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Considerazioni e interrogativi virali
Dico subito, al fine di non essere frainteso come oggi si tende a fare in presenza di riflessioni critiche intorno alla pandemia, che tutti i ragionamenti e gli interrogativi che qui di seguito proporrò, hanno come base i dati e i provvedimenti che conosciamo, così come vengono comunicati dalle diverse fonti di informazione, senza discuterli.
Cominciamo con i dati in base ai quali si prendono le misure “colorate”. La situazione peggiore è quella che corrisponde all’indice Rt uguale ad 1,25 che corrisponde a 250 persone infette su 100.000. La domanda è: perché non aggiungere la considerazione immediatamente speculare che 99.750 persone sono sane? Perché sottoporre a restrizioni varie queste 99.750 persone a causa delle 250 infette? Non si potrebbe isolare queste ultime in luoghi attrezzati allo scopo?
Vi è una riflessione aggiuntiva. I numeri mediaticamente comunicati ai cittadini sono privi di una qualsiasi documentazione che possa costituire una certificazione legale, tant’è che talora vengono commentati come possibili per difetto. Il che significa che sono incerti, sia per difetto, ma anche per eccesso: l’incertezza è “incertezza”, e vale dunque in entrambe le direzioni. Ne segue, logicamente, che adottare provvedimenti restrittivi, costituzionalmente assai delicati, senza fornire ai cittadini, ancora oggi, ad un anno dall’inizio del primo confinamento, una documentazione legalmente certa dei dati che li giustificano, appare un modo di governamento della situazione non rispettoso della intelligenza dei destinatari.
Ancora e proprio in virtù della discrasia numerica che ho segnalato, perché parlare solo delle ospedalizzazioni di diversa gravità e non diffondere, con uguale insistenza, la prescrizione di un pronto-soccorso farmacologico, che esiste, da tenere in famiglia? Perché non consigliare, con la medesima frequenza che vediamo negli spot pubblicitari, quegli integratori che svolgono un accrescimento delle difese immunitarie? Non sembri una riflessione leggera. Essa mi sembra giustificata, perché in un mondo pervaso dalla performatività sociale della informazione mediatica, accanto a notizie allarmanti si potrebbero fornire indicazioni psicologicamente e fisiologicamente utili.
E vengo alle “chiusure” di diverso ordine e grado. Che esse fino ad oggi non abbiano sconfitto il virus né lo abbiano efficacemente limitato nella diffusione è sotto gli occhi di tutti. Allora sono da considerare alcune questioni collegate ai provvedimenti restrittivi come conseguenze… “fisiologiche”. Già lo scorso anno, in occasione del primo confinamento (detto all’inglese “lock down”), ebbi a notare che misure di questo tipo possono essere assunte per brevi periodi, come mezzi di contrasto emergenziali, ma non possono divenire meccanismi di “sistema”, perché producono effetti sociali devastanti: la sottomissione paurosa e depressiva e, all’opposto, la ribellione aggressiva. In più, possono produrre altre patologie dell’organismo: è di questi giorni la denuncia effettuata dall’Ospedale Bambin Gesù di Roma circa una diffusa anticipazione della età della pubertà tra i bambini (soprattutto di genere femminile) con effetti negativi sulla crescita. Ciononostante si è continuato a seguire il metodo delle chiusure, accompagnate da un adeguato allarmismo mediatico, cui inevitabilmente corrisponde, al momento delle “aperture”, i tanto vituperati, sempre mediaticamente, “assembramenti”, primi fra tutti quelli generati dalla “movida”. Voglio essere chiaro: io non intendo assolutamente contestare che gli “assembramenti” siano estremamente pericolosi; intendo invece sottolineare che essi sono la normale (e assolutamente, quindi, prevedibile) reazione alle chiusure. Basta avere in mente cosa accade quando si rompe una diga: una terrificante alluvione. Se si procede nel governo dei comportamenti sociali con un sistema di dighe le conseguenze inesorabili sono i fenomeni alluvionali e non solo comportamentistici, ma anche psicologici. Quanti comportamenti, che non si terrebbero nella quotidianità normale, si affermano invece in condizioni di reattività liberatoria! Quindi, a ben considerare, le chiusure non solo non combattono efficacemente il virus, ma provocano quella reattività sociale che può accentuarne la propagazione. Accentuano inoltre quel senso di irresponsabilità comportamentistica che abbiamo notato in questi mesi. Insomma, continuando con le chiusure, non solo si penalizzano inutilmente le persone sane, le famose 99.000 sopra ricordate, ma non si educa la società alla responsabilità individuale e relazionale. Ancora una metafora idrica: al posto delle dighe non sarebbe meno pericoloso e soprattutto più efficace canalizzare lo scorrere delle acque?
