Avevo promesso che avrei scritto un intervento sulla gestione medica dell’epidemia; sulle enormi complicazioni di una campagna di vaccinazioni che dovrebbe interessare la popolazione del mondo intero e la cui efficacia nei singoli paesi dipende da un insieme di fattori e di variabili difficilmente maneggiabili; sull’urgenza di concentrare gli sforzi sulla cura della malattia sperimentando terapie e farmaci non necessariamente nuovi ma adattabili allo scopo; sugli auspici espressi in tal senso da Didier Raoult e sul duello da lui ingaggiato con un colosso farmaceutico che ha speso i primi mesi della pandemia a pubblicizzare un prodotto, piuttosto caro, rivelatosi infine inutile e nocivo; sulle esortazioni di Alberto Zangrillo indirizzate a colleghi troppo deboli di nervi, seguite da baruffe mediatiche su cui campa gente di spettacolo che pretende di fare informazione; e sul possibile epilogo del dramma di cui siamo tutti protagonisti e testimoni: la fine della Grande Angoscia per decreto politico, non medico, con lenta e calibrata rimodulazione di test e dati sul contagio e sui decessi. Confesso, però, che sono restio ad aprire bocca. Chi vuole ragionare e informarsi si fa da solo un’opinione, basta mettergli in mano una documentazione sufficiente, cosa che La Fionda intende fare. Viceversa, chi non vuole ragionare aspetta solo l’intervento degli squadristi a mezzo stampa che stanno già picchiando con le loro penne-manganello uno dei più quotati microbiologi viventi e un medico di indiscutibile preparazione, accusandoli di incompetenza (!) se non perfino, con tipico stile fascistoide, d’esser rimbambiti. Il tribunale della storia rivelerà da che parte stava la ragione, non v’è dubbio. Ma di questo tribunale, non dimentichiamolo, se ne infischiano coloro che oggi negano il negazionismo, quello vero, utilizzando a sproposito la parola e coprendo la (fin qui) massima deturpazione dell’umano sotto la coltre della peggior stupidità – peggiore perché del tutto refrattaria alla ragione, e pertanto ignara, innocente, persuasa addirittura della propria superiorità morale. Eccolo, il segno infallibile dei tempi: l’idiozia dei benefattori. Che una simile idiozia sia cugina di quella che è stata etichettata, forse con un pizzico di superficialità, la “banalità del male” è ipotesi che potrebbe essere validata di qui a qualche tempo da rigurgiti improvvisi di antisemitismo (del cui ricordo non c’è traccia in chi adultera le parole utili a serbare la memoria) o da fenomeni più o meno analoghi. La violenza chiama violenza, all’idiozia risponde idiozia ulteriore, in spregio totale, sia prima che dopo, dei più elementari principi democratici. E non è forse una violenza ottusa, odiosa, inaccettabile quella che stanno subendo quanti non hanno più un lavoro e sono costretti a far la fila per un pasto lungo i marciapiedi che portano al più vicino centro Caritas?
Ma a che serve, poi, esprimere sdegno, sbottare di rabbia, protestare? Serve di più informare, dato che gli usuali mezzi di informazione non lo fanno e filtrano ciò che è permesso dire, respingendo il resto nella penombra dell’indicibile, del tabù reso esecrabile e risibile dai cantori di una scienza, vuoi l’economia vuoi la virologia, eretta a baluardo del potere. È evidente che con l’incubo della pandemia si sta ripetendo quel che abbiamo visto già accadere col sogno di un’Europa unificata da una singola moneta. La scienza cambia, ma la solfa resta la stessa: non ci sono alternative. E allora accendiamolo un riflettore sui rapporti tra scienza e potere, in attesa di vedere come andrà a finire. Il vantaggio dell’epidemia rispetto all’unione monetaria è che qualcuno dovrà porre fine, e piuttosto in fretta anche, alla situazione non più sostenibile che si è andata producendo. E se sarà realmente la politica a decretare d’autorità la fine dell’emergenza sanitaria, manipolando all’uopo test e dati, sarà chiaro che è la politica, non la scienza, ad avere consentito, giorno dopo giorno, che venissero lesi i nostri diritti basilari e venisse strappato un anno e più di vita a noi e ai nostri figli. Ciò, se non altro, consentirà di orientarsi meglio nelle dinamiche del nuovo secolo – non più il secolo delle guerre mondiali, bensì il secolo delle epidemie globali. Perché questa pandemia avrà fine, prima o poi, ma molto probabilmente non sarà l’ultima. Non c’è bisogno di essere virologi per prevederlo e intuire quali saranno le due proprietà fondamentali di virus e batteri che occuperanno le prime pagine dei quotidiani del futuro: elevati tassi di contagiosità e tassi di letalità relativamente contenuti. Una combinazione diversa o non riuscirebbe ad accendere o manderebbe subito in tilt la macchina biopolitica della governance pandemica sulla quale sono lesti a fare presa interessi economici e finanziari di portata gigantesca.
