la frattura interna al Paese (erano gli «anni di piombo», del terrorismo, degli opposti estremismi e delle stragi di Stato), consegnava alla società civile un’auto-consolatoria percezione di unità e solidarietà in nome dell’emergenza terroristica e riusciva, infine, a ridefinire linguisticamente la soggezione della politica estera italiana agli Usa come una scelta matura e consapevole nel nome della pace (o meglio… della pax americana) e dell’equilibrio internazionale.

Un’altra unità discorsiva provvedeva a tenere insieme le disiecta membra del corpo della nazione: un immaginario improntato alla percezione di sé come deboli, deficitari e bisognosi di figure esterne di protezione. A oggi si può dire che probabilmente il nucleo profondo della costituzione materiale dell’italianità consista proprio in quella persistente e radicata mancanza di fiducia in noi stessi che funziona come supplemento d’anima di un patto sociale repubblicano su cui in fondo non ci siamo mai davvero impegnati né individualmente né come collettività.

Ce lo dice, in tutta evidenza, anche la storia del cinema italiano: a partire dagli anni Cinquanta, il genere della commedia ci consegna figure di uomini inetti, vittime di sé stessi e della storia che inevitabilmente li travolge. Secondo Silvana Patriarca, la ragione di ciò è da rintracciare nell’esperienza di nazione traumatizzata dalla guerra che ricerca miti di coesione e di rifondazione[3]: caratteristiche ancora molto presenti nel nostro immaginario, al punto che ancor oggi molti Italiani sottoscriverebbero quanto affermato da Giorgio Bocca nel 2003: «Siamo una nazione troppo giovane e troppo divisa, e forse l’ora per crearla è passata. Resiste, certo, un’appartenenza al luogo natìo, alla sua lingua, al suo costume, alle sue virtù e ai suoi vizi, ma nel suo insieme non è una patria radicata nei secoli, è ancora una società che nel Sud chiede al governo prevalentemente protezione e nel Nord autonomia»[4]; un’auto-consapevolezza diffusa che porta a considerare inutile lo sforzo di «fare gli italiani» di d’azegliana memoria, perché l’Italiano non è più un essere storico ma una sorta di figura sempre uguale a sé stessa, condannata a ripetersi, con tutti i suoi vizi e le poche virtù, in eterno.  Questa idea, radicata nel nostro immaginario, figlia di una ricchissima letteratura anti-nazionale, va in realtà tolta dalle astrazioni interessate di certo giornalismo mainstream e riconsiderata alla luce della storia politica e militare del Paese: limitandoci al Novecento, alla sindrome di Paese sconfitto che doveva recuperare credibilità agli occhi dell’ex nemico (gli Usa) divenuto il suo principale alleato mostrando al mondo il proprio lato vulnerabile così da farsi perdonare il Ventennio e la partecipazione italiana alla guerra di Hitler.

D’altronde, anche gli altri leit motiv della narrazione nazionale funzionano alla stessa stregua. Uno di essi, il più classista e odioso, è il pregiudizio di matrice nordico-continentale e in genere anglofono, che vogliono il popolo italiano arruffone, scenografico, vanitoso e poco affidabile – pensiamo alle maschere popolari della nostra storia, da Stenterello ai personaggi interpretati da Alberto Sordi, Marcello Mastroianni o da Paolo Villaggio, che sono perfette metafore di dipendenza; un pregiudizio, questo, che in primis i nostri intellettuali engagé di certa gauche caviar condividono con i loro omologhi liberal d’oltreoceano e i leftist d’oltralpe, e che guarda alle masse popolari come a entità antropologicamente ed eticamente informi, prive di disciplina e cultura, obbedienti solo agli impulsi barbarici del ventre (di cui anche il fascismo e oggi il populismo melon-salvinista, in fondo, non sono che gli esiti più veritativi). È anche per queste ragioni che si spiega il clamoroso successo (soprattutto da noi) del celebre saggio Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata (1958) in cui si presentava la discutibile tesi secondo cui da un deficit di ordine etico, definito come «familismo amorale» – questo sarebbe l’esito di un’indagine socio-antropologica condotta su uno specimen, assai ristretto, costituito da abitanti del borgo di Chiaromonte (Potenza) – derivino comportamenti di un certo tipo nella società e nella civicness: ora, al netto della debolezza dell’impianto metodologico del lavoro del politologo americano, già oggetto di serrati dibattiti e lunghe controversie tra gli studiosi, il fatto che conta rilevare è la fortuna della sua definizione di «familismo amorale», che i grandi opinionisti italiani hanno immediatamente sposato, estendendone il campo di applicazione a tutto il carattere nazionale italiano, quando in realtà lo stesso Banfield aveva mostrato una certa cautela circa la generalizzabilità delle proprie conclusioni.

È evidente, insomma, come questo immaginario sia strettamente connesso a un vero e proprio complesso d’inferiorità nei confronti della Mitteleuropa, che si è storicamente tradotto in un correlativo complesso di superiorità quando non in atteggiamenti di indifferenza o persino di malcelato disprezzo verso le ragioni (e le regioni) del Mezzogiorno italiano, del Levante e del Maghreb.

Anche la geopolitica italiana ne ha risentito: la politica estera italiana ha sempre avuto una trazione settentrionale e continentale (pensiamo solo all’esaltazione delle ferrovie e dell’integrazione con l’Europa di Cavour); non è un caso che la nostra sia «la classe dirigente più terragna d’Europa, Paesi senza sbocco al mare inclusi – su tutti la formidabile Svizzera, seconda potenza mondiale nello shipping», si legge in Non moriremo guardiani di spiaggia[5]. Le élite nazionali, insomma, hanno sempre voltato le spalle al mare, condannandoci, così, alla marginalità sul piano internazionale,

Avrebbero potuto fare diversamente? Probabilmente no, dati i vincoli della Guerra Fredda e l’adesione alla Nato. Oggi, però, gli Usa hanno smesso gli abiti della superpotenza e dunque, pur senza volersi illudere di poter avere una soluzione a portata di mano, si tratta almeno di cominciare a rendersi conto della necessità di una svolta di carattere antropologico nella concezione dell’interesse nazionale da parte delle nostre élite. Senza questa conversione non sarà possibile mettersi a livello delle sfide che nel Mediterraneo attentano alla nostra già mediocre esistenza come attore strategico.


[1] «Arriveremo nel Mar Cinese Meridionale, ma senza aerei non c’è portaerei», «Limes», 10 (2020), pp. 41-42.

[2] Cfr. Valter Coralluzzo, La politica mediterranea dell’Italia: continuità e cambiamenti, «l’impegno», 1 (2007).

[3] Cfr. Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010.

[4] Giorgio Bocca, Piccolo Cesare, Feltrinelli, Milano 2003, p. 87.

[5] Non moriremo guardiani di spiaggia, in «Limes», 10 (2020), p. 15.

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