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Lo stato dell’Arte, tra fisico e digitale
Se ci fosse una classifica delle arti più bistrattate in Italia al primo posto ci sarebbe la danza: l’arte magnifica dei corpi. Sotto la pittura, sotto il teatro, sotto la musica e persino sotto la poesia, alla fine di tutto c’è lei: la danza. Essa è la Musa ancestrale che ha dato senso all’agire del corpo umano, ed è continuamente relegata ai margini della cultura.
Non servono a nulla le puntate Rai in prima serata, le maratone dei talent o dei reality show dove – a mo’ di stacchetto pubblicitario – si confezionano movimenti che nel migliore dei casi sono inutili e istintivi.
L’arte dei corpi è diventata sempre meno significativa per la cultura e per l’educazione fisica, e basta darsi un’occhiata in giro, porre attenzione alla postura e alla mobilità delle persone che incontriamo, alla nostra, per avere conferma di questa deriva.
Perché è accaduto questo? Perché la danza non ha il rilievo dovuto? Perché anche oggi sottostiamo a questa messa in ombra dell’arte dei corpi? A questo abbandono della formazione coreutica da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica?
Queste sono forse domande meno fondamentali di quelle che ci impone la cultura dominante? Una cultura che tenta in ogni modo di evitare qualsiasi riflessione critica che possa mettere in discussione l’assetto mentale (e fisico) dell’apparato consumistico che l’alimenta.
La danza, come l’arte in generale, continua a rimanere il rifugio di quelli che ancora sperano in un uso del corpo non ai fini di una progressiva mercificazione, o di una superficiale forma estetica di abbellimento, ma come ricreazione e trasformazione dell’intera soggettività umana. Come la possibilità di superare qualsiasi stagnazione in modo nuovo e radicalmente vivo.
Lo vediamo in questo lungo periodo di soffocamento: è il corpo a essere martoriato, malato e depotenziato; è nel corpo che accusiamo dolori, frustrazioni e impedimenti; ed è allora dal corpo che bisogna pensare di ripartire. Soprattutto in un momento storico-culturale come quello che stiamo attraversando è impensabile una ripartenza che non si prefigga il compito di elevare lo status di minorità in cui l’immagine del corpo – in tutte le sue espressioni creative – è piombata da diversi decenni, forse, addirittura, secoli.
C’è una dimensione della realtà artistica, teatrale e di luogo pubblico, che è insostituibile. In nessun modo il digitale potrà essere il surrogato di quell’esperienza diretta quale è la vista di un’opera d’arte dal vivo. Un’esperienza che coinvolge l’intera persona umana, con tutti i suoi sensi, e che uno schermo piatto – per quanto possa essere full HD – non potrà mai porsi come equivalente, o alternativo.
Le ultime manovre politiche non lasciano ben sperare in una risposta che sia chiara e netta su questo punto. Si oscilla fra l’ingenuità di certe posizioni pro-digitale, e il carattere quasi sempre retorico di chi sottovaluta il disagio di una generazione obbligata a stare per ore davanti al monitor di un computer.
L’asetticità della tecnologia non potrà mai rimpiazzare il calore fisico; così come l’igienizzazione maniacale, le mascherine e la distanza fisica non potranno mai essere la normalità in un mondo che si voglia ancora considerare Umano.
Ciò non significa affatto che non siano tutte protezioni e accorgimenti utili e indispensabili, quelli indicati fin ora, ma solo qualora venissero presi in considerazione per un breve periodo. Altrimenti, se si cerca di procrastinare ad libitum questa sorta di nuovo paradigma (“Great Reset” secondo il World Economic Forum), se così fosse, ci sarebbe molto da preoccuparsi.
In questo senso mi sembrano fuori luogo tutte quelle iniziative che mirano a dare forma a nuove modalità di “stare insieme”. Non si capisce come mai si debbano istituire delle dinamiche permanenti, come quella promossa dal Ministro Dario Franceschini, per colmare il malessere del non stare più insieme in luoghi pubblici come teatri, cinema, associazioni, eccetera.
È infatti notizia di questi giorni il lancio, da parte del Ministero dei Beni culturali, di una piattaforma online dal nome “ITsArt”. Da una notizia Ansa si legge che:
“ITsArt sarà dunque il nuovo palcoscenico virtuale che consentirà di estendere le platee e promuovere nuovi format per il teatro, l’opera, la musica, il cinema, la danza e ogni forma d’arte, live e on-demand”[1] (corsivo mio).
