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Il dito e la luna, ovvero la mutazione dei mezzi in fini nella società capitalista
Quando basta Gordon? Questa domanda contenuta nel film di Oliver Stone, Wall Street, è divenuta un po’ l’emblema di un capitalismo vorace, non solo a livello finanziario. Con la crisi sanitaria in atto, rischiamo di perdere l’ennesima occasione, dopo quella della crisi del 2007-2008, per ripensare e mutare il modello su cui si basano la gran parte delle economie del mondo globalizzato. Si rischia, insomma, di riscrivere un copione già recitato e che, tra qualche anno, verrà derubricato con il titolo le occasioni mancate. Di fatto, l’unico pensiero è quello di non dare limiti alla voracità del capitalismo e cercare di salvare capra e cavoli facendo finta di lavorare per l’interesse generale.
A dispetto del gran parlare, a 360 gradi, della necessità di un cambio di paradigma, sembra che, in realtà, la barra del timone per i comportamenti dei governi mondiali continui ad essere orientata secondo la direzione business as usual. Lo si vede, ad esempio, nella vicenda dei vaccini dove, nonostante gli ingenti investimenti pubblici, le necessità sanitarie della popolazione mondiale sono posposte alle esigenze di profitto delle case farmaceutiche. Ci si aspetterebbe che la formula dei vaccini fosse resa di dominio pubblico, cosa che potrebbe portare a un incremento della produzione mondiale e anche a un miglioramento delle formule e dell’efficacia grazie a un confronto aperto. Ci si sta comportando, invece, secondo lo schema desueto dell’egoismo individuale che, per la magia del mercato, dovrebbe rivolgersi in vantaggio collettivo. I fautori di questo pensiero, se non in malafede in quanto spinti da determinati interessi, dovrebbero ormai essere considerati alla stregua di bizzarri cultori di riti apotropaici e la vicenda pandemica sta dimostrando in tutta la sua drammaticità la fallacia di tale assunto. Chi continua a propugnare l’intoccabilità dei brevetti, perché altrimenti verrebbe meno l’impulso alla ricerca, sembra non vedere il trave nel proprio occhio e ignorare il fatto che il brevetto, attualmente (ma lo è stato anche in passato, vedasi la vicenda del vaccino contro l’AIDS), è il maggior ostacolo alla diffusione del vaccino su larga scala e alla salvezza di un maggior numero di vite umane. Di quale altra dimostrazione abbiamo bisogno per riportare la barra del timone della ricerca sanitaria, e della sanità tutta, sotto l’egida dello Stato e non in mano ad aziende dedite al profitto?
Nonostante i lamenti delle prefiche che piangono il fatto che, in realtà, il neoliberalismo non avrebbe mai preso piede nelle società occidentali, dove il mercato non sarebbe stato mai liberalizzato veramente e lo stato avrebbe mantenuto tentacoli in ogni dove, la cultura dominante è proprio quella neoliberale. Di questa, al di là degli effetti realmente determinati nelle politiche economiche, sono pregne le concezioni politiche dei maggiori governi mondiali. La cattura cognitiva che, a cascata, dalle facoltà di economia e da determinati think tank si è trasmessa, prima alle classi politiche poi alla società tutta, è tutt’ora quella che determina i comportamenti delle classi dirigenti delle nazioni del mondo. Persino dopo la debacle finanziaria del 2007-2008, che per molti doveva rappresentare il canto del cigno del capitalismo finanziario se non del capitalismo tout court, gli interventi successivi sono stati poco incisivi e hanno comunque risentito, per dirla con Maria Rosaria Ferrarese (Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario), di un contesto di un’economia politica quale si era venuta affermando dagli anni Settanta del secolo scorso e non hanno messo in discussione le capacità attribuite al mercato né gli assiomi fondamentali del neoliberalismo. Ancora oggi, di fronte a qualsiasi azione politica da mettere in campo, ci si preoccupa dell’atteggiamento dei mercati. Mercati che, abbiamo imparato, sono difficilmente identificabili coincidendo con un coacervo di persone fisiche, fondi istituzionali ma anche macchine e algoritmi che compiono operazioni di compravendita in frazioni di secondo. Per non parlare del fatto che la politica è stata squalificata in nome di una governance, ossia governo orizzontale e non più top down, che avrebbe dovuto accentuare libertà e democrazia negli stati ma che ha, in realtà, prodotto una sorta di rifeudalizzazione della società nella quale molti centri decisionali non hanno il vaglio democratico delle elezioni e molti altri sono addirittura strutture private con l’aura di una terzietà neutrale ed efficienza maggiori di quelle delle tradizionali istituzioni politiche.
