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Il divorzio fra “dottori” e “popolo”: la lezione (quanto mai attuale) di Ernesto Sábato


28 Mar , 2021|
| 2021 | Terza Pagina

Il divario sempre più profondo tra élite e popolo è uno dei temi ricorrenti nel discorso pubblico contemporaneo. Si tratta di una frattura che insiste su più livelli, poiché lo scollamento è ormai evidente sia sul piano economico che su quello politico e sociale. Eppure oggi tutto, a partire dai nuovi mezzi di informazione e intrattenimento, diffonde la convinzione che il divario possa essere facilmente colmato, creando l’illusione che esista una via facile e percorribile da chiunque per venire alla ribalta, per scalare la piramide; la realtà tuttavia contraddice questa narrazione, e la tensione costante fra le promesse di partecipazione e protagonismo e l’effettiva immobilità sociale alimenta una sensazione generale di sfiducia, di impotenza, di spossessamento.

La crescita delle diseguaglianze sociali, l’impoverimento e l’in­sicurezza delle classi medie, lo smarrimento di chi è privo degli strumenti economici e culturali per sostenere le sfide e i problemi del mondo globalizzato sono all’origine di un rancore sociale che frammenta la società e conte­sta radicalmente l’egemonia delle èlite politiche e intellettuali.

Sul piano politico questo si traduce in una maggiore fluidità del corpo elettorale, che è meno prevedibile negli orientamenti, molto più disposto che non in passato a rinegoziare i vincoli di fedeltà a opinioni e scelte di campo, anche a costo di abbandonarli. Se fino a qualche decennio fa la competizione dei partiti per il potere avveniva in nome di valori e culture politiche collocabili al di qua e al di là del discrimine destra/sinistra, negli ultimi tempi lo scontro appare piuttosto dislocato tra l’alto e il basso, tra l’élite e il popolo, tra le forze politiche riconducibili all’establishment, al rispetto dei vincoli di compatibilità, e chi si percepisce invece fuori del recinto, nelle periferie del disagio e dell’esclusione.

Leggendo L’altro volto del peronismo di Ernesto Sábato, tradotto e curato da Alessandro Volpi per la Rogas Edizioni, si resta colpiti dalla straordinaria analogia tra le questioni evidenziate dall’autore rispetto all’Argentina del suo tempo e quelle con le quali ci troviamo a confrontarci oggi. In questo breve saggio, pubblicato inizialmente nel 1956 col titolo El otro rostro del peronismo e mai riedito finora, viene infatti sviluppata in forma di lettera aperta una lucida riflessione sulle dinamiche del regime populista appena rovesciato, e si evidenzia in maniera impietosa il “divorzio”, in primo luogo culturale, prodottosi fra i “dottori”, ossia l’intellighenzia progressista, e il popolo argentino.

Nel settembre del 1955 un colpo di Stato passato alla storia come Revolución Libertadora aveva posto fine alla lunga e controversa presidenza di Juan Domingo Perón. L’evento era stato acclamato entusiasticamente dall’opposizione democratica, nelle cui fila figurava lo stesso Sábato, che nelle sue pagine definisce Perón come un «demagogo che impugna le bandiere dell’antimperialismo e della giustizia sociale». Allo stesso tempo, il grande scrittore argentino riconosce che «se nel peronismo c’erano forti ragioni di disprezzo o di derisione, c’erano anche molte ragioni storiche e di giustizia», per cui sarebbe errato «identificare l’immenso movimento con crimini, ruberie e avventurismo». In effetti l’appoggio e talvolta la devozione che il popolo aveva assicurato a Perón non possono essere liquidati come l’adesione di una massa incolta al progetto autocratico di un leader manipolatore; occorre invece ammettere che il peronismo «porta in sé (…) una richiesta di riconoscimento, di eguaglianza, a cui tutti gli altri soggetti erano stati sordi».

