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I 100 anni del PCI per la generazione che non l’ha mai conosciuto


21 Gen , 2021|
| 2021 | Visioni

Gramsci, Togliatti, Bordiga, Longo, Natta, Iotti, Berlinguer.
Veltroni, D’Alema, Bersani, Fassino, Renzi, Bindi, Zingaretti.
Uno legge questi nomi a confronto e si chiede: “ma perché?”
Che cos’hanno questi personaggi in comune? La risposta è: “esattamente nulla”.
I primi, con la loro storia, le loro differenze, le loro linee politiche anche talvolta controverse, erano dirigenti del Partito Comunista Italiano (o del Partito Comunista d’Italia, nome col quale il PCI nasce).
I secondi erano, o sono, dirigenti e politici che hanno rappresentato, o rappresentano, quella che oggi viene considerata la “sinistra” in Italia.
Ma se non hanno nulla in comune, perché metterli a confronto? Che motivo c’è? Poi proprio oggi che è il 100° compleanno del PCI?

Lo scopo di questo articolo non è celebrativo, non è fare una disamina della storia del PCI, non è nemmeno criticare o elevare quello o quell’altro Segretario o quella o quell’altra corrente, ma piuttosto vuole stimolare una riflessione tenendo conto del passato e al contempo rimanendo ben saldo e ancorato al presente per proiettarsi al meglio nel futuro.

Chi scrive è nato nel 1991, dopo la Bolognina, dopo la dissoluzione ufficiale a Rimini del 3 febbraio. Fa parte, dunque, di una generazione ormai ampia che non ha mai veramente conosciuto il Partito Comunista, non ha mai conosciuto le feste del Partito o le scuole del Partito, ma ha sempre vissuto una politica completamente diversa e soprattutto ha sempre avuto una visione del mondo completamente diversa, quasi univoca, senza grandi alternative.
Proprio questa è la grande differenza tra le generazioni che hanno vissuto l’epoca del PCI e quelle che non l’hanno vissuta. I giovani di oggi sono i figli del “There is no alternative” di thatcheriana memoria. Sono i figli della vittoria del capitalismo su qualsiasi altro modello economico, sono figli delle privatizzazioni giustificate con la libertà e con la promessa che tutti possono diventare imprenditori, sono i figli della de-statalizzazione, dei dipendenti pubblici come appellativo dispregiativo. Figli di tutto questo senza alcuna (o quasi, almeno nel dibattito pubblico) voce contraria, ma anzi, giustificato da stampa, televisioni, media, pensiero accademico e intellettuale.

Se uno ci ragiona attentamente non fatica a capire il perché allora i giovani, oggi, siano considerati perlopiù nichilisti e disinteressati alla politica. Sono, siamo, stati abituati a pensare che “tanto non cambia niente”, che non c’è modo, che è così per forza di cose, come se ci fosse una divinità della storia e della politica che impone di fare determinate scelte, senza alcun libero arbitrio. Perché la vita è così.

Per noi (e con noi faccio consapevolmente una generalizzazione, che tra l’altro non comprende chi scrive) Veltroni, D’Alema, Bersani, Fassino, Renzi, Bindi, Zingaretti non hanno mai rappresentato la speranza di un cambiamento del paradigma di mondo, ma tutt’al più la speranza di un piccolo miglioramento dello status quo.

Al contrario, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Longo, Natta, Iotti, Berlinguer hanno rappresentato per milioni di persone, non solo giovani, la speranza di un mondo diverso. Completamente diverso! Un mondo dove uguaglianza e libertà coincidono. Cosa che, se oggi provi anche solo a pensare, vieni preso per pazzo, se non per terrorista.

Con il crollo dell’Unione Sovietica e con la conseguente sparizione del Partito Comunista Italiano, si è chiusa una fase in Italia (ma, ovviamente, non solo), quella nella quale due ideologie, due idee di mondo, appunto, si sono scontrate per l’egemonia, sia politica che culturale. Era questo che portava le persone a partecipare alla vita del paese, a lottare in tutti gli ambiti, dalla scuola al lavoro e addirittura alla famiglia per far prevalere la propria parte.
Sono passati 30 anni dalla vittoria del capitalismo. E bisogna chiarirlo questo: non è vero che le ideologie sono morte, ma banalmente una ha prevalso ed è riuscita a cancellare l’altra culturalmente prima ancora che politicamente. È riuscita a farlo elevandosi a Dio, facendosi entità al di sopra di tutto, l’unica capace di determinare la vita delle persone. È riuscita, appunto, a farci cadere nella trappola del determinismo, trappola pericolosissima per chi ha sensibilità morali, e pure materiali, differenti.

Inutile negarlo o nasconderlo, c’è un’intera generazione di giovani che è nata in un mondo monistico e che non può in alcun modo esserne soddisfatta, perché questo non fa altro che umiliarli. Sia distruggendo l’istruzione, sia sfruttandoli nel lavoro, sia lasciandoli nel limbo della disoccupazione. Una generazione veramente senza futuro, ma anche una generazione che non riesce a immaginarsi un altro modo di vivere che non sia quello all’interno del sistema capitalista e, in particolare, della sua corrente neoliberista. E che non ha alcun possibile riferimento nel quadro politico attuale, completamente schiacciato su posizioni che tutelano lo status quo con veramente pochissime e insignificanti differenze tra i partiti esistenti.

È partendo da questa consapevolezza che i giovani, prima di tutti, devono disancorarsi dall’esistente e iniziare a costruire le fondamenta di un pensiero che possa competere per l’egemonia con il neoliberismo e che riesca a innescare un cambiamento vero e reale con il quale riaccendere la luce della speranza di un mondo migliore e diverso. Esattamente come ha fatto il Partito Comunista Italiano nei suoi 70 anni di storia, iniziata quella mattina di venerdì 21 gennaio 1921 al Teatro San Marco di Livorno.

Non solo per rendergli il giusto omaggio – esercizio nobile, ma poco concreto – quanto per la pragmatica necessità di dare una svolta alla storia che altrimenti è destinata a portare più di una generazione alla catastrofe.

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