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I comunisti italiani e la democrazia
Le diverse iniziative di intellettuali e dirigenti politici, l’attenzione della stampa e le numerose pubblicazioni di memorie e ricerche apparse in occasione del centenario della scissione di Livorno sono il segno di quanto la vicenda del Partito comunista italiano susciti ancora oggi grande interesse, anche tra chi non appartiene a quella tradizione o se ne è distanziato assecondando il processo di trasformazione che ha condotto alla nascita del Partito Democratico.
Le ragioni immediatamente evidenti di questa attenzione derivano dal ruolo svolto dai comunisti nei momenti cruciali della storia del Novecento, come la lotta al fascismo, il contributo dato alla Costituente, le lotte dei lavoratori, le battaglie per la terra nel Mezzogiorno, fino alle più problematiche fasi del compromesso storico e dei governi di unità nazionale. Il Pci è stato inoltre una grande scuola politica per diverse generazioni di militanti. Si è misurato con gli intellettuali della propria epoca. Ha promosso la nascita di giornali, riviste, dibattiti. E in definitiva, pur tra tante difficoltà e contraddizioni, ha saputo coinvolgere le classi popolari e subalterne nella vita politica del paese coniugando, nel quadro dell’umanesimo gramsciano, difesa della democrazia e progresso sociale, fedeltà costituzionale e contrasto all’economia di mercato.
Il Pci è stato insomma un grande protagonista della politica italiana. Non certo l’unico, ma di tutti i partiti della prima Repubblica è il solo su cui ancora oggi resiste una discussione, e persino una contesa, anche al di fuori della cerchia degli specialisti e degli ex militanti. Né la Democrazia cristiana, né il Partito socialista italiano, che pure hanno avuto un ruolo decisivo nella modernizzazione del paese dal dopoguerra ad oggi, godono di questo privilegio. Non almeno per quantità, se si tiene conto della fiorente pubblicistica, degli articoli giornalistici, delle trasmissioni televisive che ruotano intorno al Pci per celebrarlo e non di rado per esorcizzarlo, tenerlo a distanza e in qualche caso pure respingerlo dalla storia nobile del secolo scorso. Oltre a un interesse sentimentale e politico di chi ha fatto parte di quella tradizione o l’ha assunta a oggetto di indagine scientifica, il Pci sopravvive anche come oggetto di polemica, di argomento di conflitto e, a dimostrazione della longevità dell’anticomunismo, persino come insulto.
La permanenza di questi diversi atteggiamenti ci pare sia il sintomo di una mancata storicizzazione e forse anzi dell’impossibilità della sua piena storicizzazione, soprattutto nel contesto attuale, nonostante le tante celebrazioni di questi giorni. Questo è senz’altro dovuto al fatto che a trent’anni dallo scioglimento le diverse sperimentazioni attuate dai suoi eredi più diretti, che troppo frettolosamente hanno tentato di sbarazzarsi del suo lascito, hanno avuto esiti catastrofici per la sinistra e per il paese. La promessa di un fronte progressista moderno e all’altezza dei tempi, lanciata ripetutamente a partire dal congresso di Rimini nel ’91, si è risolta nello smantellamento della forma partito, nella sostituzione delle sezioni con i gazebo e dei congressi con le primarie, e nell’affermazione di un personale politico sedotto dal neoliberalismo e da un europeismo privo di contenuti ma solertissimo, specie quando occorre accogliere le direttive di Bruxelles. Non si può poi trascurare la lunga serie di misure e provvedimenti, presi negli anni di governo a partire dal 1996, che hanno favorito la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento dell’apparato industriale nazionale, le riforme istituzionali (tra cui le modifiche del titolo V), la perdita di credibilità nello scacchiere geopolitico e l’adesione, sostanzialmente passiva, al vincolo esterno europeo.
