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Le radici social-liberiste del PCI

In un recente articolo ho ripercorso l’importante dibattitto economico che ebbe luogo nel 1976 nelle file del PCI, che portò il partito, nonostante il suo miglior successo elettorale di sempre – nelle elezioni politiche di quell’anno il Partito Comunista ottenne il 34 per cento dei voti, poco meno della DC –, ad offrire la sua adesione incondizionata alle politiche di austerità e di moderazione salariale promosse dal governo monocolore DC, sostenuto dal PCI nella forma dell’appoggio esterno al governo di solidarietà nazionale, e come quella svolta “economica” abbia rappresentano il primo passo verso la svolta “politica” che quindici anni dopo avrebbe portato alla morte del partito.
In quella sede, però, per ragioni di spazio, non ho approfondito le ragioni che portarono il PCI a prendere quella decisione, così determinante per il futuro del partito. È opinione diffusa secondo gli esponenti della sinistra contemporanea che esse vadano rintracciate unicamente nella difficilissima congiuntura storica in cui si trovava il nostro paese – e in particolare il PCI – e che la “disputa accademica” tra gli economisti vicini al partito, oggetto del mio articolo succitato, abbia avuto un ruolo del tutto marginale.
Come ha scritto l’amico Mario Monaco in un commento a margine di quell’articolo, «l’azione politica del Partito Comunista va calata nella realtà difficilissima dell’epoca, nella quale il PCI dovette fare fronte a tentativi stragisti e golpisti, a movimenti alla sua sinistra che non vedevano l’ora di fare la festa a Botteghe Oscure, a forze reazionarie di ogni risma all’interno di un paese cattolico, socialmente conservatore e con un fortissimo tessuto imprenditoriale nel centro-nord del paese, il tutto in presenza di una scelta di campo politica, strategica, economica e oserei dire ideologica, fatta dall’Italia nel 1948».
Tutto vero. Lungi da me negare la complessità di quel momento storico e i vincoli oggettivi a cui era sottoposta l’azione del PCI. Tuttavia, certe analisi “contestualiste” rischiano di commettere l’errore speculare dell’approccio “idealista” che, con una buona dose di ragione, criticano: se quest’ultimo rischia di sovrastimare la centralità delle idee e delle “dispute accademiche” nella determinazione dei processi storici – e può indurre a pensare che, in qualunque frangente storico, tutto o quasi sia possibile purché si abbiano le idee “giuste” –, l’approccio “contestualista”, se applicato all’analisi dei fenomeni storici, rischia però, di scadere in una sorta di determinismo ex post, per cui le cose sono andate come sono andate perché, dato il contesto, non potevano andare diversamente.
Si direbbe quasi che il fatalismo che affligge la sinistra contemporanea – l’idea che, in fondo, un’alternativa all’esistente non sia realmente possibile – abbia addirittura una valenza retroattiva.
Ma all’avviso di chi scrive il postulato secondo cui il PCI al tempo non avesse alternativa – per quanto animato da buone intenzioni: difendere la “memoria” del partito da reati di lesa maestà – è non solo falso, ma anche deleterio per chi fa politica oggi: se un’alternativa non era possibile cinquant’anni fa, all’apice del consenso elettorale del PCI, figurarsi se sia possibile oggi. Ecco perché cercare di comprendere i possibili errori che, al netto delle contingenze storiche, possono aver contribuito al declino del più grande partito comunista d’Occidente è così importante: non solo per imparare da quegli errori, ma anche per comprendere che le cose potevano andare diversamente. Che un’alternativa è sempre possibile.
Personalmente, ritengo, perdonatemi la banalità, che la soluzione per comprendere i fenomeni storici consista in una “via di mezzo” tra l’approccio contestualista e quello idealista: in qualunque frangente storico esistono sempre diverse, seppur non infinite, strade possibili, che dipendono, in primis, dalla capacità di poter concepire tali possibilità. Come scrivevo in Sovranità o barbarie, «sarebbe ingenuo ridurre la crisi [del “compromesso di classe” keynesiano, alla metà degli anni Settanta, in cui si inscrive anche la crisi del PCI] a una semplice conseguenza dell’offensiva ideologica sferrata dall’intellettuale collettivo neoliberista», in quanto l’ideologia neoliberale «non avrebbe potuto prendere piede se non si fossero verificate le “giuste” condizioni strutturali», tra cui vanno senz’altro annoverati, per ciò che riguarda il contesto italiano, i vincoli interni ed esterni a cui accenna giustamente Monaco.