Certo, la politica non sarà stata l’unica responsabile. Perché i primi responsabili siamo noi. Ma noi chi? Servirebbe allargare l’orizzonte del discorso, servirebbero – vien da dire – filosofi, razza oggi in rapida estinzione. Servirebbe tornare a riflettere sul nocciolo della crisi attuale, che è un nocciolo ontologico. Il nulla è. Non è uno scherzo, anche se vien da pensare subito ai nostri governanti e ai loro ciambellani, a proposito dei quali resta valido il motto enunciato da qualcuno che aveva una certa esperienza degli umani: “Talvolta basta credere di essere, per essere”. L’enunciato il nulla è costituisce, in realtà, una proposizione filosofica che ha dato del filo da torcere a menti sopraffine, prima di diventare la cifra ultima, per quanto misteriosa, del tempo in cui viviamo. Dire che il nulla è non è molto diverso dal dire che il quadrato è rotondo, la sinistra è destra, il maschio è femmina, o dall’asserire che un medico sta facendo il medico quando si accalora e farfuglia ordini dagli schermi della televisione. Non pretendo che si capisca quanto sto scrivendo, ma voglio comunque darti, caro lettore, una breve illustrazione di quanto l’argomento ti concerna, qualora tu ti stia coccolando con l’idea di avere il sacrosanto diritto d’essere protetto dal contagio, costi quel che costi, in virtù della tua comprensibile, perché comune a tutti, paura della morte – tua e dei tuoi affetti. Il fatto è che per aver paura di morire, dovresti essere vivo. E su questo, senza offesa, mi permetto di nutrire qualche dubbio. Se il nulla è, allora “our is a science of a dead world”, scriveva un visionario, precisando: “L’enigma della Sfinge intorno all’uomo è altrettanto terrificante per noi oggi quanto doveva esserlo all’epoca di Edipo; anzi, oggi di più ancora, perché oggi è l’enigma di un uomo morto seppure ancora vivo, il che non si è mai dato nella storia”. Nella crisi ontologica che ci ottenebra, prefigurata con decenni d’anticipo da individui solitari – artisti, filosofi, matematici – e diventata oggi patrimonio condiviso dell’umanità, non è più possibile avere paura della morte: si può solo ricusare, rigettare categoricamente la possibilità e la realtà stessa della morte. Ed è ciò che tu fai – da morto quale sei – con puntigliosa, inflessibile determinazione. Inseguendo e distruggendo il virus, tu vuoi estirpare la tua morte, cancellando la tua vita. Nel far questo, hai abbandonato su scaffali impolverati quei libri di Lawrence, Debord, Adorno, De Martino e qualcun altro che ti aiuterebbero a capire come sia diventato possibile rinnegare la morte al punto tale da accettare, opzione un tempo intollerabile, che non si onorino più i morti. “Immobilisée dans le centre falsifié du mouvement de son monde, la conscience spectatrice ne connaît plus dans sa vie un passage vers sa réalisation et vers sa mort. Qui a renoncé à dépenser sa vie ne doit plus s’avouer sa mort… Cette absence sociale de la mort est identique à l’absence sociale de la vie.”
– Ma allora, confessalo, sei un negazionista?
– Stai usando di nuovo quella parola. Non ti vergogni neanche un po’?
– Lascia perdere le parole, tu stai negando che il virus esista, sì o no?
– Certo che no. Tutt’al più sto insinuando (a bassa voce e invano, beninteso) che il nulla non è; che molte delle misure adottate per circoscrivere il contagio sono inutili e socialmente devastanti; che la realtà è diversa da come ci viene raccontata e da come tu desideri, in fondo, che ti venga raccontata.
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