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Che cosa vogliamo dal nostro 9 febbraio? In commemorazione della Repubblica Romana
Nel 1943 Leone Ginzburg scrisse dal confino che l’«Italia in cui viviamo e operiamo non è pensabile senza il Risorgimento», il quale «manifestò assai presto un’originalità di tratti che lo contraddistinse tra i moti di liberazione e di unificazione dell’Ottocento», lasciando «un’impronta non facilmente cancellabile nella mentalità e nei costumi degli italiani»[i]. Purtroppo non è andata così. Come in occasione delle mancate celebrazioni della ricorrenza della Breccia di Porta Pia (20 settembre 1870), un silenzio pressoché generale avvolgerà il gruppetto d’irriducibili mazziniani che, in «direzione ostinata e contraria», il 9 febbraio 2021 si riuniranno, rigorosamente on line, per commemorare, in quasi totale solitudine, l’importanza di un evento chiave non tanto e non solo per la storia nazionale ma anche per una tradizione, quella risorgimentale e repubblicana, a cui la Costituzione italiana del 1948 si richiama in modo potente.
Che cosa avvenne il 9 febbraio del 1849? Che dopo essere stati eletti, via suffragio universale (maschile) dagli ex sudditi del decaduto Stato pontificio, i rappresentanti del popolo romano e italiano, riunitisi in assemblea, proclamavano cessato di fatto e di diritto il governo temporale del papato, e istituivano la Repubblica romana. Era l’inizio di un’esperienza politica di straordinario valore e significato: fu il primo evento popolare del Risorgimento in grado d’incarnare non tanto e non solo contenuti politici ed emancipativi ma anche elementi di ordine religioso lato sensu: il primo tentativo di praticare l’«unità» dal punto di vista mazziniano.
L’esperienza folgorante e drammatica della Repubblica romana fu essenzialmente “laboratorio mazziniano”, progetto istituzionale pensato come espressione della volontà popolare e leva educativa contro l’«infiacchimento morale degli italiani», così da elevarne la personalità umana e riscattare quello «spirito dell’Umanesimo dei secoli XV e XVI che aveva esaltato la dignità dell’uomo e il vivere libero e civile»[ii]. L’importanza del suo lascito, tuttavia, non può oscurare il fatto che la vicenda della Repubblica romana dimostrò, sotto più aspetti e per diversi motivi, come il mazzinianesimo fosse tutto tranne che una confusa dottrina per sognatori, utopisti e spostati. Pur senza eccedere in senso opposto, ovvero considerare Mazzini come un realista tout court, ciò che anzitutto gli andrebbe riconosciuto è che seppe mettere da parte gli scopi finali, anche arrivando a inibirsi l’apostolato repubblicano o a postulare l’alleanza con il Piemonte, come ampiamente dimostrato anche nel discorso tenuto all’Assemblea romana il 18 marzo 1849, quando ribadì la priorità assoluta della concordia come principio da far valere tanto nei lavori della Costituente quanto sul piano della “politica estera”. L’obiettivo nell’immediato, infatti, era ‘unità e indipendenza’ e quindi occorre che «tutti noi ci affratelliamo più strettamente, che tutti noi che abbiamo trovato finalmente un terreno comune» facciamo sfumare «anche le menome dissomiglianze che possono esistere fra noi, non sul concetto ma sul modo di spiegare e di promuovere il concetto repubblicano. Roma repubblicana militerà contemporaneamente a fianco del Piemonte. Le due bandiere hanno trovato anche esse, com’io vi dicevo per noi, un terreno comune. Le questioni di forma spariscono. Noi siamo, nella guerra fratelli»[iii]. In nome di questo obiettivo pratico Mazzini arrivò anche a sostenere l’idea che la Costituente dovesse limitarsi a scrivere dei principî generali perché una Carta rappresentava una minaccia al dinamismo dell’elemento rivoluzionario, popolare e nazionale. Mazzini temeva, insomma, che l’approvazione della Costituzione potesse dividere anziché unire le forze nazionali, che «legalizzando» il corso dell’iniziativa popolare in una Carta si sarebbe arrestato il movimento di liberazione: «Qualunque cosa statuisse i particolari (badate bene, non i principii) del modo con cui il Popolo Romano intende reggersi, tenderebbe a legalizzare il movimento, anticiperebbe sugli avvenimenti che possono succedere pendente la guerra o dopo la guerra, e restringerebbe la missione italiana di Roma»[iv].
