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L’ultimo cinguettio di Donald. Twitter, Trump e le oche del campidoglio
Dopo che il re ebbe così parlato, i Galli con entusiasmo si sottoposero alla prova. A mezzanotte molti, arrampicandosi in gruppo sulla roccia, salivano in alto silenziosamente aggrappandosi a massi scoscesi e difficili a superare, ma che pure erano anche più accessibili e cedevoli ai loro sforzi di quanto avessero immaginato, al punto che ai primi, arrivati in cima e indossate le armi, non rimaneva ormai che raggiungere gli avamposti e assalire le sentinelle immerse nel sonno: né un uomo né un cane li aveva uditi. Ma c’erano intorno al tempio di Giunone le oche sacre… PLUTARCO
Ripensando agli sciamani cornuti e alla presa di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, confesso di essere stato tentato di liquidare l’episodio all’insegna della massima di Marx secondo cui la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.
Marx pensava, rispettivamente, al 18 brumaio di Napoleone Bonaparte e al colpetto di Stato del nipote Luigi (quello che i libri di scuola chiamano Napoleone III, e che Victor Hugo soprannominò Napoleone il piccolo). Oggi abbiamo di fronte, invece, una presa del Campidoglio in cui un novello Brenno (ben più tracotante dell’originale, che pure non scherzava), non pago di aver già saccheggiato Roma, invia i suoi fedelissimi a violare il colle consacrato a Giove, e dunque il simbolo per eccellenza del potere.
In entrambi i casi, i barbari sono penetrati senza trovare resistenze. Ma se nel 390 avanti Cristo furono le oche sacre di Giunone a dare l’allarme e a provocare la fiera e vittoriosa reazione degli assediati, nel 2021 le oche sono rimaste mute, e la variopinta orda degli adoratori di teorie cospirative — non rileva se fossero palestrati epigoni di Rambo in mimetica oppure pingui allevatori del Midwest con stivali di gomma e cappellino da baseball — hanno bivaccato nella sede del Congresso, portandosi via qualche souvenir (o facendosi almeno un selfie) e lasciandosi dietro una scena di devastazione degna di un rave party: finestre rotte, quadri tagliati, pareti imbrattate, infissi divelti, tappeti usati come scarico per le deiezioni dei rivoltosi.
Una farsa, dunque? No. Tutt’altro. Cinque persone hanno perso la vita durante l’assalto, e numerosi sono stati i feriti, da una parte e dall’altra. Alcuni assalitori sono stati arrestati. E se i danni materiali sono stati consistenti, la ferita che si è aperta nell’immaginario collettivo statunitense è stata ben più profonda.
È difficile comprendere fino in fondo le conseguenze che la presa del Campidoglio comporterà. Al momento, una delle questioni più dibattute e controverse è la “censura social” di Donald Trump. Accusato di aver alimentato le tensioni successive alla vittoria di Biden (a suo avviso: una truffa elettorale) e di aver apertamente appoggiato la presa del Campidoglio, il presidente uscente ha visto inibiti, uno dopo l’altro, i propri accessi a Twitter, Facebook, YouTube, Instagram, Snapchat, TikTok, Twitch, Discord e Reddit. Pochi giorni dopo, Amazon ha inoltre sospeso le attività della piattaforma Parler, largamente usata dai sostenitori di Trump (anche nostrani, pare).
Pur potendo ancora contare su un vasto assortimento di media tradizionali (giornali, televisioni, radio), Trump è stato disarmato sul piano della comunicazione politica digitale. E non è cosa da poco, se si pensa che lo strumento che Trump ha adoperato con maggior continuità durante gli anni della sua presidenza è Twitter. Dal momento della sua candidatura nel giugno del 2015 alla presa di Capitol Hill del gennaio 2021, Trump ha “cinguettato” più di 34000 volte. E lo ha fatto a un numero di “seguaci” che ha oscillato negli ultimi anni intorno ai 100 milioni di follower.
Mi sembra particolarmente importante ricordare che, a partire dal 6 giugno 2017, l’account personale @realDonaldTrump (e non l’istituzionale @POTUS) è stato riconosciuto dall’amministrazione Trump come strumento di comunicazione delle dichiarazioni ufficiali del presidente USA, che trionfalmente pochi giorni dopo twittava: «My use of social media is not Presidential – it’s MODERN DAY PRESIDENTIAL. Make America Great Again!».