Il metodo delle chiusure è tuttavia dettato dal sapere della scienza medica, ampiamente intesa. Anche qui non intendo contestare la validità del sapere scientifico, corredato della discutibilità ed incertezza che esso stesso si riconosce. Ciò su cui invece intendo riflettere è la sua immediata e acritica applicabilità all’ambiente sociale nel suo complesso. Mi spiego.
Ogni professione, per chi la pratica con passione e responsabilità, determina una formazione mentale ed un costume di vita legati agli ambienti nei quali quella professione trova la sua applicazione specifica con i risultati conseguenti. La questione cambia, però, quando quella mentalità, così efficace e produttiva quando è praticata negli ambienti propri, viene resa operativa in ambienti umani del tutto estranei. Insomma, un conto è applicare certe regole in un ospedale, dove vive una popolazione umana resa omogenea dalla malattia (sia pure di diverso tipo), altro è applicarle alla società nella quale il 93% in media (è il corrispettivo della forbice 4 / 7% mediaticamente diffusa quotidianamente) è sano e potrebbe svolgere, con le dovute precauzioni, una vita normale sia dal punto di vista economico che psichico e affettivo. Inoltre, occorre aver presente un’altra, non secondaria, differenza. Il governo di un ospedale non segue regole democratiche: il primario ne è il governante assoluto (anche per ragioni di responsabilità medico-sanitaria) e i malati (ed il personale paramedico) non hanno voce in capitolo (la stessa spiegazione medica è spesso lessicalmente incomprensibile per chi medico non è). La società, invece, è un’entità di uomini liberi, che periodicamente è chiamata a votare per il proprio governo. Ne segue che l’autoritarietà ed esclusività lessicale dei provvedimenti nei quali si forma la mentalità del medico ospedaliero non è trasferibile, in modo immediatamente autoritario, al governo dell’ambiente sociale. A questo si aggiungano anche le tipologie caratteriali dei singoli scienziati, dei quali ovviamente non è in discussione la serietà e la elevata qualità della formazione; essi sono uomini come tutti: vi sono i più apprensivi e pessimisti, quelli più disinvolti e ottimisti. E, da ultimo, ma non per ultimo perché è la questione scientifica che ritengo epistemologicamente fondamentale, è il “punto di vista” con il quale si perviene alla cosiddetta oggettività del dato ed alla sua conseguente interpretazione. Quanto questo aspetto epistemologico sia cognitivamente decisivo lo mostrano le lezioni amburghesi di Cassirer (1922 – ‘23) a proposito della teoria della relatività di Einstein; ma non è questo il luogo per parlarne. Ne ho accennato solo per sottolineare come la consueta categoria della “oggettività” scientifica sia assai più articolata e problematica di quanto comunemente si pensi. Ne consegue, allora, l’interrogativo circa la correttezza del riferimento piatto alla oggettività dell’algoritmo come strumento direttivo delle decisioni. Perché, infatti, le risultanze dell’algoritmo siano applicabili occorre che l’ambiente di destinazione sia compatibile cognitivamente con un processo algoritmico; la domanda allora è: l’ambiente umano-sociale è algoritmicamente leggibile?