Anche se i contrasti tra Mazzini e gli altri costituenti non mancarono – a generare tensioni fu anche la differente concezione dei rapporti tra Stato e Chiesa: a favore della separazione la maggioranza dell’assemblea, contrario il Mazzini, tenace propugnatore della complementarità tra ecclesia e res publica –, i principî fondamentali della Carta approvata dall’Assemblea erano fortemente intrisi di mazzinianesimo e delle sue istanze di trasformazione sociale e istituzionale. Non si trattava, perciò, di una Carta comunistica, non prevedendo né la redistribuzione delle terre ai contadini né lo smantellamento dell’istituto della proprietà privata (che, anzi, venne dichiarata inviolabile). Tuttavia, nei provvedimenti di legislazione ordinaria assunti nel corso della breve esistenza della Repubblica (la Costituente era anche organo monocamerale titolare di potestà legislativa e dei più importanti ambiti decisionali), si andarono a toccare nodi cruciali della società e dell’economia dell’ex Stato pontificio, in coerenza con quanto statuito al terzo dei principî fondamentali della Costituzione: la Repubblica deve promuovere «il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini». È qui perfettamente enucleata la concezione di eguaglianza del Mazzini; una concezione fortemente innovativa contemplata da una Carta che, inaugurando il tentativo di articolare un rapporto tra istituzioni e società – che poi sarebbe stato ripreso dalla Costituzione italiana del 1948 –, rappresentava un salto in avanti di notevoli proporzioni se ne commisuriamo il contenuto con quello delle Carte liberali ottocentesche in cui lo Stato si chiamava fuori da ogni responsabilità sociale. Del resto, l’articolo 3 del Decreto del 9 febbraio 1849 parlava esplicitamente della realizzazione di un modello di democrazia «pura», laddove l’aggettivo, che scomparirà dalla versione finale del testo (probabilmente per un banale errore di trascrizione), era inteso qualificare lo Stato in senso democratico-radicale. Non sorprenda che la Costituzione romana non contemplasse formule tese a sancire l’inviolabilità e la tutela dei diritti fondamentali del cittadino: tutte le Carte liberali del tempo ne erano egualmente prive. Si trattava, in sostanza, di una Carta avanzata sul piano politico e che, pur guardando alla Costituzione francese dell’anno III del 1795, non attribuiva a un unico corpo la sovranità ma definiva una distinzione funzionale tra Assemblea e Triumvirato. All’organo legislativo era affidato il controllo e la nomina dei membri dell’esecutivo, ma questo agiva a tutti gli effetti come un autentico governo. Una tale distinzione dei poteri rimase attiva anche quando, in conseguenza della guerra, vennero attribuiti poteri speciali al nuovo Comitato esecutivo composto da Mazzini, Armellini e Saffi.
La discordanza di vedute registrata in occasione della discussione sul senso stesso della Costituente (stilare o meno una Carta) andrebbe considerata anche alla luce della coerenza e fermezza del Mazzini rispetto al principio del necessario rapporto tra pensiero e azione. Una delle sue declinazioni pratiche, che peraltro rendono Mazzini ancora paradossalmente attuale nella sua patente inattualità, è la centralità dell’iniziativa popolare nella lotta politica. È questa la ragione per cui Mazzini non può concepire l’esperimento romano se non come momento di una generale azione di liberazione nazionale; azione che vede in Roma la capitale morale, spirituale e politica. L’obiettivo è portare a termine la creazione di un popolo, una nazione, una repubblica. Si badi che questa non è
una mera forma di governo, un nome, un’opera di riazione da partito a partito, da partito che vince a partito vinto. Noi intendiamo un principio; intendiamo un grado di educazione conquistato dal Popolo, un programma di educazione da svolgersi; un’istituzione politica atta a produrre un miglioramento morale[v].
In quei difficilissimi e tormentati cinque mesi di lavoro politico e militare alla guida della Repubblica romana, Mazzini non smetterà mai di credere in quei giovani che erano accorsi alla «Roma del popolo» dal resto d’Italia, pronti al sacrificio per la patria comune; di confidare nel fatto che stesse nascendo un primo nucleo di vita unitaria essendo in loro trasparente quella tensione morale senza cui non solo il patriota ma ogni essere umano sarebbe incapace di compiere scelte libere e autonome, e di diventare protagonista della propria storia. Allo stesso modo, Mazzini non dubitò mai che i rappresentanti del popolo romano, superando l’inutile e dannoso machiavellismo municipalista del ’48, erano divenuti dei precursori, i rappresentanti di un’intera nazione le cui deliberazioni e scelte normative erano destinate a divenire esempio e insegnamento per tutti gli Italiani.