In Italia tale percorso è iniziato con la crisi dei partiti politici seguita a Tangentopoli e ha visto venire alla luce governi in cui era la società civile ad entrare nelle stanze dei bottoni della politica, nella convinzione che governare un paese non fosse molto dissimile dall’amministrare un’azienda. Dagli anni Novanta, governi politici si sono passati il testimone con governi tecnici, confondendo il momento della decisione e della sintesi proprie della politica con quello dell’amministrazione degli strumenti tecnici funzionali a perseguire determinati obiettivi. Questi ultimi si sono sempre più eclissati e si sono confusi con gli strumenti; ossia i fini hanno lasciato lo spazio ai mezzi, assurti essi stessi al rango di obiettivi. Quindi il mercato capitalistico da mezzo è diventato fine così come è diventato un fine autoreferenziale quello di lasciare libere le forze concorrenziali, incuranti delle vittime che avrebbero prodotto.
Persino in tema ambientale stride il crescente grido d’allarme per il cambiamento climatico con le politiche che non sono affatto incisive nel porre risoluzioni a tale problema. Per non parlare poi dell’inquinamento che rischia di diventare la cenerentola delle politiche green, tutte volte alla decarbonizzazione. L’uso massiccio di pesticidi e sostanze azotanti in agricoltura è una delle cause della formazione di cosiddette zone morte negli oceani e, in sinergia con il cambiamento climatico, della moria delle api, delle quali solo ultimamente si sta divulgando la funzione essenziale nell’equilibrio dell’ecosistema. La dispersione della plastica nelle acque ha portato al risultato che tutti gli esseri umani ingurgitano plastica attraverso l’acqua potabile mentre gigantesche isole di plastica galleggiante sono ormai uno scenario non inconsueto negli oceani. La ricchezza di pesce nei mari è un sogno del passato e il genere umano, è convinzione degli scienziati, è responsabile della sesta estinzione di massa di specie animali. Ciò che prima era un portato di stravolgimenti naturali, ora è frutto dell’azione umana. Da qui il caratterizzare l’epoca attuale come Antropocene, ossia un’era fortemente caratterizzata dall’impronta umana sulla Terra. Anche se, in merito a tale definizione, alcuni autori hanno preferito attribuire determinate responsabilità a un ben determinato modello socio economico preferendo la definizione di Capitalocene. A questo punto, la lotta non sarebbe tra generazioni (quelle passate che hanno distrutto il futuro delle attuali) ma si tratterebbe di una nuova declinazione del conflitto di classe nel quale i fautori di un capitalismo selvaggio sono diventati egemoni e hanno fatto credere alla collettività che There Is No Alternative a tale modello e che tale paradigma sia funzionale al progresso delle stesse classi lavoratrici.
