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Corbyn e l’antisemitismo
Domande aperte da un caso d’incomprensione organizzata
Ora che il clamore mediatico si è concluso con la fine della leadership di Corbyn, è possibile riflettere come maggiore serenità sulle vicende riguardanti l’affaire antisemitismo nel Labour. Nonostante le perverse dinamiche politiche chiamate in causa, si tratta effettivamente di un caso studio molto interessante, perché ci costringe a porci una domanda di importante valore morale: cosa sono il razzismo e la discriminazione?
Le accuse rivolte a Corbyn, ovviamente, non sono di essere antisemita. Nessuno che sapesse di cosa sta parlando, per quanto male intenzionato, potrebbe arrivare a spingersi a dire che uno dei più grandi campioni dell’antirazzismo possa essere un razzista. Certo, ci sono i minions zelanti che spesso si spingono ben oltre le azioni dei propri superiori, ma per quanto siano dannosi sono relativamente periferici rispetto al succo della questione.
L’accusa rivolta a Corbyn è duplice. In primis, quella di aver “coperto” per motivi politici i casi di antisemitismo, o comunque di non aver agito in maniera sufficientemente tempestiva per evitare uno scandalo. La seconda accusa è di non essere in grado di riconoscere le nuove forme, più striscianti, del pregiudizio e della discriminazione.
Sul primo punto stenderei un velo pietoso. Non perché sia completamente falso, ma perché 1) la questione antisemitismo nella sinistra ovviamente non nasce con Corbyn e 2) gli altri partiti hanno fatto ben peggio del Labour – giusto durante la feroce campagna contro Corbyn il Primo Ministro May inaugurava monumenti intitolati a noti politici antisemiti senza che nessuno facesse mezza smorfia. Per tacere dell’aggressivo – linguistico, materiale, sistemico – razzismo espresso a più riprese dal governo Conservatore, non ultimo nel tremendo caso Windrush e in ricorrenti atteggiamenti nei confronti di immigrati e musulmani. E’ evidente che nel doppio standard mostrato dalla stampa e da parte del mondo ebraico si nascondano, da un lato, moventi politici e, dall’altro, una certa ossessione persecutoria di parte degli esponenti di spicco del sionismo conservatore – il che è anche comprensibile, vista la storia recente del popolo ebraico, ma nondimeno risulta un atteggiamento dannoso.
La seconda accusa invece è più interessante. L’idea è che Corbyn – e come lui parte della sinistra più “bread&butter” – non sia stato in grado di capire come la discriminazione possa anche colpire persone “bianche” che non sono esplicitamente svantaggiate economicamente dalla propria identità – mi pare difficile affermare che ci siano persone, oggi, povere perché ebree, che non vuol dire che tutti gli ebrei sono ricchi o non poveri, ovviamente. In secondo luogo, la difficoltà di Corbyn e della sua area culturale sarebbe quella di capire che il razzismo spesso non assume forme di discriminazione ed insulto esplicito, ma si radica più sottilmente in immagini ricorrenti e poco consce, modi di dire e battute. Cose a cui i cosiddetti “Social Justice Warriors” e sezioni importanti del movimento femminista sono invece oggi molto attenti.
Il punto naturalmente è chiedersi quanto questo tipo di fenomeni linguistico-culturale semi-consci possano essere definiti razzisti alla stessa stregua della discriminazione e dell’insulto esplicito. La prima domanda che ci si deve porre è la seguente: l’esistenza di questi luoghi comuni è una mera “sopravvivenza” di luoghi comuni del passato, ormai disattivati, o si può riattivare trasformandosi in discriminazione attiva? Se fosse vera la prima opzione, non di una questione di razzismo si tratterebbe ma al massimo di una questione di buona educazione. Viceversa, se fosse vera la seconda possibilità, si tratterebbe di razzismo, suppongo.
Vale un po’ lo stesso discorso anche per le questioni di genere se vogliamo. Oggi mi sono imbattuto in un post in cui l’autore sosteneva che dire “porca puttana” sia offensivo per le donne e le prostitute, nella misura in cui il linguaggio costruisce il pensiero e dunque, in questi casi, contribuisce a riprodurre modi di vedere le donne in maniera discriminatoria e sminuente attraverso associazioni mentali ricorrenti e pre-razionali. Ma non è sempre così: io non credo che chi dice “porco Giuda” si figuri il buon Iscariota in sembianze suine; spesso il linguaggio si autonomizza dal referente, specialmente se si tratta di battute, per forza di cose istintive e volte ad esprimere un’emozione più che un contenuto specifico. Inoltre, non siamo delle macchine: se è vero che spesso accediamo a rappresentazioni collettive e luoghi comuni per pura “economia” mentale, siamo umani proprio in quanto capaci di riflettere sulle nostre matrici culturali e le nostre azioni; anche il più ottuso di noi riflette continuamente. Spesso i fautori della polizia del linguaggio, paradossalmente, sopravvalutano il potere di qualcosa che è opera dell’uomo – il linguaggio – proprio mentre svalutano le capacità del suo creatore di farne uso.
Quando penso a questi fatti mi viene in mente la distinzione che Beck pone tra pericolo e rischio. Il pericolo, secondo Beck, è immediatamente percepibile da chiunque: se cammino su un ponte pericolante, non posso che avere paura. Il rischio invece è una roba complicata; il tipico rischio è il climate change: non è qualcosa che si tocca, qui e ora, ma qualcosa che richiede una competenza cognitiva, un sapere ed un ragionamento, per essere afferrato. Difficilmente si ha paura del climate change come di un ponte pericolante: il pericolo è percepito dal nostro istinto, il rischio dal nostro intelletto; non tutti sviluppiamo nella stessa maniera istinto e ragione. La domanda dunque che ha senso porsi è la seguente: ha senso trattare chi non coglie il rischio alla stregua di chi produce un pericolo? Io non lo credo. A meno che l’abbraccio del rischio non sia una scelta politica volontaria, la differenza tra i due atteggiamenti è moralmente incommensurabile.
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