L’insediamento di Joe Biden alla “casa bianca” e il passaggio di consegne della Presidenza da Donald Trump al vecchio senatore democratico del Delaware sono avvenuti in un clima di tensione senza precedenti. La “guerra civile” americana a bassa intensità cui abbiamo assistito in questi mesi ci mette di fronte ad alcuni degli elementi contraddittori che strutturano lo spazio pubblico e che sono costanti, spesso rimosse o misconosciute anche dagli studiosi, della politica. Sotto il profilo teorico quanto accaduto ci mostra con assoluta chiarezza che lo spazio della politica è costituito dalla conflittualità, degli interessi delle idee dei valori dei bisogni e che questa strutturale condizione della vita collettiva non solo è sempre materialmente presente nel complesso dei processi sociali e istituzionali ma che è anche sempre in azione in una dialettica tra la dimensione istituzionale e la dimensione popolare. Una dialettica che può essere discorsiva e mediata dalle istituzioni giuridiche e ancor più da quelle rappresentative ma anche irrazionale e violenta (insurrezionale). Perciò i fatti del 6 Gennaio sono di straordinaria importanza e hanno inevitabili riflessi planetari. Quanto è accaduto a Washington è manifestazione concreta delle profonde lacerazioni che segnano la società statunitense e dimostrazione eclatante che la violenza non è un fattore relativo solo al tessuto delle relazioni intersoggettive e a un passato fatto di selvaggio individualismo e giustizia fai da te. Il diritto al possesso di armi è sancito nella Costituzione statunitense (dal secondo emendamento). L’attentato più grave prima di quello alle Torri gemelle fu compiuto nel 1995 ad Oklahoma City da un cittadino statunitense appartenente alla componente bianca della multietnica collettività nordamericana, per quegli stessi ideali che oggi le indagini sociologiche dicono essere condivisi da un’ampia parte del popolo americano e dell’elettorato trumpiano. La sconvolgente attitudine a usare le armi da parte della polizia. Questi fattori ci dicono che la violenza negli USA è un ingrediente politico essenziale; componente strutturale delle relazioni sociali. Da Nascita di una nazione a Gangs of New York, passando per I cancelli del cielo, quella sorta di macchina di autonarrazione “immaginante” (parafrasando Benedict Anderson) che è l’industria cinematografica per la Nazione americana, ce lo ha spiegato ripetutamente. I turbolenti fatti di questi giorni hanno rilevanza planetaria non solo perché gli Stati Uniti d’America sono uno degli attori principali nello scenario della politica internazionale ma anche perché, ci viene ricordato da più parti[1], essi sono una potenza imperiale dalla quale dipendono in maniera più o meno stringente gli Stati che fanno parte del suo impero. Non si tratta perciò solo di potenziali contraccolpi per le istituzioni internazionali o delle ripercussioni nella trama della cooperazione globale e degli scambi commerciali. Si tratta delle dirette conseguenze sui propri sottoposti; sul territorio in cui si esercita il proprio potere imperiale; sugli Stati che di esso fanno parte. Per questo è necessario richiamare l’attenzione su due profili particolarmente evidenti in questa sequela di eventi e fondamentali dei nostri assetti sociali. Mi riferisco al circuito mediatico dentro cui siamo e alla melliflua cornice ideale dei nostri (public) opinion makers. Il modo in cui è stato raccontato il drammatico scontro in atto dal 3 novembre scorso mostra in che misura siamo dentro una bolla retorica mistificante e in malafede, mentre il livello di superficialità e arroganza con la quale le nostre classi dirigenti indicano l’universo d’oltreoceano, gli Stati Uniti d’America, come un modello al quale ispirarsi rasenta l’incredibile ed è ormai insopportabile. La narrazione che ci è stata fatta dello scontro sulle elezioni presidenziali statunitensi è rivelatrice della drammatica condizione delle nostre democrazie, che sono certamente in crisi, di rappresentanza di partecipazione di consenso ma di questa crisi, di legittimità per l’appunto, i canali di circolazione delle idee e delle informazioni sembrano essere la spiegazione e la causa principale. Ecco perché quanto è accaduto in queste settimane costituisce un’occasione per invitare a discutere seriamente sul “senso comune” delle nostre collettività e più esplicitamente sull’imperialismo culturale sotto il quale abbiamo costruito la nostra vita civile negli ultimi 75 anni. Quale grado di superficialità e connivenza è necessario per indicare il modello istituzionale e la società statunitense come esempi di democrazia e di convivenza sociale?