I cambiamenti climatici sono responsabili anche di molte delle guerre e degli attuali processi migratori. Laddove la terra si impoverisce e diviene inospitale per le persone, queste si spostano. E poiché le maggiori responsabilità delle modificazioni ambientali che avvengono nel Sud del Mondo, Africa e Sud Est asiatico in particolare, sono riconducibili alla produzione industriale delle economie avanzate non c’è nulla di più ipocrita che invocare politiche comuni volte al respingimento per far fronte alle crescenti migrazioni che invadono i paesi occidentali. Soprattutto se si pensa che solo una percentuale minoritaria di tali migrazioni riguarda i paesi ricchi, essendo per la gran parte migrazioni di confine. Se poi si consideri che tali migrazioni sono indotte da fenomeni di espropriazione e di Land Grabbing, ossia di furto della terra alle popolazioni locali da parte di multinazionali occidentali con la compiacenza di governi locali corrotti, allora il quadro a tinte fosche si fa completo e l’ipocrisia ancora più intollerabile. Si pensi al Congo, lacerato da conflitti tra bande e tornato alla cronaca a causa dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio; un paese che è stato definito uno scandalo geologico, ricco com’è di minerali e materie prime e alla cui ricchezza fa da contraltare la povertà dei suoi abitanti.
Se uno dei fari da tener presente, nell’evoluzione dell’uomo, è quello della libertà, non c’è maggior diritto alla libertà che quello di cercare la felicità, come afferma la costituzione statunitense e, quindi, a migrare per avere maggiori opportunità di conseguirla.
Se riflettiamo sul fatto che la migrazione non è fenomeno dissociato dai cambiamenti climatici, dalla disuguaglianza, dalla povertà e dall’espropriazione di popolazioni locali, allora non possiamo non inquadrare il fenomeno migratorio in un contesto più ampio e continuare ad agire secondo logiche meramente nazionali.
Cambiamenti climatici, disuguaglianza, povertà, un pensiero economico mainstream del tutto inadeguato a far fronte a tali problematiche, confusione tra mezzi e fini sono le questioni che Kate Raworth affronta magistralmente nel suo L’economia della ciambella, nel quale l’economista inglese visualizza, attraverso un semplice schema raffigurante una ciambella, i limiti entro i quali si deve muovere l’economia mondiale. Un testo che ha l’indubbio pregio di rimettere gli obiettivi al centro delle scelte economiche. Obiettivi che, come abbiamo detto, sono stati surrettiziamente nascosti o ignorati per mascherare i veri intenti delle classi dirigenti: quelli di una smodata accumulazione di ricchezza da parte di una minoranza. La ciambella è costituita da due cerchi concentrici: quello esterno rappresenta i limiti ambientali, oltrepassando i quali si produce il degrado dell’ecosistema e si crea un ambiente ostile a noi stessi; quello interno rappresenta la soglia minima delle necessità vitali degli individui. Attualmente, l’economia mondiale non è ricompresa all’interno dei cerchi, non garantendo il minimo necessario a una vita dignitosa di moltissime persone, persino all’interno delle economie avanzate, e sforando i limiti ambientali. Il che, in sintesi, significa che le esigenze di una minoranza assorbono, allo stesso tempo, sia le energie della maggioranza delle persone che quelle dell’ecosistema. L’economia della ciambella rappresenta l’equilibrio tra le due esigenze e un’economia efficiente dovrebbe mirare a raggiungerlo. Ma, per raggiungere tale obiettivo, bisognerebbe ribaltare quell’antropologia a fondamento dell’uomo nuovo teorizzato da Victor Lebow negli anni Cinquanta: un nuovo tipo di essere umano che si realizza attraverso il consumo massivo di merci deteriorabili. Il consumismo doveva assurgere a nuovo stile di vita; e così è stato.
