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Ergastolo ai mafiosi: una misura a rischio depotenziamento
Gli amici de “LA FIONDA” mi hanno proposto di intervenire sul tema del cosiddetto ERGASTOLO OSTATIVO. Il tema è tipicamente poliedrico e per spiegare il mio personale punto di vista ritengo utile fissare e numerare (forse in maniera un po’ pedante) i punti fondamentali della questione. Addirittura 20.
1) Falcone prima di essere ucciso a Capaci aveva ispirato il cosiddetto “ergastolo ostativo” per i mafiosi, definito poi subito dopo le stragi del 1992, così da formare (col 41 bis e con le norme sui “pentiti”) un “pacchetto normativo” che è stato decisivo per gli imponenti successi ottenuti dagli inquirenti contro la mafia stragista.
2) Per la precisione, l’ergastolo ostativo (art. 4 bis O.P.) preclude la concessione dei benefici penitenziari al mafioso ergastolano che non collabora con la giustizia, nel gergo corrente che non si pente .
3) Si sostiene che, una volta finita l’emergenza, dovrebbe finire anche la normativa emergenziale. Senonché, se si può considerare sconfitta (almeno allo stato degli atti) la mafia stragista, la mafia come organizzazione criminale purtroppo è viva e vegeta. Soprattutto in questa stagione di pandemia, che spinge la mafia (col suo dna di sciacallo/avvoltoio pronto a sfruttare le disgrazie altrui) all’assalto dell’economia in difficoltà per impadronirsi dei settori in crisi. Ed è in questo contesto che va realisticamente inserito il problema dell’ ergastolo ostativo.
4) La Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo (13 giugno 2019) ha sentenziato che l’ergastolo ostativo non è applicabile ai mafiosi ergastolani, che pertanto sono ammessi a qualunque beneficio.
5) La decisione europea è stata seguita a ruota, il 23 ottobre, da una sentenza della nostra Consulta (n. 253/2019), secondo cui la mancata collaborazione con la giustizia non può impedire la concessione di “permessi premio” ai detenuti condannati al massimo della pena, anche per fatti di mafia e terrorismo.
6) In altre parole, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante, prima assoluta, ora diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza: “se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”.
7) Alla base del ragionamento della Consulta sta l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Non c’è dubbio che in linea di principio l’ergastolo può essere temperato concedendo alcuni benefici, ma ciò ha un senso solo quando si tratta di condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno. Non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili”, che non si sono pentiti e perciò vengono assoggettati al regime carcerario del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Non lo è ontologicamente, culturalmente e strutturalmente. Perché – lo dimostrano l’esperienza e gli studi più qualificati della identità mafiosa – quando si tratta di mafiosi non si può prescindere da due fatti incontestabili: essi giurano fedeltà perpetua all’associazione; e chi non si pente conserva lo status di “uomo d’onore” per sempre. Una realtà all’evidenza assolutamente incompatibile con ogni prospettiva di recupero, salvo che il mafioso – pentendosi – dimostri concretamente di voler disertare dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte.
8) La Consulta sostiene poi che “è corretto ‘premiare’ la collaborazione con la giustizia […] riconoscendo vantaggi nel trattamento penitenziario; non è invece costituzionalmente ammissibile ‘punire’ la mancata collaborazione, impedendo […] l’accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti”. E tuttavia alla Consulta si potrebbe osservare che il principio base – in astratto condivisibile – in concreto urta con un dato di fatto: non si tratta di “punire” la non collaborazione di un singolo, ma di “punire” la mafia come organizzazione criminale, tenendo conto – anche nel caso di specie, come sempre occorre fare – della realtà, che esclude in modo assoluto che il vincolo imposto possa cessare fuori dell’ipotesi di collaborazione.
9) Va dato atto alla Consulta di riconoscere esplicitamente la “forte intensità del vincolo associativo” mafioso, facendone discendere la conseguenza che le valutazioni in ordine agli eventuali “cambiamenti sia nel detenuto sia nel contesto esterno” debbono “in concreto [svolgersi] sulla base di criteri particolarmente rigorosi proporzionati alla forza del vincolo criminale di cui si esige dal detenuto il definitivo abbandono”.
10) Dunque, nessun automatismo nella concessione dei benefici, perché dovrà pur sempre esserci un giudice di sorveglianza a decidere caso per caso. Il giudice deciderà con l’ausilio delle relazioni delle autorità penitenziarie, del Cposp (Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica), del procuratore nazionale e distrettuale antimafia. Ma questo “materiale” risulta per lo più burocratico e di facciata, posto che – va ribadito – senza “pentimento” al giudice mancheranno segni esteriori di apprezzabile concretezza per poter valutare le possibilità di un effettivo distacco dal clan con conseguenti prospettive di recupero. Sicché le decisioni del magistrato di sorveglianza rischiano di essere una sorta di azzardo surreale, con fortissimi rischi di sovraesposizione personale.