Non nutro alcuna simpatia umana per Donald Trump né alcuna vicinanza ideologica e politica. Penso che nella contestazione del risultato elettorale abbia giocato un ruolo il suo narcisismo smodato e la sua arroganza d’affarista ma la maniera in cui la controversia sulle elezioni statunitensi è stata descritta dai mezzi di informazione mondiali mi è parsa fuorviante e molto tendenziosa. Le ‘presidenziali’ americane non si sono concluse il 6 novembre, giorno in cui i media statunitensi (con in testa il New York Times) e di rimbalzo quelli di tutto il mondo hanno annunciato la vittoria di Biden. Sabato 6 novembre non vi era alcuna certezza del risultato ma il sistema mediatico globale ha iniziato a proclamare Joe Biden “President Elect”. Questa grancassa è andata avanti senza tregua nonostante giuridicamente tutto fosse ancora indefinito e incerto e non per le denunce da parte del candidato presidente in carica Donald Trump e del suo Partito repubblicano ma perché, per le norme che regolano le procedure di voto e di conteggio nei vari Stati e a livello Federale e per quelle che regolano la procedura di nomina del Presidente, tutto era ancora da verificare e lontano dall’essere definito. Come ha appreso chiunque abbia seguito anche superficialmente lo svolgersi degli eventi, il processo elettorale prevede il primo momento di conclamazione nella riunione del Collegio degli elettori (che era prevista per il 16 Dicembre) prima della quale le varie normative statali prevedono diverse modalità di verifica delle schede elettorali che dovevano concludersi entro l’8 dicembre. Così come la proclamazione del nuovo presidente è rimessa alla seduta del Congresso, che ratifica definitivamente il risultato e proclama l’eletto (cerimonia avvenuta, nonostante tutto, il 6 Gennaio). Questi passaggi sono previsti non solo come momenti di certificazione ma come momenti in cui avviene una ponderazione politica, per cui gli organi a essi preposti possono, secondo la Costituzione, dichiarare e proclamare come nuovo Presidente un nome diverso da quello che ha ricevuto il maggior numero di voti. È a tale possibilità che Trump e molti esponenti e parlamentari repubblicani si sono appellati affinché venisse dichiarata dal Congresso, riunito per la proclamazione, la sua vittoria; ribaltando il conteggio dei voti.
Ora, se in circostanze pacifiche i poteri di ribaltare il conteggio elettorale conferiti agli organi costituzionali possono esser ritenuti meramente formali, in un contesto di conflittualità estrema e di accuse gravissime come quello che vi è stato non poteva essere dato per certo che la facoltà di disattendere il risultato certificato dagli uffici elettorali non venisse messa in atto. Ciò che abbiamo ascoltato invece in queste settimane è stata una ricostruzione che si è imperniata sul leitmotiv del magnate megalomane, inadatto a ricoprire funzioni pubbliche (che ha in verità ricoperto al massimo livello già per 4 anni) o del suo clan familiare e affaristico che, arroccatosi nella sede del potere per eccellenza, non aveva alcuna intenzione di accettare le regole democratiche e la morale del diritto. Ricostruzione però che ha trascurato alcuni particolari. Come il fatto che per settimane al coro generale non si sono aggiunte le dichiarazioni ufficiali delle altre due potenze mondiali, Cina e Russia, che, prendendo atto delle contestazioni in corso, hanno riconosciuto il risultato elettorale solo molto dopo. Come il fatto che di frodi elettorali ci siano state molte segnalazioni. Come il fatto, evidentemente non marginale, che la messa in discussione della regolarità dell’esito elettorale non è stata condotta da un singolo candidato (il presidente uscente) ma dalla gran parte del Partito repubblicano che, persino qualche ora dopo l’invasione del Congresso, ha continuato a chiedere l’istituzione di commissioni di inchiesta e di provvedimenti di annullamento. Parliamo di 140 deputati e più di 10 senatori. Vero è che le decine di ricorsi presentati in diversi Stati non hanno ricevuto accoglimento e che vi è stata anche una pronuncia della Corte suprema (sebbene relativa a un profilo procedurale) ma non è questo il