Veniva così inaugurata una sovrapposizione (e confusione) tra dimensione privata e funzione pubblica che, peraltro, si inseriva perfettamente nell’attitudine personalistica di gestione degli affari (di Stato e non solo) del tycoon, assai poco propenso a contare fino a 10 prima di aprire bocca (o di digitare 280 caratteri), e ben felice di scavalcare in modo sistematico il filtro tradizionalmente operato dall’ufficio stampa della Casa Bianca.
Sin dai primi mesi del suo mandato, Trump ha usato Twitter con estrema disinvoltura, diffondendo notizie palesemente false o controverse, facendo riferimento a fantasiose teorie della cospirazione, postando commenti razzisti, e dunque in molti casi contravvenendo alle regole stabilite dal social media, che — in estrema sintesi — tutelano la “public conversation”. Si tratta di un apparato di regole che proibisce agli utenti di fare uso di minacce o istigare alla violenza, promuovere movimenti terroristici o fanatici, incoraggiare lo sfruttamento sessuale dei minori, favorire pratiche di hate speech contro minoranze di ogni genere, incitare al suicidio. Ma, oltre a questo, la policy di Twitter impone di non fare ricorso a strategie di spamming, di manipolazione informativa, di interferenza politica durante processi elettorali.
Ma se queste sono le regole, perché nulla è stato fatto fino al gennaio del 2021? La risposta si trova sempre nelle General guidelines and policies di Twitter, in cui è chiarito che la violazione delle regole non comporta la sospensione dell’account o la rimozione di un post qualora sia riscontrato un “interesse pubblico”. Più precisamente, Twitter considera un contenuto di pubblico interesse «if it directly contributes to understanding or discussion of a matter of public concern», e sottolinea che sostanzialmente questi casi sono riconducibili a un’unica tipologia critica: i «Tweets from elected and government officials». In tale evenienza, il tweet non viene dunque rimosso, ma un avviso segnala la violazione delle regole e limita la possibilità di inoltrarlo, condividerlo, inserire “like” e così via.
Questa previsione spiega dunque perché l’account di Trump non sia stato limitato o sospeso fino alla presa del Campidoglio. Ma non spiega perché — essendo ancora Trump il presidente in carica — l’eccezione del pubblico interesse non abbia più dato copertura ai suoi tweet.
Anche in questo caso, a ben vedere, dal punto di vista normativo la risposta è chiara. Secondo la policy di Twitter, l’eccezione del pubblico interesse non è assoluta, ma cede di fronte a una serie di casi. Tra questi si trovano l’incitamento alla violenza, la promozione di atti terroristici, l’attentato all’integrità di un processo elettorale («You may not use Twitter’s services for the purpose of manipulating or interfering in elections. This includes posting or sharing content that may suppress voter turnout or mislead people about when, where, or how to vote»).
Se la decisione di Twitter è arrivata a seguito di un atto clamoroso, occorre tuttavia ricordare che nel corso del 2020 si era assistito a un progressivo inasprimento del rapporto tra Trump e il social media, che in più di un’occasione aveva segnalato cinguettii presidenziali che diffondevano notizie prive di fondamento sulla pandemia da COVID-19, o che suggerivano l’idea che le elezioni presidenziali sarebbero state oggetto di frode.
In particolare, il 26 maggio 2020 Trump aveva postato un tweet in cui esprimeva gravi perplessità sul voto per corrispondenza, in risposta al quale Twitter aveva inserito una notice («Ecco i fatti sul voto per corrispondenza») che rinviava ad articoli di autorevoli quotidiani in cui si smentivano seccamente tali illazioni.
La rottura si è consumata però soltanto l’8 gennaio 2021, con la “messa al bando” dell’account di Trump. Secondo Twitter, il presidente ha infatti usato il social media per incitare all’assalto del Congresso, al fine di impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden.
Per impedire il possibile aggiramento del bando, Twitter ha successivamente sospeso a tempo indeterminato, oltre all’account @realDonaldTrump, anche l’account ufficiale della sua campagna elettorale (@TeamTrump), nonché quello del digital director della sua campagna, Gary Coby. Di fronte al tentativo di usare l’account presidenziale ufficiale (@POTUS), Twitter ha immediatamente rimosso tre tweet di Trump.