Purtuttavia, ritengo che la sfera dell’ideologia e del dibattito economico non si possa liquidare del tutto. Se è vero, infatti, che il trionfo del neoliberismo fu il risultato di una serie di fattori ideologici, economici e politici interrelati – la risposta dei capitalisti alla compressione dei profitti e alle implicazioni politiche della piena occupazione; i difetti strutturali e le contraddizioni insanabili del keynesismo “realmente esistente”, la fragilità di Bretton Woods ecc. –, tra questi va annoverata anche l’incapacità della sinistra socialdemocratica e socialcomunista di offrire una risposta coerente alla crisi del modello keynesiano, men che meno un’alternativa radicale a essa.
I fatti del 1976 mi paiono emblematici di tutto ciò. Se la posizione che il PCI adottò in quegli anni era ineluttabilmente “sovradeterminata” da fattori domestici ed internazionali, allora non si spiegherebbe l’accesissimo dibattito economico, relativo alla postura che il partito avrebbe dovuto assumere rispetto alle politiche di austerità e di contenimento salariale proposte dalla DC, che vide coinvolti tutti i principali economisti eterodossi dell’epoca, più o meno organici al partito – Augusto Graziani, Domenico Mario Nuti, Federico Caffè, Claudio Napoleoni, Massimo Pivetti e altri –, molti dei quali criticarono aspramente l’idea che esistesse una sola soluzione possibile al problema della bilancia dei pagamenti, ovvero l’austerità e la compressione salariale. Di cosa si sarebbe trattato? Di una semplice sceneggiata? Evidentemente no.
È dunque legittimo chiedersi se alla decisione del PCI di ignorare le soluzioni avanzate dai suddetti economisti e di chiedere invece alla propria base sociale, in nome del riequilibrio dei conti con l’estero, un rigido contenimento delle proprie rivendicazioni salariali, senza neanche chiedere alcuna contropartita in cambio, possano aver contribuito fattori “culturali” oltre che storici. Una possibile risposta a questo quesito ci viene offerta da un saggio illuminante del 1986 di Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Secondo gli autori, la decisione del PCI di avallare le misure deflazionistiche del governo – che diedero il via a una controffensiva padronale senza precedenti che avrebbe trovato il suo coronamento nell’adesione dell’Italia, di lì a poco, al Sistema monetario europeo (SME), prodromico all’introduzione della moneta unica – affonda le radici in una tradizione «social-liberista» che ha sempre caratterizzato la storia del partito e più in generale in «un sottofondo di cultura liberista da tempo stratificato nel patrimonio della sinistra italiana».
A prima vista può sembrare un’affermazione paradossale. Sappiamo infatti che le idee neoclassiche e il liberalismo economico uscirono profondamente delegittimati dal secondo conflitto mondiale e furono infatti categoricamente rigettati in sede costituente, nonostante vari tentativi di introdurli nel testo costituzionale, soprattutto ad opera di Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia al tempo della costituente e uno dei principali esponenti del pensiero (neo)liberista italiano. Ma questo non impedì al pensiero liberista e antikeynesiano di Einaudi e di altri suoi contemporanei (e poi del suo erede Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975) di continuare ad esercitare una forte presa egemonica su tutti i partiti del dopoguerra.
Il PCI ne è una dimostrazione evidente. La posizione assunta negli anni Settanta dal partito su un tema come quello dell’inflazione, per esempio, rappresenta, scrivono Paggi e D’Angelillo, «una vera e propria concessione ad un tipico modulo einaudiano, che ritroviamo pressoché immutato a distanza di trent’anni nel modo in cui Berlinguer giustifica la scelta dell’inflazione come punto-chiave del profilo politico del PCI». Per rendersene conto basta leggere la risoluzione approvata dalla direzione del PCI nel 1976, contestualmente al sostegno offerto dal partito alle misure deflazionistiche del governo, che affermava che «il pericolo più grave per le masse è l’inflazione», e che per evitare «questa sciagura» è bene che vengano adottate «alcune misure di emergenza». «Noi dunque prendiamo la bandiera della lotta all’inflazione», affermò Berlinguer, che proprio quell’anno lanciò la parola d’ordine dell’«austerità».
