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La bufala del commercialista rider, come muore l’informazione sulla gig economy


18 Gen , 2021|
| 2021 | Visioni

Sta facendo molto discutere un articolo pubblicato da La Stampa, firmato da Antonella Boralevi, in cui viene raccontata la storia di un 35enne, tale Emiliano Zappalà, che si è reinventato come rider quando il coronavirus lo ha costretto a chiudere il suo studio da commercialista. Secondo l’articolo, il protagonista della storia pedalerebbe con la sua bicicletta per 100 km al giorno consegnando per Deliveroo e guadagnerebbe dai 2000 ai 4000 euro netti. L’articolo conclude dicendo che sta risparmiando per comprare casa e con la domanda retorica “È un fatto. O no?”.

No, non è un fatto. Anzi, è tutto falso.  La storia proviene da un articolo della versione cartacea del Messaggero pubblicata il 15 gennaio e anch’esso contiene delle informazioni completamente errate, persino fra le virgolette. La fonte della smentita? Il diretto interessato che ha risposto a la Fionda, il cui nome corretto è Emanuele Zappalà, ha 37 anni e non è un commercialista, ha studiato per diventarlo, ha svolto un tirocinio, ma non ha mai esercitato la professione, quindi non ha mai aperto il suo studio e non ha mai dovuto chiuderlo a causa del covid. Inoltre lavora come rider da circa un anno e mezzo, non dal lockdown.

L’intervista, firmata da Francesco Bisozzi, risale ad ottobre, e Zappalà è stato ricontattato pochi giorni fa, prima che uscisse, per confermare le informazioni. La conferma non sembra essere servita, dato il titolo “Ho dovuto chiudere il mio nuovo studio, ora porto le pizze”. I 100 km che secondo Borelavi percorre tutti i giorni in bici sono ovviamente percorsi in moto per le strade di Roma, perché Emanuele è un bravo rider, ma non un campione di ciclismo. I guadagni, secondo i due articoli, sono netti, ma anche questo è falso: sono lordi. Zappalà lavora molte ore ogni giorno e ha avuto mesi molto positivi, ma mediamente il suo guadagno netto è di circa 1600 euro al mese, togliendo anche le spese per la benzina. Una cifra dignitosa che gli consente di affrontare i suoi progetti di vita, ma non uno stipendio da manager, come descritto dagli articoli. Il suo è un contratto da libero professionista, in cui si accolla tutti gli oneri del lavoro e non gli mancano le preoccupazioni dovute ai possibili giorni di malattia, ma è tutto sommato felice e soddisfatto di come procede la sua vita di rider. È iscritto ad Ugl ed è uno dei firmatari del nuovo contratto collettivo in vigore da novembre 2020.

“Ieri ho fatto 122,94 euro, 22 ordini, di cui due doppi”, ci ha detto Zappalà. La sua è una testimonianza positiva, su cui però non va costruita la visione del lavoro dei rider, che è molto più complesso e differenziata, sia per zona geografica, sia per tipo di contratto, di mezzo a disposizione, di documenti in possesso. Per questo, pubblicare una notizia falsa, che già di per sé è una grave mancanza per il giornalista, può diventare pericoloso.

Certo, reinventarsi è diventato un obbligo del nostro tempo e sono  in tanti a buttarsi nel food delivery, specialmente nell’anno passato, in cui sembra si sia arrivati a 30.000 rider in tutta Italia. Lo aveva fatto anche Adriano Urso, jazzista romano che non poteva più suonare per i locali chiusi. Lui è stato meno fortunato ed è stato colto da un infarto mentre spingeva la sua auto in panne mentre faceva una consegna.  Una storia tragica che meriterebbe rispetto e non di essere oscurata dalla cattiva informazione.

I rider non sono tutti Zappalà, i rider non sono tutti Urso, i rider sono giovani, studenti, meno giovani, precari, padri di famiglia, italiani, stranieri in cerca di un rinnovo del permesso di soggiorno. Sono la prima linea della gig economy perché sono quelli che vediamo nelle strade e che ci portano la cena, in tempo d’epidemia o di normalità. Una corretta informazione sul loro lavoro, scevra da sentimentalismi e da bufale, è indispensabile per capire come cambia il mondo del lavoro che tutti noi dobbiamo affrontare.

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