Le reazioni a queste decisioni senza precedenti hanno diviso la platea dei commentatori in almeno quattro gruppi: da una parte chi giustifica la sospensione degli account, in quanto le esternazioni del presidente hanno innescato una serie di azioni violente poi sfociate nell’assalto al Campidoglio; dall’altra chi, pur esprimendo biasimo in maniera più o meno decisa a proposito degli accadimenti, sostiene che i social media svolgono una funzione comunicativa che non può obbedire a logiche unicamente privatistiche: la libertà di espressione — questo l’argomento fondamentale — non può essere gestita discrezionalmente da attori privati; ancora, non è mancato chi ha liquidato la vicenda dicendo che Twitter e gli altri social sono aziende private, libere di decidere la sospensione dei propri servizi qualora riscontrino una violazione delle condizioni d’uso che ogni utente si impegna a rispettare; infine, molti contestano apertamente la legittimità della decisione di Twitter e delle altre compagnie che hanno sospeso gli account presidenziali, con una scelta bollata come liberticida (in questa direzione si inseriscono le dichiarazioni di diversi governi europei, come quella del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki a proposito della necessità di una «legge per la protezione della libertà di parola su Internet»).
Non ho qui la possibilità di affrontare in maniera neppure minimamente approfondita il delicatissimo tema del ruolo giocato dai social media nel confronto politico contemporaneo, con le sue implicazioni sul diritto di manifestazione del pensiero e su altri diritti fondamentali.
Mi sembra però interessante segnalare che il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ha commentato la decisione di Twitter affermando che misure di tal genere hanno una carica fortemente divisiva, e nel caso di Trump hanno creato un precedente pericoloso, in riferimento al quale — ha scritto Dorsey — «I do not celebrate or feel pride». Dorsey ha rivendicato che la decisione di Twitter era l’unica strada per fronteggiare circostanze straordinarie che minacciavano la sicurezza pubblica. Tuttavia, se «offline harm as a result of online speech is demonstrably real», la sospensione dell’account del presidente è un «fallimento da parte nostra nel promuovere una sana conversazione». La questione è: se è stata la scelta giusta, come dice Dorsey pur con grande cautela, in che senso è stata “giusta”? sul piano morale? sul piano giuridico? sul piano politico? o sul piano economico?
Il caso della sospensione degli account social di Trump, per quanto senza precedenti nella sua gravità, si inserisce tuttavia in una ormai lunga serie di casi in cui i social hanno reclamato il potere di esercitare funzioni di rilevanza che definirei para-giurisdizionale. Del resto, se si leggono i termini d’uso dei servizi da loro offerti, si avrà una conferma di questa pretesa leggendo i frequenti passaggi dedicati al “bilanciamento” tra diritti e interessi pubblici.
Twitter, per esempio, affronta la questione affermando che
«we weigh the potential risk and severity of harm against the public-interest value of the Tweet. Where the risk of harm is higher and/or more severe, we are less likely to make an exception. […]. We recognize the desire for these decisions to be clearcut yes/no binaries. Unfortunately, the reality is that they can’t be. […]. As with all our policies, we continue to respect local laws and balance other principles, including freedom of expression, when enforcing our rules».
Si tratta, lo ripeto, di una presa di posizione sempre più comune tra i social media. Del resto, basta ricordare la vicenda “Google Spain”, che si è conclusa nel 2014 con una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che molti salutarono come una “vittoria” contro Google, ma che si rivelò presto foriera di esiti di tutt’altro segno. Se oggi, rivendicando il cosiddetto diritto all’oblio, volete chiedere la rimozione di un certo risultato dal motore di ricerca più usato al mondo, vi troverete a compilare un form online, che verrà vagliato dall’azienda di Mountain View sulla base di alcuni principî che si è data per effettuare un “bilanciamento” tra il diritto all’identità personale e alla riservatezza, da una parte, e il diritto alla libera espressione del pensiero e alla libertà di informazione, dall’altra.
In parole povere, stiamo assistendo da qualche anno a un salto di qualità nella gestione dei servizi via internet (non soltanto social). A lungo i provider hanno cercato di stare alla larga dal diritto (e dai processi). Si sono schermati con successo da qualsiasi conseguenza giuridica per le azioni dei propri utenti, invocando l’impossibilità tecnica di controllare i contenuti pubblicati sugli spazi web da loro gestiti (come in Caraccioli vs. Facebook Inc., o Pennie vs. Twitter; e in Italia pensiamo al favor assicurato dal Dlgs. 70/2003). Ma oggi il loro ruolo sembra piuttosto quello di un organo giudiziario di prima — e quasi sempre anche ultima — istanza.