Il giudizio politico su quella scelta non può che essere netto: a prescindere dall’indubbia buona fede di Berlinguer – che in cuor suo probabilmente credeva veramente che l’austerità potesse essere «il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato» –, ciò non toglie che nel modo di produzione sociale vigente la limitazione dei consumi comporta delle conseguenze macroeconomiche che inevitabilmente si riflettono sulle condizioni delle classi meno abbienti, peggiorandole. In tal senso, Berlinguer contribuì, per una drammatica eterogenesi dei fini, a creare il frame, il meccanismo comunicativo che rendesse l’austerità socialmente accettabile a chi poi ne è stato vittima.
La decisione del PCI di avallare la politica deflazionistica e antioperaia del governo (aumento del 25 per cento del prezzo della benzina, del 20 per cento del gas, blocco per due anni della scala mobile, abolizione di festività, aumento delle tariffe dell’energia elettrica, telefoniche, postali), scrivono Paggi e D’Angelillo, appare particolarmente grave in considerazione del fatto che questo avveniva all’interno di una strategia in cui le ritornanti difficoltà dei conti con l’estero e dell’inflazione venivano assunte dall’establishment politico-economico come pretesto per «disciplinare la conflittualità operaia, e […] surrogare così il mancato scambio politico con il sindacato»:
Nella soluzione degli squilibri strutturali della bilancia dei pagamenti [è sempre prevalso] in Italia l’obiettivo di indebolire le conquiste sindacali, piuttosto che quello di aumentare la produzione legata al mercato interno o di incentivare flussi di capitali provenienti dall’estero.
In definitiva, tale scelta si rivelerà fatale per le sorti del partito, del sindacato (in particolare dopo la cosiddetta “svolta dell’EUR”) e del movimento operaio più in generale: nel giro di pochi anni i successi elettorali del 1975-76 si trasformarono in un’emorragia di consensi del PCI presso gli strati sociali dei lavoratori, e spinsero una parte del movimento popolare, che interpretò la strategia del “compromesso storico” come un vero e proprio tradimento, sulla via del terrorismo. Ciò che sorprende è come tutto ciò non abbia provocato alcun ripensamento tra i dirigenti comunisti negli anni a venire.
In una celebre intervista a Eugenio Scalfari, nel 1981, Berlinguer addirittura rivendicò il fatto che, un lustro addietro, i comunisti erano stati «i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro». L’assoluta subalternità del leader comunista all’ortodossia dominante in materia di inflazione, deficit e debito emerge anche in altre occasioni: in un’intervista televisiva del 1983, Berlinguer insiste ancora sull’impellente necessità di «tappare i buchi della finanza pubblica» per «evitare il collasso finanziario».
Ciò detto, sarebbe ingeneroso addossare integralmente a Berlinguer le responsabilità della torsione austeritaria del partito. A ben vedere, infatti, il PCI si caratterizzò per una linea sostanzialmente “liberista” in economia fin dall’immediato dopoguerra. Oltre alla posizione sull’inflazione, il PCI di Togliatti mutuò da Einaudi, e più in generale dalla teoria monetarista, anche la vulgata antikeynesiana secondo cui una crescita degli investimenti può essere resa possibile unicamente da una crescita del risparmio, concetto che ritorna spesso persino nei discorsi di Togliatti; l’idea di un nesso fra bilancio pubblico e inflazione, e dunque la necessità di politiche di “risanamento” del deficit; così come quella del crowding-out, secondo la quale un più ampio ruolo economico dello Stato, anziché stimolare il settore privato, riduce lo spazio d’azione per le imprese private; nonché la scarsa attenzione al ruolo delle politiche pubbliche nel sostenere la domanda effettiva e perseguire la piena occupazione.
Secondo Paggi e D’Angelillo, non è esagerato affermare che la rivoluzione macroeconomica attuata nel corso degli anni Trenta da Keynes non risulta essere stata recepita dagli economisti e dai dirigenti del PCI. Proprio in quegli anni avvenne infatti la frattura fra i partiti laburisti di paesi quali l’Inghilterra e la Svezia – che si convertirono a un keynesismo radicale, visto come necessaria fase intermedia nella transizione verso il socialismo e fondato sulla centralità dello Stato come strumento del rivendicazionismo operaio – e i comunisti italiani, che invece introiettarono l’ideologia liberista e antistatalista.
