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Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Divagazioni sulla storia e la memoria
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Cade oggi il 76esimo anniversario della liberazione del Lager di Auschwitz. Com’è noto, o dovrebbe essere noto, nella tarda mattinata del 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa penetrava all’interno del complesso concentrazionario di Auschwitz, già abbandonato dalle SS, liberando quei pochi prigionieri scampati alle terribili marce della morte e non ancora uccisi dalla fame e dalla malattia. Soltanto parecchi anni dopo, in un documento del Parlamento europeo “sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa” datato 19 settembre 2019, avremmo appreso che i liberatori di Auschwitz e i nazisti che in quel luogo vi praticarono lo sterminio sistematico erano esattamente la stessa cosa, affratellati dal «comune obiettivo di conquistare il mondo»[i].
L’equiparazione proposta dal Parlamento europeo è soltanto l’ultima di un lungo corso. Già nel 1986 dalla Germania si propagarono le tesi di alcuni storici tedeschi, di cui il capofila fu Ernst Nolte con un articolo sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, volte a dimostrare come il nazismo avesse nel comunismo staliniano il suo antecedente storico, ma anche logico. Una storia vecchia, secondo cui la matrice di Auschwitz sarebbe di provenienza “asiatica”; tutta colpa del bolscevismo, insomma. Era l’inizio della cosiddetta Historikerstreit (disputa tra storici), che occupò in quegli anni il dibattito storiografico di metà dell’Europa.
Anche l’Italia venne investita in quell’occasione dalla polemica. Tra gli altri, Paolo Mieli riportò i termini del dibattito sulle pagine de La Stampa, dando prova di un atteggiamento particolarmente accomodante nei confronti delle tesi di Nolte. Il giorno successivo, dalle pagine dello stesso giornale Primo Levi rispondeva, confutandole, alle ragioni di Nolte, e indirettamente anche a quelle di Paolo Mieli. Più tardi, in una lettera indirizzata a Maurice Goldstein (già ex internato di Auschwitz, poi presidente della Fondazione Auschwitz di Bruxelles), Levi confessa all’amico di essere rimasto, come lui, «scandalizzato dai due articoli di Mieli e di Galli Della Loggia» – anche quest’ultimo era intervenuto sulle pagine de La Stampa – e per questa ragione, su invito della redazione torinese, di avere «immediatamente replicato»[ii].
Ritorniamo al tempo presente, e soffermiamoci sulla figura di Paolo Mieli. È di fresca stampa il suo ultimo libro, assai emblematicamente intitolato La terapia dell’oblio. Contro gli eccessi della memoria. Già dalla sezione introduttiva di questa sua ultima impresa intellettuale (“Ricordati di dimenticare”), Mieli ci racconta che l’«aggrovigliamento tra passato e presente ci intossica». Per il volto noto della storia televisiva, «le nostre menti» sarebbero «sempre più alluvionate» da quello che egli definisce un «eccesso di dati conoscitivi», e perciò esposte al rischio concreto di «un grande disorientamento». Ancora, dopo averci ammonito del pericolo, Mieli riesce a sfidare ogni principio di non contraddizione, e ci spiega che «non si tratta di dimenticare, ma di imparare a far sì che un velo di oblio possa depositarsi su eventi luttuosi o più semplicemente controversi»[iii]. Un capolavoro di rigore storico e di logica, insomma. Non che si debbano dimenticare gli “eventi luttuosi o controversi”, dunque, ma occorre soltanto rivestirli di un leggero strato di oblio, ammantarli di una sottile patina di noncuranza, cospargerli della magica e potente polvere della strafottenza.
L’intendimento che è alla base del discorso di Mieli è semplice, se non grossolano: si tratta di considerare la memoria storica e collettiva, frutto di una lunga sedimentazione comune fondata su testimonianze, analisi, studi, documenti – su quelli insomma che Mieli definisce i «dati conoscitivi» che rischiano di «generare un grande disorientamento» –, alla stregua della memoria individuale. Per Mieli è necessario cioè «consegnare il passato agli storici»[iv] per poter tornare a vivere il presente in modo libero e spensierato.
Eppure, benché analiticamente modesto (per non dire inconsistente), questo di Mieli è un discorso profondamente insidioso. A ben guardare, infatti, vi è un elemento di congiunzione tra la tesi di Nolte che apre la “disputa tra storici” del 1986 – tesi, di fatto, canonizzata dalla norma del Parlamento europeo del 2019 –, e l’ultimo libro di Paolo Mieli sull’oblio e la memoria. Se il revisionismo di Nolte ha lo scopo precipuo di confondere i piani del discorso storico e di mescolare tra loro fatti essenzialmente differenti – un’operazione culturale, questa di Nolte, che ha per esito la mistificazione della storia –, il libro di Mieli si pone come il naturale sviluppo di tale orientamento, sollecitando adesso, in grazia di questo artificioso guazzabuglio, «la necessità di saper archiviare il passato»[v].
Falsificare prima (Nolte), per dimenticare poi (Mieli). In mezzo, c’è il documento del Parlamento europeo che rivendica, a guisa di beffa, “l’importanza della memoria per il futuro dell’Europa”. Il nocciolo della questione, però, è che senza la storia, o con la sua falsificazione, non può esservi memoria.
A tal proposito sarebbe forse utile tornare a studiare I sommersi e i salvati di Primo Levi, l’ultima grande opera dell’autore dedicata al tema del Lager. Nel primo capitolo del volume, edito nel 1986, Levi rivolge l’attenzione proprio al rapporto di reciprocità tra la storia e la memoria, e anzi, si potrebbe dire, egli riconosce nello studio della storia il miglior argine al «vuoto di memoria» e alla «verità putativa»[vi].
Più in generale, non è un caso se l’impegno testimoniale di Primo Levi non si limita alla trasmissione esclusiva della propria esperienza di Auschwitz, ma si spinge, per un verso, a scandagliare le ragioni storiche che sottendono il genocidio, e per l’altro, ad inabissarsi nel pozzo buio dell’animo umano, negli spazi più reconditi del soggetto. A partire soprattutto da un certo momento della sua riflessione – che trova appunto ne I sommersi e i salvati la sua più matura espressione –, il discorso del “testimone” Primo Levi si rivolge all’esame delle radici storiche e umane che hanno generato la barbarie nazista, e fascista.
In questo modo, il significato della memoria che Primo Levi ci consegna attraverso la propria testimonianza non si incaglia nelle secche degli stereotipi, né resta impigliato nella palude delle formule semplicistiche – che tanto bene si adattano, invece, alla dimensione linguistica ufficiale e istituzionale. Per instaurarsi come pratica sociale, la memoria ha bisogno di poggiare sul terreno della storia. Proprio quella storia che, già ratificata dal Parlamento europeo nella sua rielaborazione contraffatta, viene adesso avviata all’oblio.
[i] Cfr. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html
[ii] Maurice Goldstein, La réalité d’Auschwitz dans l’œuvre de Primo Levi, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi. Il presente del passato, Milano, FrancoAngeli, 1991, p. 93.
[iii] P. Mieli, La terapia dell’oblio. Contro gli eccessi della memoria, Milano, Rizzoli, 2020, pp. 7-8-9.
[iv] Ivi., p. 9.
[v] Ibid.
[vi] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2007, p. 19.
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