11) La stessa Consulta precisa che “non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta buona condotta)”: difatti – aggiungiamo noi – soltanto Alice nel paese delle meraviglie potrebbe fidarsi del mafioso che rivendica come titolo valutativo quello di essere stato un detenuto modello, perché il rispetto formale dei regolamenti carcerari non equivale a un inizio di resipiscenza, ma è una regola che il mafioso “doc” si impone proprio in quanto irreversibilmente “doc”. Tantomeno basta una semplice dichiarazione di dissociazione”: atteggiamento tutt’affatto ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan.
12) Escludere gli automatismi comporta una delega pressoché esclusiva alla magistratura (com’è purtroppo costume…) di un segmento nevralgico del contrasto alla mafia, caricandola di responsabilità pesantissime. Difatti, se la Consulta stabilisce che i benefici si possono dare, agli occhi del mafioso – poco avvezzo ai “distinguo” – il giudice che li nega diventa un “nemico”. Lo diventa automaticamente (e anche questo automatismo dovrebbe preoccupare…), con tutte le possibili nefaste conseguenze di cui la storia di Cosa nostra è maestra, posto soprattutto l’irredimibile, storico interesse dei boss per i compagni detenuti. In ogni caso, un segnale di debolezza che la mafia potrebbe cogliere per avviare nuove, come dire, “scomposte” strategie criminal.
13) Le sentenze della Cedu e della Consulta (per quanto indubbiamente ispirate a nobili principi) sembrano soffrire di una sorta di “distacco dalla realtà”. In ogni caso infatti i diritti dei detenuti vanno bilanciati (con più attenzione di quanta, di fatto, finisca per emergere dalla Cedu e dalla Consulta) con le esigenze di tutela della collettività, messe a rischio di collasso proprio dal crimine organizzato di stampo mafioso. E ciò in Italia come in Europa, stante la diffusione capillare delle mafie.
14) A chi sostiene (giustamente, ci mancherebbe) che la Costituzione vale per tutti, si può osservare che essa non è un taxi da prendere solo quando fa comodo. Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3 cpv. su cui si fonda la Costituzione. E se vuole accedere ai benefici che la Carta prevede, deve dimostrare di essere davvero “rientrato” nella Costituzione. Altrimenti pretenderebbe benefici senza meritarli, e sarebbe sostanzialmente un abuso, quasi una truffa.
15) Veniamo all’attualità. Un nuovo caso è scoppiato dopo che, avendo un giudice di sorveglianza negato la libertà condizionale (in astratto fruibile dopo 26 anni di reclusione se vi è stato un “ravvedimento”) ad un ergastolano mafioso non pentito, la Cassazione ha investito della questione la Consulta che deciderà dopo Pasqua.
16) L’Avvocatura dello Stato (sorprendentemente: prima aveva sempre sostenuto l’infondatezza di questo tipo di ricorsi) ha chiesto alla Corte una sentenza che – senza dichiarare l’incostituzionalità della norma impugnata – la interpreti, nel senso che il giudice di sorveglianza dovrà verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa.
17) Ora, poiché l’Avvocatura rappresenta il Governo, questo suo ripensamento va appunto collegato al cambio di Governo. Resta comunque difficile capire come un delicato problema intrecciato a filo doppio con la lotta alla mafia possa esser diversamente valutato a seconda della bandiera che sventola a Chigi. La cifra con cui l’esecutivo si rapporta alla mafia dovrebbe essere sempre la stessa, tanto più se ci si vanta – come l’attuale Governo – di ispirarsi ad un sano pragmatismo.
18) La scelta dell’Avvocatura, francamente, sembra più che altro una specie di escamotage o di gioco degli specchi. Perché se manca il pentimento (unico elemento obiettivo che consente una valutazione affidabile), si brancola nel vuoto, nell’evanescente, nel non verificabile. Anche per quanto concerne le motivazioni del mancato pentimento che si dovrebbero “verificare”.
19) E’ facile prevedere che i legali dei mafiosi ergastolani sosterranno la tesi che questi non sarebbero liberi di scegliere di collaborare perché metterebbero in pericolo l’incolumità propria e dei loro familiari. Ma l’obiezione urta contro la constatazione che ormai da anni lo Stato italiano ha dimostrato coi fatti di essere in grado di proteggere migliaia di pentiti e le loro famiglie.
20) In sostanza c’è il pericolo che dopo Pasqua possa arrivare un’altra robusta spallata all’ergastolo ostativo e di riflesso al pentitismo, non più decisivo per i benefici. Dunque una spallata a due collaudati caposaldi dell’antimafia. E non è per niente un lusso che ci possiamo permettere.
So bene che mi sono guadagnato una grandine di accuse, tipo forcaiolo e manettaro. Ma proprio le vittime di mafia ci hanno insegnato che indipendenza significa fare quel che si ritiene giusto. Anche se ci sono tante “anime belle” che vorrebbero altro. Del resto, che qualcosa possa non funzionare per il verso giusto è stato recentemente confermato dal caso di Antonio Gallea. Condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, fruisce di vari permessi premio e della semilibertà. Ma approfitta dei benefici per rientrare in posizioni di rilievo nell’organizzazione criminale (Stidda), facendo valere proprio i suoi 25 anni di detenzione senza aver mai collaborato.
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