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La scuola sta morendo a colpi di “aziendalismo”
Nuovo governo, vecchia retorica: sono ricominciati i discorsi sulla necessità di introdurre riforme per attuare la “meritocrazia” nel settore dell’istruzione. L’ormai pluridecennale retorica della “meritocrazia” nel settore dell’istruzione non è semplicemente frutto dei pregiudizi sui “fannulloni del pubblico impiego” e il chiavistello propagandistico per introdurre logiche di mercato nel funzionamento amministrativo della scuola e dell’università: è anche e soprattutto la dimostrazione di un misconoscimento completo della funzione dell’insegnamento e della ricerca, una funzione che ormai viene pensata attraverso il filtro economicistico della produttività.
L’idea alla base della volontà di incentivare la “meritocrazia” è la consueta tesi liberale: la concorrenza è uno stimolatore di prestazioni, e se i fannulloni del pubblico impiego proprio non vogliono comportarsi da uomini economici che agiscono razionalmente e danno il massimo nel proprio lavoro, costringiamoli ad un po’ di competizione (sempre di più, piano piano attraverso le varie riforme) e vedrete come inizieranno a sgobbare avendo paura per la propria poltrona. All’antropologia liberale, che vede nell’essere umano un’entità egoista e razionalisticamente interessata a raggiungere il massimo col minimo sforzo, non passa neanche per l’anticamera del cervello che possa esistere un’etica professionale che porta le persone a dare il meglio nel proprio lavoro e a raggiungere risultati che non sono soltanto per sé ma anche per gli altri, cosa che è una consuetudine per chi dentro di sé sente la vocazione all’insegnamento e quindi decide di affrontare questo percorso professionale nonostante tutte le difficoltà del sistema italiano. Quella dell’insegnamento è una professione che si fa per spirito di servizio agli altri, per vocazione “filosofica” alla conoscenza, in un percorso di vita e di lavoro che necessita costante aggiornamento e applicazione. No: per la vulgata aziendalistica ed economicistica, gli insegnanti devono essere ridotti a forza lavoro precaria, stressata e costantemente in ansia, nonostante la precarietà sia un terribile contesto esistenziale per chi si dedica al sapere e all’insegnamento – immaginiamoci in quale stato psicologico gli insegnanti si interfacciano con giovani e adolescenti che si trovano in una complicatissima fase della propria crescita.
In teoria, secondo la vulgata liberal-aziendalistica, un assetto di mercato dovrebbe far corrispondere i risultati al merito, e cioè all’impegno, alla fatica passata, all’attitudine al lavoro. Tuttavia, come ben sa chiunque abbia studiato un po’ di teoria economica, in un ordine di mercato la meritocrazia è “oggettiva”: il che significa che i risultati sono il frutto tanto dell’impegno e della bravura personali quanto della fortuna e del caso, e più dello sforzo passato conta la soddisfazione del consumatore e la misura in cui si partecipa a questa soddisfazione. In un ordine di concorrenza, il produttore (in questo caso, di servizi di insegnamento) è sotto il giudizio del consumatore (lo studente che segue le lezioni). Ovviamente è chiarissimo a chiunque sia dotato di un minimo di buon senso che non tutte le dimensioni della vita e le professioni sono interpretabili secondo la razionalità economicistica, produttore – prodotto – consumatore: il mestiere dell’insegnante non è leggibile con questo filtro, e infatti le sue prestazioni non sono quantificabili numericamente. L’ossessione economicistica e aziendalistica della classe politica che da decenni approva riforme neoliberali nel mondo dell’istruzione ha pertanto prodotto una montagna di burocrazia necessaria a attestare, quantificare e dimostrare il presunto “merito” degli insegnanti: montagne di scartoffie che tolgono tempo allo studio e alla ricerca, all’aggiornamento delle proprie competenze e alla preparazione delle lezioni, che quindi peggiorano la qualità stessa della funzione d’insegnamento pur di produrre una quantità industriale di numeri e scartoffie che in realtà non dimostrano nulla se non la pazienza e la dedizione di chi si trova a compilare le pratiche burocratiche. È il paradosso di una teoria liberale, che diceva peste e corna della burocrazia sovietica, che poi si è trovata immersa nella stessa ossessione per il risultato quantitativo pur di estendere la razionalità economica a dimensioni della vita e del lavoro che, per il modo in cui funzionano, non si prestano a tale razionalità.
Le riforme della scuola degli ultimi decenni hanno ridotto gli insegnanti a fornitori di un servizio e a compilatori di scartoffie, con un peggioramento delle condizioni di precarietà lavorativa ed esistenziale: ci stupiamo se la qualità dell’insegnamento e il livello culturale delle giovani generazioni sono crollati negli ultimi tempi? Ci stupiamo se gli insegnanti sono trattati come dei pezzenti dalle famiglie e dagli studenti, non essendo più considerati delle autorità da rispettare bensì dei fornitori di servizi – e il consumatore, come ben si sa, ha sempre ragione? Sono le semplici e dirette conseguenze di voler pensare l’istruzione come un servizio economico. Le parole del neo-ministro dell’Istruzione, sulla necessità di fornire una “stabilizzazione temporanea” degli insegnanti precari, aggiungono semplicemente una patina di burlesca farsa ad una situazione profondamente drammatica.
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