Sempre a questo ceppo ideologico possiamo far risalire l’idea, piuttosto diffusa a sinistra e in particolare nelle fila del PCI negli anni Settanta, secondo cui i problemi del paese fossero da ricercarsi nella corruzione, nella spartizione, nella lottizzazione, nella “partitocrazia” (antesignana dell’odierna “casta”) – cui sottende l’assunto neoclassico secondo cui l’intervento pubblico è di per sé sinonimo di “deviazione” rispetto all’operato “naturale” del mercato, già presente nella posizione “antimonopolistica” assunta da Togliatti – e più specificatamente nell’“arretratezza” della DC rispetto ad altre esperienze europee più “moderne” (questo schema si riproporrà poi in coincidenza della firma del Trattato di Maastricht).
Ritroviamo questo schema interpretativo anche nella critica – anch’essa, a ben vedere, in anticipo di svariati decenni rispetto al dibattito odierno – alla cosiddetta “spesa pubblica improduttiva”, che portò la sinistra di quegli anni ad avanzare «la tesi, di fatto paradossale, di un deficit spending keynesiano che, essendo concentrato più in trasferimenti (“la clientela”) che in investimenti, non avrebbe nel nostro paese effetti moltiplicativi». In tal senso, possiamo dire che Berlinguer ha anche la responsabilità di aver indirettamente avallato, con la sua insistenza sulla “questione morale” – in cui il problema della corruzione veniva elevato a chiave interpretatrice dei mali del paese –, una narrazione intrinsecamente liberista o comunque anti-interventista.
In ultima analisi, proprio nello scarso interesse dei vertici del PCI per le questioni macroeconomiche possiamo rinvenire una delle concause del perché il partito non abbia mai preso seriamente in considerazione soluzioni alternative/eterodosse alla crisi del regime keynesiano e al conflitto distributivo deflagrati negli anni Settanta, con le conseguenze drammatiche che abbiamo visto.
Si potrebbe obiettare che è facile criticare le posizioni del PCI dal punto di vista privilegiato di chi guarda indietro a quegli eventi con il senno di poi e con la consapevolezza di ciò che venne dopo. Ma, come detto, già al tempo non mancarono autorevoli intellettuali che criticarono la cultura economica subalterna del PCI e in particolare la sua deriva “neoliberale” nella seconda metà degli anni Settanta, anticipandone le conseguenze nefaste e assolutamente suicide per il partito, ovvero di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno delle sinistre per governare. Il più noto di questi fu senz’altro Federico Caffè. In una dura lettera-accusa pubblicata sull’Espresso dell’11 aprile del 1982, dal titolo “Processo a Berlinguer”, Caffè scriveva:
Mi sembra che la caratteristica di maggior rilievo della linea economica del Partito Comunista Italiano, durante l’ultimo decennio, sia stata quella di un adattamento alle circostanze, in una sostanziale continuità di ispirazione.[…] Nei fatti, malgrado ogni diversa apparenza, può dirsi che le forze progressiste del Partito Comunista abbiano accettato un’effettiva, sia pure non dichiarata, politica dei redditi. S’intende che ciò rispondeva al fine politico di una sempre attesa, e sempre rinviata, legittimazione del Partito Comunista come forza di governo. […] Gli effetti sull’economia italiana sono stati, pertanto, quelli di un apporto di rilevante importanza a una gestione dell’economia di corto respiro, che va avanti giorno per giorno, ma senza che siano in vista traguardi plausibili. Frattanto, la critica del cosiddetto assistenzialismo, in quanto si presta a deformazioni clientelari; il ripudio di ogni richiamo alla valorizzazione dell’economia interna, in quanto ritenuta contrastante con la “scelta irrinunciabile” dell’economia aperta; il frequente indulgere al ricatto allarmistico dell’inflazione, con apparente sottovalutazione delle frustrazioni e delle tragedie ben più gravi della disoccupazione, costituiscono orientamenti che, seguiti da una forza progressista come quella del Partito Comunista, anche se in modo occasionale e non univoco, possono contribuire ad allontanare, anziché facilitare, le incisive modifiche di fondo che sono indispensabili al nostro paese. In ultima analisi, ho l’impressione che l’acquisizione del consenso stia diventando troppo costosa, in termini di sbiadimento dell’aspirazione all’egualitarismo, della lotta all’emarginazione, dell’erosione di posizioni di privilegio: aspirazioni che si identificano in quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere.
Come disse in un’altra occasione:
Non credo […] che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell’economia, senza l’introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta gli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l’ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.