tema. Almeno in questa sede. Il tema è che negli Stati Uniti d’America è in corso un conflitto asprissimo all’interno del ceto politico e della classe dirigente. Un conflitto che tra l’altro non si può rubricare come una faida di potere perché è, riconosciuto da tutti, riflesso di una frattura profonda nel popolo statunitense[2]. La denuncia di Trump, che già nelle settimane precedenti al voto aveva gridato il suo timore di frodi elettorali attraverso le procedure del voto postale, non è stata isolata e sostenuta solo dal pool dei suoi avvocati e collaboratori. É stata una battaglia che ha visto impegnata la maggior parte del Partito repubblicano e non convince per nulla la tesi secondo la quale ciò sarebbe dovuto alla paura di ritorsioni da parte del Presidente uscente, che, sebbene molto popolare, è stato spesso definito dagli analisti come un corpo estraneo al Partito repubblicano, per cui pare poco plausibile che abbia capacità di tenere in pugno la gran parte delle sue componenti. Quindi, questo il nodo. Ciò che è accaduto in questi due mesi e mezzo è che ci è stato in buona sostanza nascosto un conflitto drammatico. Uno conflitto di importanza cruciale poiché esso testimonia di una guerra senza quartiere tra i ceti dirigenti della superpotenza statunitense e forse tra le oligarchie globali (transnazionali). Uno scontro interno prima di tutto alla classe dominante statunitense che è esploso dall’inizio del mandato trumpiano, dopo aver covato probabilmente per anni nel centro dell’impero globalizzante. Non ci si deve scordare infatti che tutta la Presidenza del costruttore newyorkese è stata caratterizzata da faide, inchieste, accuse che hanno visto contrapporsi il lunatico e gigionesco Presidente a membri del suo stesso governo o della sua equipe e, soprattutto, hanno visto contrapporsi Trump all’opposizione democratica che ha promosso varie indagini ufficiali su di lui (tra cui un impeachment con risvolti da giallo internazionale conclusosi in nulla, ora seguito dal secondo procedimento di messa in stato d’accusa, destinato ad acuire la polemica politica e sociale assumendo per una parte del popolo americano il significato di una vendetta piuttosto che di una misura volta a ‘ripristinare’ la legalità costituzionale). Si tratta perciò di uno scontro nel cuore dell’impero, come molti dicono o, forse più correttamente, nel centro del sistema-mondo capitalistico. Perché oltre l’ingombrante figura di “The Donald” la frattura che spacca la società americana è molto profonda e, per quanto enfatizzata dalla retorica violenta esercitata da Trump in questi 4 anni, essa è concretamente fondata su interessi materiali e bisogni esistenziali di un’ampia porzione della popolazione statunitense, che si contrappone a chi ha voluto vuole e architetta la globalizzazione economica. Infatti, chi si contrappone a Trump nella personificazione di Joe Biden non è quella Sinistra egalitaria, emancipatrice, democratica che vorremmo e che certo ha accresciuto il suo spazio con il movimento che ha visto nel senatore Bernie Sanders il suo interprete e che è rappresentato nelle sedi istituzionali da esponenti davvero interessanti come la Alexandria Ocasio-Cortez. Perché il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America è esponente di lungo corso di una èlite politico-amministrativa strettamente intrecciata con i centri di potere economico-finanziario (per definizione transnazionali) e le strutture profonde del complesso militare-industriale. Quella di “Deep State” è una definizione che non è stata coniata dal tycoon che ha presieduto fino a pochi giorni fa la repubblica statunitense ed è ben diffusa nella letteratura scientifica, indicando lo scheletro e le dinamiche essenziali del potere istituzionale, politico ed economico della società nordamericana. L’operazione mediatica che in maniera così ‘incompleta’ ci ha dato conto di questa fase della storia americana è poi in stretta connessione con l’impostazione culturale per cui gli USA sono non solo nostri alleati, non solo idealmente a noi affini (in quanto ‘occidentali’) ma anche esempio di democrazia, di rispetto delle libertà e di benessere esistenziale.