Il monito di Sábato è allora quello di interpretare correttamente il “fatto peronista”, che non fu solo «demagogia e tirannia, ma anche l’avvento del popolo diseredato nella vita politica della nazione. Non solo l’apparire dell’istrionico spettro di un gran demagogo, ma anche il tumultuoso ma istruttivo spettro delle moltitudini lavoratrici. (…) Era quell’ansia di giustizia e riconoscimento che prepara sempre il cammino dei redentori. O dei demagoghi». Questo spiega la reazione emotiva delle masse popolari alla notizia della caduta di Perón: quell’ondata di sincera commozione, la scoperta che, mentre gli oppositori esultavano, «milioni di diseredati e di lavoratori stavano versando lacrime in quegli istanti, per loro duri e tetri», rivelava platealmente l’equivoco epocale in cui gli antiperonisti erano caduti, la frattura alto/basso che si era consumata fra le élites democratiche e le «masse informi (…) senza coscienza, senza preparazione politica e senza spirito sindacale» che nel colonnello avevano riposto le loro speranze di riscatto.

Il problema, nota giustamente Sábato, era che per le forze democratiche di sinistra (compresi comunisti e socialisti) il popolo di Perón non esisteva, e se esisteva era poco più che «immondizia», una plebe senza volto da consegnare «allo scherno, alla beffa, al bon mot mondano». La denigrazione delle masse e l’incomprensione dei fenomeni politici argentini furono di fatto i due tratti salienti del movimento antiperonista.

Gli intellettuali progressisti, per dirla con le parole di Sábato, si erano «separati dal popolo, nella medesima forma, e con le stesse conseguenze, in cui il razionalismo cercò di separare lo spirito puro dalle passioni dell’anima». E questa scissione, come osserva Alessandro Volpi nella sua densa introduzione al saggio, «affonda le radici nello stesso processo di nation building argentino», caratterizzato dalla «contrapposizione fra una natura passionale, irrazionale, caudillesca della politica che aveva caratterizzato lo spirito profondo della nazione, e una razionalista, europeista, esterofila dei suoi intellettuali. Dottori (ed élites in generale) contro popolo, razionalismo contro irrazionalismo».

L’analisi critica del peronismo implica quindi una valorizzazione della «dimensione mitico-simbolica e libidinale» (da notare i riferimenti nel testo al gauchismo e al caudillismo), ossia del ruolo delle emozioni nello spazio politico. Tale concetto verrà poi recuperato – come ricorda ancora Volpi – da un altro grande argentino, Ernesto Laclau, il quale sottolineerà l’importanza di mobilitare a fini politici la sfera libidico-passionale, facendo appello non solo alla testa e alla pancia ma anche al cuore delle persone. Del resto lo stesso Laclau già negli scritti giovanili, che riflettono la fase marxista del suo pensiero, parla di «relativa continuità» delle «tradizioni popolari», segnalando come certi movimenti dal basso che non rientrano a pieno titolo nella dinamica di classe (vedi il peronismo argentino) possano comunque connettersi con le lotte di popolo organizzate secondo criteri marxiani[1].

I popoli, sostiene Sábato, «non possono essere giudicati unilateralmente solo sul lato delle virtù razionali, della parte luminosa e pura, degli ideali platonici. Così lasceremmo fuori il lato forse più profondo della realtà, quello che ha a che vedere con i suoi miti, con la sua anima, il suo sangue e i suoi istinti».

Questa è una lezione quanto mai attuale: l’orizzonte materiale degli interessi e dei rapporti di forza va tenuto assieme al piano simbolico-culturale, che rappresenta oggi un terreno ineludibile di battaglia politica, stabilendo una dialettica progressiva fra fattori politici e prepolitici. Guardando allo scenario a noi più prossimo, non è forse stata l’Europa un terreno di scontro tra simboli, il luogo di una frontiera mobile, al di là e al di qua della quale si sono formate soggettività fluttuanti, tutte alla ricerca di miti e significanti universali in cui immedesimarsi? Ha ragione Volpi quando afferma che il testo di Sábato mostra la «fecondità del contesto socio-politico argentino e dell’enigma peronista (…) per pensare la nostra contemporaneità europea e, in particolare, del meridione d’Europa».