Già negli anni settanta, gli scienziati del Mit, su impulso del Club di Roma che aveva chiesto di indagare quali fossero i limiti dello sviluppo, avevano offerto una diagnosi dei mali della nostra civiltà completa di soluzioni da prendere. I punti da affrontare erano, allora come ora, la crescita smodata della produzione industriale e dell’inquinamento ad essa legato, la crescita esponenziale della popolazione, la crescita del divario tra Nord e Sud del mondo, con un Sud che stentava ad avere il necessario per vivere e il nord che viveva oltre le proprie possibilità. Attualmente, le proposte dovrebbero essere grossomodo le stesse di allora: una riduzione della disuguaglianza attraverso un’innalzamento del tenore di vita dei paesi poveri e un ridimensionamento del tenore di quelli ricchi; un controllo delle nascite nei paesi poveri, anche attraverso la diffusione di massa dell’istruzione; un trasferimento delle tecnologie dal Nord al Sud del mondo per permettere a quest’ultimo di progredire senza ripercorrere le fasi inquinanti già sperimentate dal Nord. Ma, soprattutto, abbandonare il dogma della crescita. Sia perché questa e il parametro del Pil non sono affatto collegati al benessere delle società, nonostante quanto affermato dal mainstream economico, sia perché la crescita non può essere infinita e tende allo stato stazionario sul lungo periodo. Quello stato stazionario cui i paesi avanzati sarebbero già giunti (in tal senso Larry Summers) e che gli economisti classici, da Smith e John Stuart Mill, avevano previsto non in termini catastrofici ma in termini di maggiori opportunità per il progresso umano, dato che gli individui avrebbero potuto riorientare i loro interessi non al consumo smodato di merci di cui non hanno bisogno e per il quale lavorano oltre il necessario, ma verso le relazioni con gli altri, la cultura e il progresso sociale e morale. Sulla stessa linea d’onda era Keynes che prevedeva maggior tempo libero per gli individui grazie al progresso tecnologico che avrebbe sostituito le macchine agli uomini. Ma quest’ultimo punto, in una gestione meramente capitalista, in realtà desta più preoccupazione per i risvolti occupazionali che sollievo.
In conclusione, il mercato e la crescita, come anche la finanza, dovevano essere i mezzi per raggiungere l’obiettivo di affrancare le persone dalle immediate necessità materiali e permettere alle stesse, godendo di una maggiore ricchezza materiale, di dedicarsi a impegni più edificanti. Col passare del tempo, però, il mezzo si è trasformato in fine, la crescita e il consumo sono diventati la misura del tutto, il Pil, ad essi legato, il parametro per giudicare ogni cosa. La stessa ricchezza è diventata l’unico fine dell’antropologia neoliberale in voga nei paesi ad economie avanzate. In sostanza si è smesso di guardare la luna e ci si è concentrati sul dito, anche quando il dito non indica più alcunché. Il problema prioritario, per qualsiasi governo nazionale o mondiale, è la mancanza di una riflessione chiara su quali siano gli obiettivi da conseguire. Cosa vogliamo? Quale deve essere il rapporto fra le popolazioni del globo? Quale futuro immaginiamo sul lungo periodo? Quale Terra e quale ambiente immaginiamo per il futuro? Possiamo seriamente proseguire così?
Abbiamo capito che il mercato non può dare una risposta a queste domande. Che sostituire la concorrenza alla collaborazione produce meccanismi selettivi che ci fanno stare in un sistema di tensione o guerra permanenti. Oggi abbiamo le risorse tecniche, scientifiche e culturali per cambiare veramente paradigma. Abbiamo anche gli organi istituzionali a livello mondiale per coordinare il globo. Ciò che manca è, semmai, la volontà. Ma occorre riflettere sul fatto che chi vuole continuare nel modello business as usual è una minoranza e che, come osservava La Boetiè nel XVI secolo, il potere è quello che noi conferiamo al sovrano.
Dato che la Terra è unica e che siamo tutti sulla stessa barca è interesse unanime intraprendere la strada della collaborazione e della programmazione a livello globale. Insomma tutto il contrario di quanto propugnato dalla teoria neoliberale che, a dispetto dei propositi dichiarati, ci ha consegnato un globo più povero, più disuguale, più inquinato, meno sicuro, meno libero e meno democratico. Insomma, se il capitalismo ha fallito gli obiettivi, perché continuare a foraggiarlo?
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