Qui non si tratta solo di porsi l’interrogativo su quale grado di sottomissione culturale sia la causa di questo meccanismo ma, ben oltre, su quale grado di controllo effettivo e di manipolazione consapevole sulle nostre agenzie formative viene messo all’opera. Poiché senza dubbio la battaglia delle idee, la contesa ideologica, passa anche dal controllo e dal racconto della ‘verità’ dei fatti, non stupisce che la manipolazione delle notizie sia parte integrante essenziale dell’agone politico e la letteratura in merito offre strumenti analitici e interpretativi sufficienti per costruire uno sguardo avvertito e non ingenuo. Ciò che stupisce è che in una società ‘democratica’, che così si autodefinisce, ci si aspetterebbe che tali processi di manipolazione e strumentalizzazione della verità pubblica fossero ridimensionati e contrastati da contrappesi, non solo giuridico-istituzionali ma prima di tutto culturali e civili. Radicati cioè nella cultura diffusa e nel senso civico comune. E invece nel nostro spazio pubblico, nella nostra sfera politica, pare che coloro che sono per ruolo professionale deputati maggiormente alla difesa dei luoghi della costruzione della coscienza collettiva siano i principali autori dei meccanismi di ‘controllo’ della circolazione delle risorse di sapere, spesso senza una consapevole azione ma in quanto partecipi di un processo di asservimento, per l’appunto, culturale. Cioè inconsapevoli funzionari di un ordine valoriale che struttura radicalmente le nostre comunità e che viene sottoposto a vaglio critico, il vaglio critico di un’opinione pubblica informata e autonoma, sempre meno. Prima di tutto da parte di coloro che per statuto dovrebbero essere il fulcro dell’attività di riflessione su sé stessa di una collettività, gli intellettuali. Come intendere il fatto che anche in questi giorni, come in questi anni, nonostante tutti i fatti che testimoniano delle gravi ingiustizie che contrassegnano il tessuto civile statunitense, delle profonde contraddizioni che segnano drammaticamente anche lo stesso complesso giuridico-istituzionale nordamericano, abbiamo sentito ripetere di continuo che i nostri sguardi sono rivolti alla democrazia americana? Che il Paese dove non è senso comune nemmeno che sia giusto avere l’assistenza medica garantita per tutti è il faro della democrazia? Come interpretare la superficialità con la quale si ripetono giudizi di ammirazione verso una società che si è costruita sulla legge del più forte e sulla segregazione razziale e in cui tutto ciò è talmente radicato nel sentire civile che le armi sono presenti in casa come se fossero racchette da tennis nonostante ogni anno si contino migliaia di decessi per incidenti con armi da fuoco? Come è possibile indicare come modello della democrazia uno Stato in cui la più alta carica istituzionale e buona parte delle più importanti funzioni pubbliche sono di fatto riservate solo a chi possiede un ingente patrimonio personale? E allora c’è da chiedersi se la cruenta battaglia che sta attraversando le fondamentali istituzioni del gigante americano, se la grave divisione che segna la società statunitense nelle sue articolazioni, statali locali territoriali, che gli osservatori meno disposti a dissimulare le asperità della realtà ritengono essere destinate a determinare la vita politica almeno per i prossimi anni[3], non sia l’occasione per tentare di uscire da quella cornice ideologica che dalla fine della seconda guerra mondiale ha reso l’Italia (e buona parte dell’Europa) ancella di una potenza che ben poco ha della “puissance civile” delineata da Norbert Elias[4]. Ammesso e non concesso che un’entità definita e caratterizzantesi per la propria dimensione imperiale, come esplicita da ultimo Lucio Caracciolo evocando lo spettro di ‘avventure’ militari della superpotenza per lenire le proprie ferite, possa esser concepita in qualche modo come un soggetto civilizzatore o come un esempio di civiltà.
[1] L. Caracciolo, Ormai il mondo è senza guida, La stampa, 8 Gennaio 2020.
[2] Rilevato dai commentatori più noti della carta stampata e della TV. Si leggano le interviste a Dan Gerstein e Alexi Zentner (su il manifesto dell’8 /1/ 2020) molto preoccupate per il futuro degli USA.
[3] Cfr. il numero 11/2020 della rivista Limes, intitolato Tempesta sull’America.
[4] N. Elias, La civilisation des mœurs, Calmann-Lévy, Paris 1973.
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