Questa dimensione para-giurisdizionale dei big players del mondo digitale è connotata da continui riferimenti ad apparati normativi: clausole contrattuali, condizioni e termini d’uso, ma anche leggi e regolamenti, fino ad arrivare a principî costituzionali. E qui si apre la questione fondamentale: chi sono questi soggetti che interpretano e applicano il diritto?
In queste procedure salta il principio nemo judex in causa sua. Il giudice non è né terzo né imparziale, non vi è un reale contraddittorio, i tradizionali soggetti pubblici sono pretermessi o ridotti a comparse di un “secondo grado” di giudizio reso del tutto ipotetico dai costi e dai tempi della giustizia ordinaria.
I provider, assurti al ruolo di organi giudiziari, pronunciano sentenze: ed è del tutto ovvio che tali decisioni vengano prese in funzione degli interessi economici delle big data companies e non certo per tutelare i diritti individuali. Se qualcuno si aspetta “giustizia”, con quali aspettative può cercarla in decisioni prese da aziende private, animate dal fine del profitto e non dall’interesse pubblico?
Dall’ultimo dei provider al primo dei social network, questi attori sono società commerciali con scopi di lucro: lucro che passa oggi necessariamente dal controllo di dati e informazioni. Ogni dato, anche quello apparentemente più insignificante, ha un valore economico. Ogni informazione, anche quella più tossica, ha un valore economico. Ma dati e informazioni stanno mostrando con sempre maggiore evidenza di avere un valore politico oltre che economico.
La storia della “libertà della rete” si rivela adesso per quello che veramente è: una favola. La rete non è affatto libera e neppure neutrale. O meglio: la sua libertà e la sua neutralità sono obiettivi politici da conseguire, ma non sono certo qualità intrinseche del web. La possibilità di interazione tra individui senza vincoli di collocazione geografica è stata interpretata come l’avvio di un inarrestabile processo di democratizzazione. Ma quanto fosse ingenua questa visione è stato dimostrato dalla storia recente della rete: dall’originaria idea di network “distribuito”, essa è diventata “decentralizzata” e “policentrica”. In altre parole, l’evoluzione della rete ha comportato nuove forme di concentrazione del potere, risultando sempre più dominata da oligopoli privati.
Internet e WWW non sono sinonimo di libertà. La rete non è uno spazio anarchico, ma è un territorio che richiede governo. Il caso della sospensione degli account social di Donald Trump chiarisce una volta di più quali sono le questioni aperte: chi governa la rete? chi fissa le regole? chi decide?
La risposta, ad oggi, è che a decidere sono le big companies. Non è vero che mancano le regole: le regole ci sono, il problema è che c’è un oligopolio tecnologico che pretende il monopolio normativo in causa propria. E in questa chiave c’è da aspettarsi una comune levata di scudi con l’obiettivo di rinforzare la già diffusa strategia della self-regulation ed evitare così possibili intromissioni da parte dei legislatori nazionali o sovranazionali. Ma questa modalità di autodisciplina può essere considerata soddisfacente, quando in ballo c’è il Commander-in-Chief dell’esercito più potente della terra?
A seguito della sospensione dell’account di Trump, i titoli di Twitter hanno perso il 10.7% a Wall Street. Si tratta di una perdita enorme, che potrebbe far pensare (qualora sia stata preventivata) che la decisione di Twitter abbia obbedito a ragioni non economiche. Occorre invece tener presente che con i suoi cinguettii il presidente avrebbe potuto creare danni ancora più ingenti. Del resto, nel 2017 un solo post in cui Trump criticava Amazon («Amazon is doing great damage to tax paying retailers. Towns, cities and states throughout the U.S. are being hurt – many jobs being lost! ») aveva comportato una perdita in borsa per il colosso di Bezos di circa 6 miliardi di dollari.
Esattamente un anno prima del ban contro Trump, un’azione di Twitter veniva scambiata per 33 dollari. Oggi, nonostante il calo appena ricordato, vale più di 45 dollari. Nel silenzio delle oche del Campidoglio e senza i cinguettii di Donald, risuona più forte il ticchettio dei tasti delle calcolatrici.
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