Qualsiasi confronto con il passato lascia poco scampo alle attuali miserie. E tuttavia è difficile parlare di rimpianto, se non limitato a piccoli gruppi. La composizione sociale della sinistra, le sue aspirazioni, il suo rapporto con la storia sono profondamente mutati. Non ci pare per questo appropriato l’uso della massima gramsciana secondo cui il vecchio muore, cioè la tradizione comunista, e il nuovo non riesce a nascere. La nuova sinistra, oggi rappresentata soprattutto dal PD e dalla sua appendice LeU, è nata, ha la sua politica e le sue prospettive, sebbene mai del tutto esplicitate e realmente ammesse. Come è facile osservare dalle modalità in cui si è costituita, senza cioè congressi, senza discussioni franche sugli obiettivi e senza un chiarimento intorno ai rapporti da tenere con l’establishment che ne finanzia le iniziative, difetta di una chiara elaborazione culturale che conduce a un rapporto problematico con il passato, troppo inattuale per essere riassorbito, ma anche troppo grande per essere definitivamente rimosso. Nella sinistra di oggi il Pci è allo stesso tempo qualcosa di familiare ed estraneo, di riconoscibile e inaccettabile, di esemplare e nemico.
Una traccia di questo atteggiamento è presente nella riscrittura della vicenda di Enrico Berlinguer, celebrato ben oltre i reali meriti della sua azione politica e alla luce dei passaggi meno felici della sua segreteria. Questa operazione, sponsorizzata dall’area azionista di Repubblica e a cui non si è sottratto nemmeno un ex dirigente di rilievo come Walter Veltroni, si è in particolare soffermata sulla critica berlingueriana all’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti della prima Repubblica, allo scopo di reinterpretare in chiave moralistica l’esperienza dell’ultimo Pci e renderla in questo modo funzionale al superamento della forma partito, alla dilagante personalizzazione della politica e alla messa ai margini dei tratti più compromettenti, come la centralità dei diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze e il conflitto tra capitale e lavoro.
Da osservare come in tutto questo Berlinguer venga non di rado contrapposto a Togliatti, di cui nella narrazione giornalistica rappresenta l’antagonista, il volto pulito e democratico opposto al rappresentante dello stalinismo in Italia, all’uomo della doppiezza, che con la svolta di Salerno, il “partito nuovo” e l’idea di “democrazia progressiva”, avrebbe tentato di sfruttare i margini di manovra del parlamentarismo e dei diritti liberali per creare, anche in un paese occidentale come l’Italia, le condizioni di un’involuzione autoritaria. Inutile ricordare che l’elezione di Berlinguer a segretario generale è stata possibile perché tra i candidati lui era il dirigente che offriva migliori garanzie di continuità con il passato; così come a poco vale ricordare che il distanziamento dall’Unione sovietica ha il proprio fondamento politico nel testamento togliattiano di Yalta del ’64. Gli artefici di questa narrazione non badano a queste sottigliezze storiche. E così spoliticizzato il suo profilo – cioè decomunistizzato e detogliattizzato – e riconfigurata la sua vicenda nel segno della categoria prepolitica dell’onestà, Berlinguer ha potuto trovare spazio nel pantheon veltroniano del Pd e precariamente essere eletto a punto di riferimento o, come sarebbe forse meglio dire, a punto di smarrimento, di negazione del passato, di oblio. La grande fanfara intorno al vecchio segretario sassarese è stata infatti funzionale alla gestione di un corpo estraneo allo scopo di renderlo familiare e riutilizzabile per esibire qualche quarto di nobiltà politica.
Qualcosa di simile è stata tentato anche con Gramsci, anche per via del grande successo internazionale della sua opera. Un Gramsci d’importazione e radicaleggiante, dunque sganciato dal contesto nazionale in cui ha operato, poteva essere più facilmente slegato dalla vicenda comunista e dunque reso più digeribile, meno compromettente. Il terreno era del resto già stato ampiamente preparato dalla letteratura nostrana in cui si mettevano in rilievo le difformità tra la linea del partito e le testimonianze carcerarie negli anni immediatamente seguenti all’arresto. L’operazione, che ha raggiunto il suo culmine sull’onda di una ricostruzione filologica avventurosa e spericolata dei Quaderni, si è spinta sino a ipotizzare un quaderno mancante – sottratto ça va sans dire dall’implacabile Ercoli – in cui il prigioniero avrebbe consegnato la sua conversione al liberalismo. La tesi ha trovato scarsi riscontri scientifici, ma in compenso ha alimentato la leggenda di un Togliatti ostile a Gramsci fino al punto di propiziare la manipolazione del suo pensiero, che dunque, per essere còlto nella sua vera autenticità, deve essere ripulito delle incrostazioni comuniste.