La forza di Perón e della sua politica stava quindi nella capacità di far riemergere il «lato pulsionale del popolo argentino, che non doveva essere denigrato, ma compreso, perché il suo risentimento era il prodotto di ragioni storiche ben definite». Infatti in un Paese sconvolto da una serie di cambiamenti sociali vertiginosi, come mai era accaduto prima «in centocinquanta anni di storia», covava uno stato diffuso e profondo di risentimento, a cui si accompagnava «una precoce e amara perdita di fede nelle grandi parole e una dolorosa disillusione rispetto alla maggior parte degli uomini che gestivano la cosa pubblica». Si era prodotto uno stato di profonda divisione all’interno del tessuto sociale, che portava Sábato a chiedersi «se fossimo ancora una patria, se fosse vero che quei milioni di figli di gringos che vivevano a Buenos Aires avessero qualcosa in comune con quei gauchos». C’è il «rancore del gaucho contro l’oligarchia esterofila di Buenos Aires, che con o senza ragione storica, lo condanna alla miseria, alla delinquenza e all’esilio nella propria patria» che «si deve coalizzare dialetticamente con il rancore del gringo verso le classi alte del paese». Sullo sfondo «l’abisso sociale fra l’antica classe aristocratica e la massa dei peones e indios. E in questo modo, al secolare risentimento dell’indio sottomesso, si aggiunse quello del lavoratore moderno – bianco, indio o meticcio – verso i potenti padroni delle piantagioni di mate e di quebracho e degli zuccherifici».

Naturalmente Sàbato non manca di additare i veri responsabili di quella lunga crisi che aveva aperto la strada al peronismo: alla base di tutto c’era la «penetrazione imperiale incontrollata e infine onnipotente» che, con la complicità delle classi dirigenti esterofile, «ha esposto al pericolo del naufragio la nostra incipiente nazionalità nell’anonimo oceano del cosmopolitismo. (…) E così, per opera di un vertiginoso processo economico e sociale, per opera dell’imperialismo e dei suoi alleati autoctoni, per opera di politici cinici e accondiscendenti, il popolo argentino finì nel rancore e nella disillusione».

Il colonnello Perón seppe cogliere questi sentimenti, interpretarli e dar loro forma: chi guardava a lui (compresi i sindacati più forti, come quello del settore ferroviario) era animato «da fervore spirituale», da «una fede parareligiosa in una guida che gli parlava come a esseri umani e non come a paria,» di contro «a una società egoista e fredda, che sempre li aveva dimenticati».

L’opposizione democratica non fu invece capace di intercettare il malcontento concreto e si raccolse intorno a parole d’ordine vaghe e astratte «sulla libertà e la democrazia», che non arrivavano a toccare il cuore delle classi popolari (ancora oggi noi vediamo che l’appello ai valori costituzionali, se non è iscritto dentro un orizzonte di senso condiviso, suona inevitabilmente retorico e non produce gli effetti sperati). Socialisti e democratici mostravano una maggiore propensione a rappresentare le «aspirazioni della classe media illuminista e dell’aristocrazia operaia che i sentimenti della moltitudine», mentre i comunisti «cercavano di traslare astrattamente – come tutti gli ideologi – le teorie e i procedimenti europei nella singolare struttura sudamericana».

«Con certi leader della sinistra è successo qualcosa di così grottesco» scrive Sábato in uno dei suoi passaggi più significativi «come quei medici che si arrabbiano con i loro pazienti se questi non migliorano con le cure che gli hanno prescritto. Questi leader hanno raggiunto un risentimento quasi comico – se non fosse tragico per l’avvenire del paese – verso le masse che non sono progredite dopo tanti decenni di trattamento marxista. E quindi le hanno insultate, le hanno definite feccia, cabecitas negras, descamisados: questi epiteti furono inventati dalla sinistra prima che machiavellicamente il demagogo li usasse con simulato affetto».

La critica dello scrittore argentino alla élite della sua epoca suona di drammatica attualità se pensiamo alle classi dirigenti del nostro Paese, da tempo incapaci di ragionare in termini di interesse nazionale perché prigioniere, anche a causa di una condizione di separatezza dai ceti popolari, di un’interpretazione subalterna e acritica del cosiddetto vincolo esterno. Questo è un segno, direbbe Gramsci, del distacco tradizionale «degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale». Infatti, come abbiamo già notato, il contesto sociale descritto da Sábato rivela notevoli affinità con quello del tempo presente: le condizioni che allora determinarono l’affermazione del peronismo sono in parte le stesse che hanno favorito negli ultimi anni la cosiddetta insorgenza populista, la quale, per come si è presentata in Italia e in altri Paesi europei, ha rappresentato sostanzialmente una reazione a quei processi di svuotamento della sovranità democratica dall’alto e di sradicamento sociale in basso ai quali abbiamo assistito nei decenni scorsi.