Può ancora essere utile ricordare il 9 febbraio? Per quei pochi eletti che intenderanno celebrarne la ricorrenza sarà occasione di un rinforzo didattico: servirà a ricordar loro la necessità di intraprendere una battaglia contro l’ottusità di quell’oblio di sé che caratterizza il racconto nazionale; forse avranno occasione per riflettere amaramente sul tragico abbandono d’interesse alla politica da parte degli Italiani e sul fatto che quando la classe dirigente nazionale diserta le feste nazionali occorre seriamente interrogarsi se ancora sia rimasto senso di comunità e chiedersi se ancora le importi rappresentarlo.
Ogni ritualità eccede sé stessa. Il rito è concepito all’interno di un immaginario pantheon in cui ogni comunità si rende pensabile e tramandabile attraverso la propria autorappresentazione e il riconoscimento intersoggettivo tra pari. Nella tradizione repubblicana esiste una religiosità laica della nazione che consiste nel pellegrinaggio verso luoghi e nella celebrazione presso monumenti in cui poter celebrare la perenne vitalità della semantica del Denkmal. Come il monumento non è sempre e solo emblema del potere positivo dell’autorità costituita e può dunque fungere da collante tra il passato e il presente così da restituire senso all’agire individuale e collettivo, così può fare anche la memoria, quando vada oltre la mera riproposizione del passato e venga invece utilizzata cum grano salis per ricavarne quelle potenzialità ancora inespresse da giocarsi nel mondo dei possibili.
Perché non abbiamo cura di noi stessi? Perché il popolo italiano è come lo smemorato di Collegno sulla cui identità quasi più nessuno ormai s’interroga? Forse non è solo perché montalianamente la storia non è più «magistra di niente che ci riguardi» – consapevolezza inscritta nelle viscere stesse della questione postmoderna e delle sue finitime varianti, tra cui la cancel culture –, ma soprattutto perché il “noi” italiano è ancora un “noi” frammentato o scisso. La verità è che la “tragedia” dello schizofrenico racconto nazionale propostoci dal Secondo dopoguerra è oggi riproposta strumentalmente in una versione farsesca e largamente accreditata, quella che insiste su una radicale quanto artificiale contrapposizione tra sovranismo ed europeismo, come se in mezzo non vi fosse nulla: l’esperienza repubblicana e mazziniana della patria; di una patria democratica, tollerante, aperta all’Europa e al mondo, all’umanità. Proprio ciò che si vorrebbe e dovrebbe celebrare il 9 febbraio.
Il fatto di non riuscire più a sentire il legame con il Risorgimento non è ovviamente solo il frutto di una colpa nazionale ma dell’impari scontro che il superstite immaginario repubblicano e democratico sostiene nei confronti del globalismo imperante. La ragione neoliberale e transnazionale non solo svuota le prerogative funzionali delle sovranità democratiche nazionali del Novecento ma priva le collettività della capacità di recuperare l’oltre, il trascendente, la dimensione collettiva e ideale, che si deposita nei segni immanenti lasciati da una comunità nel corso della sua storia. L’obiettivo ideologico di tale ragione è fare tabula rasa dell’immaginario nazionale e di ogni differenza che si elevi in suo nome, da cui la desacralizzazione di ogni forma di religiosità (anche civile) in obbedienza al culto monoteistico del capitale.
Abbiamo ancora bisogno di Mazzini. Della sua idea che la forza morale sia il fondamento della sovranità popolare e del vivere civile. Che la storia sia fatta dalle nostre scelte e volontà. Convinzioni che non lo abbandonano, nemmeno a cose fatte. È convinto che la Repubblica romana sia caduta non perché inferiore militarmente ma perché non si è più creduto nella sacralità della sua difesa. Il 3 luglio Mazzini scrive alla madre:
Roma ha ceduto. Ceduto, mercè l’Assemblea. La posizione, militarmente era cattiva, ma poteva farsi una difesa di barricate tale da fare stupire il mondo. L’Assemblea non lo volle: un momento di paura ha perduto tutto. Quando fu ordinato di cedere, io diedi la mia dimissione, insieme a’ miei colleghi. Io proposi all’Assemblea se voleva rinunziare alla difesa di Roma, d’escire con essa, noi, l’esercito, la cassa, tutto il materiale di guerra, ogni cosa, e andare a combattere altrove. L’Assemblea non ha voluto[vi].
E noi, che cosa vogliamo dal nostro 9 febbraio?
[i] Leone Ginzburg, La tradizione del Risorgimento, Castelvecchi, Roma 2014, p. 31.
[ii] In questi termini Maurizio Viroli in ivi, p. 6.
[iii] Mazzini a Roma, a cura del Municipio di Roma, Centenari, Roma 1922, pp. 22-23.
[iv] Ivi, p. 22.
[v] Ivi, p. 12.
[vi] Ivi, p. 51.
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