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Per una Repubblica “tumultuaria”


14 Gen , 2021|
| 2021 | Visioni

Che si fa con la storia? La si studia sempre meno e peggio nelle scuole. Ma nello spazio pubblico di discussione e di comunicazione molto spesso se ne fa un uso disinvolto o strumentale; o semplicemente retorico quando la si usa come argumentum che, recuperando l’esperienza, conferma una certa lettura dell’esperienza vissuta dal lettore (il suo presente) impegnato a capire e, soprattutto, a far capire agli altri.

Da questo punto di vista la storia di Roma resta tra le più fascinose perché è la storia di una grande potenza globale. Quando Andrea Carandini ha comunicato al mondo di avere trovato le tracce della Roma di Romolo, quasi nessuno si è domandato se siano prove scientifiche i resti archeologici di cui egli si era servito per comporre la sua suggestiva narrazione. Molti gli hanno acriticamente creduto; e ne è scaturito un circuito mediatico di dimensione, appunto, globale, con romanzi, film, fiction e con incremento anche del turismo. Quando un antropologo del valore di Maurizio Bettini ci descrive l’impero romano come aperto e inclusivo, ben disposto ad integrare gli stranieri e, anzi, dispensatore di cittadinanza romana su larga scala, egli si serve della storia per persuadere i nostri contemporanei dei vantaggi che derivano dall’accoglienza e dall’integrazione dei migranti, esattamente come sarebbe accaduto a Roma. Ma per l’obiettivo della persuasione dei contemporanei si dimentica che esistono non indizi, ma prove che Roma praticò verso i non romani una politica di conquista e di dominio anche brutale e, talora, di sterminio vero e proprio.

Insomma è doveroso non mischiare storia e retorica, falsificare o sopravalutare le tracce dall’antichità per soddisfare ambizioni personali o rafforzare un discorso ideologico del presente e per il presente. Ma ciò non basta come avvertenza per chi voglia fare cose con la storia. Qualche giorno fa il papa (anche lui) ha ammonito che dobbiamo imparare dalla storia. Ma imparare cosa? Penso che risponderebbe: dagli errori della storia. Si potrebbe aggiungere (o replicare) che, se siamo andati avanti, è in conseguenza anche di quegli errori, talora tragici.

Forse dobbiamo più semplicemente non tornare indietro, soprattutto non insistere nel mantenere immutato quel che è. C’è molto, tra le nostre strutture, da consegnare definitivamente alla storia. Per l’Occidente ciò potrebbe significare salvare sé stesso, non entrare nella spirale della decadenza. Ecco che torna, anche a questo proposito, il topos dell’impero romano: Capitol Hill come il sacco di Roma perpetrato dai Visigoti nel 410 d.C., campanello d’allarme o campana a morte per un impero, il romano, che durava da tanti – troppi – secoli. Ma è poi corretto accostare gli sbrindellati trumpiani all’armata di Alarico?

Se l’analogia o le analogie, che si suppongono, sono funzionali a dare l’avviso di stare in guardia per quel che potrebbe accadere negli USA e nell’Occidente in genere, evocare a conferma la caduta dell’impero romano è quanto meno inutile. Oltre un secolo fa, proprio per avvertirci, Oswald Spengler pubblicava un libro poderoso, Il tramonto dell’Occidente: le civiltà, secondo Spengler, sono come degli organismi viventi e, in quanto tali, destinate a decadere e, indi, a scomparire. L’ultima, la nostra, la civiltà occidentale, non farà certo eccezione; e la decadenza si avrà quando si cercheranno di mantenere in vita modelli culturali già morti (Spengler additava come esempio proprio il diritto romano domandandosi se aveva senso comune che il diritto privato moderno continuasse ad assumere dentro di sé un diritto di duemila anni prima, per di più nel suo rifacimento bizantino).

Ognuno può pensare quel che vuole di questa suggestiva teoria. Ma l’interrogativo comincia ad essere sempre più diffuso e frequente: noi occidentali ci siamo progressivamente indeboliti? Se si pensa di si, occorrerebbe andar oltre (ma non lo si fa) domandandosi perché. A queste domande si accompagna una paura misteriosa: perché sappiamo che ad Oriente vi è una potenza globale in crescita inarrestabile. Abbiamo anche la sensazione che questa crescita sia possibile perché loro sono organizzati molto diversamente da noi. Ma allora perché non darci una nuova organizzazione in grado di stare al passo? Rispondere evocando l’Europa è come riconoscere di non avere idee nuove. E tutto questo non è veramente occidentale, ma decadente.

Quelle coordinate spazio-temporali, che la scuola ha da tempo dismesso per abbracciare programmi spesso insulsi, restano fondanti e ci orientano in questo mondo in movimento. Diremmo così che i popoli non sono tutti eguali; e che la storia è storicità, un divenire continuo, un moto perpetuo. Proprio questo fluire infinito è l’unica, vera, lezione della storia.

La sensazione è che si sia smarrita la percezione che tutto cambia. Ecco che siamo protesi a difendere comunque lo status quo e a custodire, cristallizzandolo o, peggio, mummificandolo, l’esistente. Nonostante questa nostra velleità, la storia andrà inesorabilmente avanti lo stesso. Per sperare di incidere, perché il divenire assuma la direzione più favorevole per noi (e per noi occidentali in particolare), allora non dovremmo temere i cambiamenti; e, anzi, dovremmo concorrere a determinarli, e a governarli, quando scocca l’ora. L’inventio come unica risorsa salvifica.

L’impressione è che l’ora sia scoccata o stia per scoccare nell’orologio della storia. Adesso è, finalmente, il tempo del confronto anche agonistico. O dovrebbe esserlo. È un invito e un auspicio che il Direttore de La Fionda ha più volte lanciato. Se vogliamo guardare alla storia – e alla storia della teoria politica – potremmo riflettere su quel passaggio machiavelliano di cui ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: a una repubblica, a una repubblica che voglia avanzare, saranno molto utili i tumulti come avvenne a Roma per un paio di secoli quando i plebei tumultuarono contro i patrizi. Fu merito della repubblica patrizia di aver saputo accettare e includere nella titolarità del potere supremo i plebei tumultuosi. Ne nacquero nuovi, più giusti, equilibri sociali. Così la repubblica fu salvata, l’ordine ricostituito, e Roma andò alla conquista del mondo.

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