Se guardiamo al Sud America, quelle condizioni sono tanto l’esistenza di una minaccia esterna contro il principio democratico di autodeterminazione, quanto la minaccia interna rappresentata dalle èlites locali che concentrano su di sé livelli insostenibili di potere e ricchezza; a ciò si aggiunge l’assenza di quell’articolazione in blocchi e classi sociali che l’Europa ha conosciuto durante l’ultimo secolo. Anche nel nostro Paese ci siamo confrontati e continuiamo a confrontarci con una situazione analoga: qui la minaccia esterna c’è e si chiama “spread”, “pilota automatico” messo in moto dalla tecnocrazia europea, “principio d’autorità dei mercati”, “vincolo esterno” delle compatibilità europee e dei processi di globalizzazione neoliberale, mentre la minaccia interna è data dai processi di concentrazione di potere e risorse in mano a gruppi sempre più ristretti, che hanno causato un drastico allargamento della forbice fra le fasce più ricche e quelle più povere della popolazione. E anche da noi c’è l’aggravante di un fenomeno di polverizzazione sociale, che assieme alla crescente svalorizzazione del mondo del lavoro ha provocato un grave allentamento del vincolo politico fra i cittadini e la messa in discussione dei fattori principali di integrazione e inclusione sociale.

In ogni caso, l’appello al popolo di Perón contiene – agli occhi di Sábato – un inganno, perché lascia intendere che «il popolo argentino fosse unicamente la massa dei diseredati, e che il resto dei milioni di abitanti del paese fosse un nulla». Si tratta – potremmo dire noi – di una semplificazione retorica che però ben si attaglia a una società dalle identità fluttuanti, laddove i confini tra le diverse configurazioni di classe siano molto sfumati o siano andati del tutto perduti. Il contesto tipico in cui una simile strategia attecchisce è quello di una generale disintegrazione sociale, caratterizzata dall’imborghesimento dei ceti proletari e dalla proletarizzazione della borghesia, nonché dalla perdita di status della piccola borghesia che resta schiacciata tra le èlite e i nuovi poveri.

Resta il fatto che qualunque fenomeno che abbia un referente nel “popolo” è una costruzione politica e non il riflesso automatico di una struttura sociale già data: più che un’entità sociologica reale, al concetto di popolo corrisponde – direbbe Laclau (facciamo dialogare anche in questo caso i due grandi argentini) – una vera e propria costruzione politico-lessicale con effetti performanti, un nome che provoca la nascita del suo oggetto reale nel momento in cui lo nomina. Non ci sono insomma costanti sociologiche né soggetti già definiti da una qualche struttura della società senza l’intervento della politica[2]. Né esiste la società nel senso di una totalità costituita in partenza, perché abbiamo a che fare – seguendo ancora Laclau – con un campo percorso da faglie e antagonismi parziali che solo in caso di egemonie riuscite possono condensarsi assieme. Non è possibile individuare automatismi in grado di costituire a priori l’azione degli attori del conflitto sociale. È la politica il solo discorso capace di unificare le tante domande, le rivendicazioni parziali che attraversano il corpo sociale. D’altra parte, se la categoria di popolo intendesse realmente la totalità dei membri di una società, non ci sarebbe alcun vantaggio nell’utilizzarla in sede politica. Va pensata piuttosto come lʼeffetto di una frattura nel corpo sociale, in seguito alla quale una sua parte si costituisce come un tutto per esprimere la sua carica antagonistica nei confronti di unʼaltra parte percepita come avversaria.