Più recentemente, in vista del centenario, si è cercata una ragione di polemica nella nascita del Pci (all’epoca Pcd’I) nel 1921. Secondo una tesi parecchio diffusa e recentemente sposata persino dall’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, a Livorno si sarebbe consumata la scissione tra riformisti e comunisti. La lettura meriterebbe poca attenzione, e questo sia per l’uso anacronistico (e abusivo) che si fa del riformismo e delle figure che lo hanno rappresentato all’epoca, come Turati e Matteotti, sia perché lo scontro riguardava in realtà l’ala comunista guidata da Bordiga contro quella massimalista di Serrati. In ogni caso aiuta a rintracciare il sottotesto comune alle diverse operazioni di rilettura della storia del Pci e a comprenderne le finalità.
Ci riferiamo qui non soltanto al significato strumentale che oggi ha assunto il termine “riformismo”, quale sinonimo di “liberalizzazione” o “privatizzazione”, da imporre come vera bandiera dei progressisti e della sinistra. Una simile manipolazione può essere certamente degna di un Renzi, ma spiega solo la parte più superficiale dell’opera di rimozione. Come nell’uso della doppiezza togliattiana o nella manipolazione moralistica della figura di Berlinguer, l’elemento che deve essere cassato dalla riflessione sulle complesse radici storiche della sinistra, segnate dal momento drammatico dell’uscita della componente comunista dal Teatro Goldoni, è il lungo percorso che si ricongiungeva alla Rivoluzione d’Ottobre, ai moti del biennio rosso, e che a partire da Livorno ha seguito la via dell’antifascismo e della clandestinità, passando per il Congresso di Lione nel ’26, l’esperienza carceraria di Gramsci, la lotta politica di Togliatti in Spagna, per giungere alla Resistenza fino alla Costituente. Si tratta in altre parole del percorso che ha portato il Pci agli esiti del tutto imprevisti nel ’21 e per giunta estranei a gran parte delle altre esperienze del movimento operaio internazionale, ovvero all’adesione al parlamentarismo e alla democrazia attraverso la costruzione del partito di massa e l’opera di mediazione tra ceti subalterni e direzione politica.
In un contesto come quello attuale, in cui si è stabilita l’inscindibilità della democrazia dalla libertà di mercato, l’opzione dei comunisti italiani di una democrazia articolata invece con il socialismo e con il progresso collettivo per il superamento delle diseguaglianze e della sfruttamento dell’uomo sull’uomo risulta inaccettabile, ostile, contro natura. È allora d’obbligo difendersi da quel passato e dunque fantasticare sulle origini sovversive del Pci, tacere – per non scandalizzare gli europeisti – qualsiasi riferimento al Gramsci del nazionale-popolare o al patriottismo togliattiano e naturalmente esaltare la doppiezza comunista nella partecipazione alla vita democratica nonostante le prove di fedeltà offerte dai comunisti anche dopo l’esclusione dal governo nel ’47, la strage di Portella della Ginestra del maggio dello stesso anno, l’attentato a Togliatti nel luglio del ’48, la legge Truffa del ’53, la svolta a destra della DC nel ’60 con il governo il governo Tambroni e ai numerosi tentativi destabilizzanti contro un possibile ingresso del Pci al governo. Allo stesso modo, la diversità comunista, che indicava l’originalità della via italiana al socialismo nella democrazia rispetto agli altri partiti di ispirazione marxista, con la manipolazione della figura di Berlinguer, è stata sganciata dalle sue ragioni politiche per trasformarsi in un’estetica moralistica, in un modo di comportamento adatto a rappresentare non più le classi popolari, ma i ceti medi cognitivi della sinistra attuale.
Familiare ed estranea, esemplare e nemica, grandiosa e tragica, la vicenda del Pci sfida il presente, pone interrogativi sulla qualità dell’attuale democrazia ingabbiata nell’economia di mercato e, al di là dei toni nostalgici e sentimentali, mette a nudo la pochezza di una sinistra incapace di riconoscere la questione sociale, asserragliata nei centri urbani e sempre più lontana dalla prospettiva di dotarsi di un progetto per il riscatto dei lavoratori e dei ceti popolari.
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