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Franco Citti, un ragazzo di vita


15 Gen , 2021|
| 2021 | Recensioni

C’è un libro, ormai quasi introvabile, che descrive meglio di tanti altri le atmosfere e i personaggi di una Roma popolare che oggi non esiste più. Si chiama “Vita di un ragazzo di vita“, è del 1992 e l’autore è l’indimenticabile Franco Citti, noto al grande pubblico come “Accattone”. Pensieri, ricordi d’infanzia e di gioventù, ma anche di una vita adulta alquanto movimentata, di un ragazzo nato e cresciuto a Torpignattara nel 1935, diventato famoso grazie al casuale incontro con l’intellettuale italiano più grande del secondo Novecento (Pier Paolo Pasolini, che è stato, come sappiamo, insieme poeta, narratore, cineasta e saggista). Un ragazzo di vita, Franco Citti, che ha conosciuto la fame, le botte, il riformatorio minorile, il duro lavoro di imbianchino nei cantieri, ma che, ad un certo momento della sua esistenza, grazie a quel fortunato incontro, diventa un attore famoso (fin dal suo primo film, il celebre Accattone): guadagna a questo punto molti soldi (e altrettanti ne sperpera) e conosce molte donne che lo amano prima per abbandonarlo poi. L’epilogo della sua vita è però amaro: dimenticato dal grande pubblico, la morte lo raggiunge a Fiumicino nel 2016 e lo trova in una condizione di acuta marginalità e ristrettezza economica.

Negli anni del suo successo Franco Citti non ha mai dimenticato le sue origini umilissime e il suo quartiere, Torpignattara, che non ha mai smesso di amare. E chi ha avuto la fortuna di leggere il libro oggetto di questa recensione può testimoniarlo: sono molti i passi nei quali Torpignattara viene ricordata. Questo è il primo: “Torpignattara era allora quello che era, con le scuole occupate prima dai tedeschi e poi dagli americani… e poi c’erano altre “scuole” che si chiamavano via della Marranella – dove abitava con la famiglia – la chiesa di San Marcellino, le mura dell’acquedotto verso la Tuscolana”.

In questo modo viene poi ricordato l’incontro con Pier Paolo Pasolini: “La prima volta che l’ho visto, stava fermo con la bicicletta davanti al bar, al semaforo grosso di via Torpignattara. Parlava tutto serio con mio fratello Sergio. A me, sinceramente, di conoscerlo, non mi fregava proprio niente. Scendevo tutto sporco dal tranvetto azzurro della Casilina dopo una giornata sul cantiere. E mi rodeva un po’ il culo perché avevo viaggiato di fuori, attaccato al predellino. In quegli anni gli operai, in tuta, sporchi di calce o di vernice, in mezzo alla gente non ce li facevano stare: l’unica consolazione rimaneva quella che, per lo meno, non pagavi il biglietto”. Nel brano non si specifica l’anno, ma sappiamo che si tratta del 1952, perché disponiamo, sullo stesso episodio, di una testimonianza di Pasolini, contenuta in una pagina del suo diario del 3 maggio 1962: “Un giorno Sergio, mentre camminavano, lì, al semaforo della Casilina, mi presentò suo fratello Franco che era un ragazzetto di diciassette anni. Ancora cucciolo, timidissimo, con gli occhi d’angoscia della timidezza e della cattiveria che deriva dalla timidezza, sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima indecisione: il senso quasi di non esistere che egli cova dentro di sé”.

Poi c’è l’incontro con il mare: “Ostia per me è il sogno interrotto da uno spavento, una separazione da non so cosa, che mi è rimasta dentro tutta la vita. … Solo l’idea di andare al mare mi pareva un grosso gioco, un salto enorme nelle pieghe della fantasia, un qualcosa che mi avrebbe fatto sembrare diverso agli occhi degli altri pischelletti di Torpignattara, della Borgata Gordiani e di Pietralata, abituati come me a sguazzare nella merda degli acquitrini, nel fango”. Ed ecco come il pischello di Torpignattara racconta la sua prima esperienza amorosa: “Chi era Anna? … Una mignotta del Mandrione. … Ero entrato nella sua casupola- chi non ha conosciuto il Mandrione non sa di cosa si tratti – una stanza in muratura con una tenda sull’ingresso (la via, a quell’epoca era tutta così, una porta dietro l’altra, a destra e a sinistra, dopo aver imboccato l’arco della Tuscolana), una luce dentro, quattro mobili ammucchiati e tenuti in piedi non si sa come, e un letto sempre sbracato con sopra delle coperte di colore assurdo, come quelle dei militari. … Per me era proprio bella. E compresi subito che ero uno scemo che non conosceva proprio le donne. Le saltai addosso come una bestia”.

Particolarmente interessante è il modo in cui Citti descrive il suo primo giorno da attore protagonista in Accattone. Il riferimento è l’inizio della prima scena girata davanti al “baretto” di via Fanfulla da Lodi, quartiere Pigneto: “Al primo ciak io mi cacavo sotto. Ma come al solito non volevo darlo a vedere e assumevo strani atteggiamenti per non farlo capire. Il grugno da coatto sbandierato al vento, le gambe che mi tremavano come quelle di un capretto. Pier Paolo andava avanti e indietro con la macchina da presa in mano. Mi girava intorno come una vespa saltellante e a me pareva una specie di Gesù Cristo”.

Ma i brani che meritano di essere citati sono innumerevoli. Fermiamoci però qui. Ci penseranno i nuovi lettori ad andare avanti. I quali sicuramente non resteranno delusi: questo libro di memorie di Franco Citti si legge tutto d’un fiato, anche perché è scritto con uno stile vivace grazie all’uso ricorrente di termini propri della Roma “borgatara” degli anni cinquanta del secolo scorso. Se lo sfondo è quello di un quartiere e di una città ormai scomparsi, al centro c’è l’omaggio discreto e spoglio di retorica ad un uomo che Citti non ha mai smesso di considerare un amico e un benefattore: Pier Paolo Pasolini.

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