Abbiamo visto come la frattura fra élite progressista e masse popolari sia un tema che accomuna le pagine del testo di Sábato alla realtà politica dei nostri giorni. Eppure in passato l’Italia ha ospitato l’esperienza originalissima di un partito popolare, il PCI, legato in maniera non episodica agli interessi e alle aspirazioni di larghe masse di lavoratori italiani; un’esperienza probabilmente irripetibile nella società attuale, ma di cui, pur con tutti i suoi limiti, col passare degli anni si avverte sempre di più la mancanza e l’assenza. Il rapporto che quel partito seppe instaurare con la società, almeno col suo elettorato di riferimento, è stato così intenso da dar luogo a un sentimento che Biagio De Giovanni ha definito significativamente “una malinconia”: una sorta di nostalgia per quella “ricchezza di umanità” che si respirava al suo interno e che nel tempo (già ben prima della fine della sua avventura storica) si è avvertita stemperata e persa. Col passare dei decenni la differenza comunista, il sentirsi “Paese nel Paese”, è degenerata in una sorta di aristocraticismo perbenista: se quella diversità non poteva più farsi maggioranza era perché la maggioranza era irrimediabilmente perduta, e quanto più si deponevano (più o meno consapevolmente) gli strumenti per incidere nella realtà e si affievoliva la “fede politica” iniziale, tanto più quella perdita veniva compensata con un senso di superiorità morale e antropologica sempre meno fondato e giustificato. Nel frattempo cambiavano sia i volti del corpo militante e dirigente (estrazione sociale, riferimenti, immaginario e stili di vita mutavano a ogni passaggio generazionale) sia il blocco sociale di riferimento: la nuova base era costituita dai ceti medi (anche medio-alti) “riflessivi”, come ebbe a battezzarli lo storico Paul Ginsborg, ovvero dagli strati forti del sistema sociale, dai pochi moderati integrati (quelli che pensano e parlano bene, perché in fin dei conti vivono bene) piuttosto che dai tanti arrabbiati esclusi, penalizzati, proletarizzati.

Oggi, per comprendere la voce di chi sta in basso, andrebbero ripensate le categorie analitiche con le quali vengono interpretati tanto i fenomeni contemporanei quanto le questioni che maggiormente intersecano le condizioni di vita dei ceti popolari, superando schematismi e fughe nell’astratto, interessandosi ai bisogni e alle aspirazioni riguardanti la maggioranza delle persone, assumendo, senza aderirvi in maniera irriflessa, il punto di vista di coloro che si intende rappresentare. Ma per fare questo si dovrebbe – per dirla con Gramsci – «rimanere a contatto coi “semplici” e in questo contatto trovare la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Invece l’atteggiamento prevalente del mondo intellettuale progressista è ancor oggi «di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana […] Vede con occhio severo tutto il popolo, trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo».

Bisognerebbe perciò liberarsi da quello che sempre Gramsci chiama «l’errore dell’intellettuale», che «consiste (nel credere) che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo (…) non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione».

Il ritorno al “popolo delle periferie” non può insomma essere praticato da un ceto politico-intellettuale che, quale nuova avanguardia, si attribuisce il compito di rappresentare quel mondo senza esserne minimamente parte, senza stabilire con esso una «connessione sentimentale» autentica e fedele, senza riconoscere gli elementi di verità presenti al suo interno; in altre parole senza aderire alla sua vita più intima e concreta, senza praticare una «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità», «per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe definire di filologia vivente».


[1] E. Laclau, Politics and Ideology in Marxist Theory: Capitalism, Fascism, Populism, 1977. Già F. Engels (Lettere 1883-1887) prestava grande attenzione ai canti di lotta, alle melodie del 1848, agli inni che non devono essere «la poesia delle rivoluzioni passate (sempre esclusa la Marsigliese) che raramente ha un effetto rivoluzionario per le epoche successive perché, per fare effetto sulle masse, deve rispecchiare anche i pregiudizi di massa dell’epoca (…) da qui le sciocchezze religiose presenti persino nei cartisti».

[2] Tanto più se si tratta di ricomporre e organizzare ciò che non si trova più ordinato e sistemato a livello di società (nel momento in cui dai luoghi e dai ruoli legati al mondo del lavoro non scaturiscono identità e blocchi sociali consolidati). Se la società non contiene più elementi unificanti e strutturanti al suo interno, questi elementi devono in qualche modo provenire dall’esterno.

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