Va da sé che la subalternità economica del PCI non fu l’unica ragione che spinse il partito a dare il proprio consenso a una politica deflazionistica e antioperaia: vanno presi in considerazione anche altri fattori. Fra questi, l’aver esasperato l’idea – non priva di fondamento, ovviamente, come accennato – che l’autonomia del partito a livello nazionale fosse fortemente subordinata ad (se non addirittura predeterminata da) equilibri geopolitici internazionali al di fuori del controllo del partito stesso, da cui il tentativo di distanziarsi il più possibile dal modello collettivista sovietico. È quella che potremmo definire l’ossessione del PCI per i “rapporti di forza”. È lecito immaginare che questo abbia fortemente influenzato la risposta del partito alla crisi degli anni Settanta, anch’essa – secondo la lettura data dai vertici del partito – dettata da dinamiche esterne che era illusorio cercare di contrastare sul piano nazionale, con la differenza che con Berlinguer la cornice internazionale venne accolta come un dato irreversibile e immodificabile.
Come se non bastasse, scrive Sergio Cesaratto, il PCI era «costantemente ossessionato dall’esistenza di “interessi generali” (interclassisti per così dire) che avrebbero reso ogni avanzamento operaio sovversivo per il sistema, e dunque a rischio di una reazione violenta del capitale. […] L’ala dominante del PCI riteneva le lotte operaie fondamentalmente incompatibili con la democrazia occidentale, un’idea a ben vedere opposta a quella del riformismo nordico che nel conflitto vedeva il sale progressista della democrazia e riteneva possibile un esito cooperativo e favorevole ai lavoratori». Certo, si trattava anche in questo caso di un’idea non del tutto infondata nel contesto italiano, se pensiamo alle enormi pressioni esercitate sull’Italia (come su altri paesi) – anche attraverso campagne terroristiche sponsorizzate da organi (più o meno “deviati”) dello Stato – affinché non uscisse dai binari del patto atlantico.
A questo va poi aggiunta la natura particolarmente reazionaria della borghesia italiana, la quale, come notano sempre Paggi e D’Angelillo, fin dall’immediato dopoguerra, fece di tutto per impedire l’integrazione politica (governativa) delle istanze operaie, preferendo piuttosto la via della repressione, e facendo dell’Italia «l’unico paese europeo in cui, nonostante la sua partecipazione al club delle prime sette potenze industriali del mondo, il meccanismo dell’alternanza, ossia la promozione delle rappresentanze politiche del movimento operaio nell’area di governo (senza di cui è impossibile parlare di un compiuto sviluppo dello Stato liberaldemocratico) non si è [mai] realizzato». Sarebbe a dire che, anche nella nuova fase della democrazia postfascista, si possono rinvenire i tratti di una strategia, precedentemente analizzata da Gramsci, tesa sostanzialmente a «evita[re] […] che il principale partner sociale di una società industriale avanzata raggiunga piena e definitiva legittimità, ossia pari dignità, dentro il sistema politico» e a «negare o contrastare al movimento operaio la sua piena acquisizione della figura di autonomo e compiuto soggetto politico agente entro le regole dello Stato liberaldemocratico». Molte delle derive violente di quegli anni possono essere imputate proprio alla frustrazione delle aspirazioni del movimento operaio e popolare.
Per concludere, non possiamo sapere come sarebbero andate le cose se in quegli anni il PCI e il movimento operaio più in generale avessero manifestato la loro netta indisponibilità ai “sacrifici”, e avessero posto sul tavolo la questione di una riforma radicale del capitalismo italiano che tutelasse ed ampliasse le (parziali) conquiste economiche e sociali ottenute nel dopoguerra sul fronte del welfare, dei diritti del lavoro e della pianificazione industriale. Tuttavia, è una riflessione che merita di essere fatta, proprio per non scadere in una sorta di fatalismo ex post. Come si chiedeva l’economista Fernando Vianello in una bella intervista a Federico Caffè realizzata nel 1977 a proposito dell’«occasione perduta» dell’anno precedente: «Posto che non si poteva fare la rivoluzione, che cos’altro si poteva fare?».
Ciò che sappiamo è che l’accettazione da parte del partito e del sindacato della logica della moderazione salariale e dell’austerità fu l’elemento determinante che aprì la porta a una violenta restaurazione oligarchica che nel giro di pochi decenni avrebbe portato al superamento surrettizio del modello democratico-costituzionale impostosi in Italia nel dopoguerra e fatto piazza pulita di buona parte dei progressi sociali ad esso associati.
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