Siamo davvero sicuri che l’online si possa definire, seppur con l’aggettivo “virtuale”, un palcoscenico? Siamo sicuri che l’arte abbia bisogno di nuovi format? Io credo assolutamente di no. Per lo meno, non in questa direzione.
Penso, al contrario, che si debbano rianimare le fondamenta del concetto di opera d’arte, di cosa sia davvero artistico e cosa invece una pura masturbazione edonistica.
Questo spostamento dalla dimensione reale alla dimensione virtuale, quasi come fossero la stessa cosa, dovrebbe far riflettere sulle conseguenze che tutto ciò può avere non solo sul piano dalla fruizione di uno spettacolo teatrale, ma anche sull’incapacità sempre più acuta dell’essere umano di agire – fisicamente – per il cambiamento della propria situazione sociale e politica.
Il caos di questi ultimi dieci mesi ci dovrebbe almeno spingere a riconsiderare ogni ambito artistico come insufficiente e corrotto (già da prima della pandemia), e a tentare una riformulazione che abbia l’ambizione di riportare in auge il linguaggio artistico quale potenza creatrice capace di dare senso nuovo al modo di stare al mondo.
L’arte dei corpi, a mio modesto avviso, fa proprio questo: mostra all’uomo le sue capacità fisiche e di totale libertà da ogni schema, forma e spazio oppressivi e coercitivi.
Ecco perché nel teatro-danza, e nella danza contemporanea più in generale, la messa in mostra della devastazione fisica, di una scomposizione e deformazione dei corpi in movimento continua a essere una delle esposizioni di denuncia (così la leggo io) più evidente ed esplorata, almeno a partire dalla metà del secolo scorso a questa parte.
Per fare un solo esempio: sul finire dell’anno 2020, la compagnia di danza Hofesh Shechter Company, dell’omonimo coreografo israeliano, in occasione del decimo anniversario di uno dei suoi principali lavori artistici, ha ripresentato il suo spettacolo dal titolo “Political Mother Unplugged”.
Oltre alla ricerca coreografica e all’originalità della realizzazione teatrale, quello che colpisce è il tema di fondo della creazione, ovvero: l’impossibilità di fuggire dalla politica, dalle sue “massive structures”[2] – come le chiama l’autore – che travolgono ogni persona in modo violento e ideologico.
Alla fine dello spettacolo quello che resta al pubblico è una domanda molto semplice: esiste un modo di fare politica che non sia demagogico, totalitario e guerrafondaio? Domande che sono, e saranno, inevitabilmente, sempre più all’ordine del giorno.
C’è bisogno di andare oltre la fastidiosissima retorica a cui siamo purtroppo tutti i giorni abituati. È diventata davvero insopportabile. Come è insopportabile quest’amministrazione dei Beni culturali che mira esclusivamente a “salvaguardare” l’esperienza artistica realizzando una piattaforma che consenta di fare un viaggio virtuale fra le città d’arte, i borghi, le quinte e i musei, per essere attrattivi e innovativi nei confronti del “pubblico di tutto il mondo” (come si legge dal sito di ITsArt). Questo è un modo di pensare ottocentesco: altro che futuro!
Considerare l’arte sempre e solo a partire dai musei, dalle statue, dai palazzi è davvero una cosa che annoia e stufa infinitamente. C’è bisogno di una rivoluzione totale di questo modus operandi, che implicherà una visione più ampia e meno “statuaria” della dimensione artistica. Vanno bene le sperimentazioni tecnologiche, l’online e le infinite contaminazioni virtuali, ma non bastano per rilanciare il senso di una creatività mediterranea e continentale che solo l’Italia possiede. Non si può tirare a campare per sempre sulle opere e sui reperti dell’antichità. È il nuovo che deve avanzare! Un nuovo che sia del tutto fisico, estroverso, dinamico, e che si faccia carico del reale senza ripiegamenti né distorsioni. La danza, sotto questo punto di vista, ha molto da insegnare. Vedremo se nel prossimo futuro qualcuno se ne accorgerà.
[1] https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/altre_proposte/2021/01/11/nasce-itsartnuova-piattaforma-digitale-della-cultura_afae4a7f-3f98-4081-a965-53f9566d830a.html
[2] “But it is about the individual, in a way, facing the political world, even though it doesn’t deal with any politics specifically; it deals with the individual being steamrolled by structures, by massive structures. In that sense, to me, it feels completely relevant”.
https://hofesh.co.uk/news/political-mother-10-years/
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