Tutte queste considerazioni hanno avuto come oggetto il tema della mortificazione della “normalità” psico-affettiva del vivere quotidiano di ciascuno di noi; non hanno avuto come oggetto l’altro aspetto, del quale si parla con vivace preoccupazione: il disastro economico che non riguarda solo alcuni settori produttivi, ma soprattutto la tipologia dei soggetti che li praticano. Un solo esempio: il commercio. A fronte di una caduta verticale del commercio al minuto di qualsiasi prodotto si è registrata specularmente una crescita altrettanto verticale, e direi vertiginosa, del commercio che fa capo ai “colossi” che operano nel mondo globale. Di povertà e arricchimento smisurato i media riferiscono, ma curano di non metterli in immediata relazione speculare tra loro; probabilmente per evitare che chi ascolta venga distolto dalla paura della pandemia e faccia mente locale che la medesima pandemia abbia provocato, come effetto immediato, una stretta relazione tra povertà dei “piccoli” e arricchimenti smisurati dei “grandi”.
Altre considerazioni ed interrogativi riguardano i vaccini. E’ emerso in questi giorni come i contratti di acquisto da parte della UE abbiano aspetti di opacità che hanno consentito comportamenti di apparente inadempimento da parte delle aziende farmaceutiche. Si è poi scoperto che le clausole negoziali erano così generiche da rendere molto evanescente l’obbligazione contrattuale. La domanda che emerge è: se ci si trova di fronte ad una così grave emergenza pandemica come è stato possibile stipulare accordi contrattuali così generici? Delle due l’una: o la pandemia è uno strumento utile al mondo dei colossi globali, oppure i burocrati di Bruxelles dovrebbero essere licenziati. Senza parlare poi del caos, mediaticamente alimentato in modo irresponsabile data la delicatezza della questione, intorno al vaccino Astra Azenica.
Vi è poi un’altra considerazione interrogante. Se il vaccino immunizza, perché per i vaccinati valgono le medesime regole restrittive destinate ai non vaccinati. Ancora un esempio. Nel caso delle limitazioni al traffico veicolare nelle città, da essa sono esclusi i veicoli non inquinanti, quelli ibridi o elettrici. Perché la medesima logica non è applicabile ai cittadini vaccinati, ai quali al momento della vaccinazione potrebbe essere rilasciata una congrua certificazione facilmente confezionabile. Vi è ancora un’altra considerazione interrogante la cui origine è puramente logica. La premessa: se i vaccini sono considerati l’unica seria “arma” contro il virus; conseguenza: perché, non renderli obbligatori con procedura costituzionalmente consentita (come avviene par altri vaccini di base). Non farlo significherebbe (se la premessa è assunta come vera) esporre la società al rischio che i non vaccinati costituiscano un costante rischio di contagio. Rischio sicuramente noto ai nostri governanti, che essi intendono fronteggiare, però, in modo indiretto e, direi, poco serio se non ricattatorio: intervenendo psicologicamente sui cittadini con gli strumenti dell’allarme, della paura e delle restrizioni. Questo è il sistema che in passato era seguito dai sovrani assoluti nei confronti dei sudditi; ma i “cittadini” meritano altro rispetto per la loro intelligenza.
Tuttavia, tale ambiguità di procedura sia nei riguardi dei vaccinati sia relativamente alla non obbligatorietà del vaccino alimenta un inevitabile riflessione interrogante: che chi ha il potere di governo non sia sicuro dell’efficacia immunizzante dei vaccini, ragion per cui non può assumersene una connessa responsabilità giuridica. Certo, si può ribattere che ogni terapia non è sicura integralmente ed è per questo che non è obbligatoria e richiede il “consenso informato”. Come dire, quindi, che lo Stato “non se la sente” di assumersi la responsabilità giuridica delle conseguenze, del tutto eventuali, del processo vaccinale, lasciandolo ad una gestione privatistica, come per qualsiasi altro intervento medico. Tuttavia, nel caso di specie, nel quale l’emergenza pandemica ha giustificato provvedimenti restrittivi della libertà personale, costituzionalmente impropri, lo Stato, tuttavia, se ne è assunto la responsabilità, addirittura producendo atti normativi formalmente discutibili come i DPCM; sulla base della medesima giustificazione di “situazione emergenziale” sarebbe conseguenziale, sul piano logico, rendere obbligatori i vaccini. Mi farebbe piacere che gli addetti ai lavori soddisfacessero a questi miei interrogativi e argomentassero con “contro argomentazioni” alle mie riflessioni.
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