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I “peccati” d’amore nella Divina Commedia


31 Mar , 2021|
| 2021 | Visioni

A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri

Dante racconta di aver incontrato una prima volta Beatrice all’età di nove anni e di essersene innamorato: “d’allora innanzi dico che Amore signoreggiò la mia anima”. La incontra una seconda volta nove anni dopo, ma tra di loro non avviene nessun dialogo e nessuna confidenza. L’unico contatto è il saluto che lei gli rivolge. Sette anni dopo la donna muore. È a questo punto che il poeta scrive la Vita nova, che conclude con l’intento di non parlare più della donna amata fino a “tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. Beatrice ha insomma affascinato Dante con la sua assenza e con il suo silenzio e La Vita nova è la storia di un amore solipsistico che si rafforza con l’assenza, con l’esclusione della donna. E così niente e nessuno può impedirgli di celebrare l’amata, nemmeno la morte. Al contrario, la scomparsa prematura di Beatrice dà libero sfogo ad un amore che si nutre soltanto di una passione interna fino a immaginare e a vedere la donna amata in Paradiso accanto alla Madonna e agli altri beati.

Nel XXX canto del Purgatorio finalmente Dante incontra Beatrice: è il coronamento di un desiderio lontano che nasce dalle pagine della Vita nuova dove il poeta aveva scritto che avrebbe riparlato di lei solo per dirne “più degnamente”. E Beatrice diventa così la sua guida attraverso i cieli del Paradiso fino all’Empireo, vertice assoluto e sublime del suo viaggio. L’Amore, tutto spirituale, lo ha innalzato fino a Dio.

Dante si impone come modello psicologico nella rappresentazione dell’amore e così dobbiamo al suo “genio” se l’amore nella letteratura italiana si basa sulla separazione, sull’assenza dell’oggetto d’amore. Ma l’amore carnale, quello “ch’a nullo amato amar perdona”, quello fatto di desiderio e di sesso, di gioie e tormenti, quello di Francesca da Rimini o di Brunetto Latini? Quello che la Chiesa da sempre condanna come ‘peccato’? Anche nella Divina commedia questo amore viene condannato, ma come?

Nel rappresentare i peccatori che soffrono per l’eternità nell’Inferno Dante dimostra una straordinaria fantasia: i golosi si rotolano nel fango; i suicidi, trasformati in cespugli, vengono dilaniati dalle Arpie; i simoniaci sono confitti a testa in giù in delle buche da dove fuoriescono solo i piedi lambiti da lingue di fuoco; i barattieri sono immersi nella pece bollente e se tentano di uscirne vengono arpionati e straziati da diavoli; i ladri corrono con le braccia avvinte da serpenti e in seguito ai morsi dei rettili mutano aspetto; i seminatori di scismi e di discordie sono feriti e mutilati da diavoli che rinnovano lo strazio appena le ferite si rimarginano, e per altri peccatori altre pene del genere.

Tutta un’altra pena viene escogitata per i lussuriosi. Come in vita furono travolti dalla passione, ora vengono trascinati senza posa da una violentissima bufera di vento. La loro pena sembra la continuazione del loro peccato e il peccato sembra anticipare la loro pena. Quando infatti siamo vinti dal desiderio fino alla perdita della ragione diciamo di essere travolti dalla tempesta della passione e una vera tempesta che “di qua, di là, di giù, di sù li mena” trova qui una grande realizzazione fantastica.

Virgilio indica a Dante alcuni peccatori di lussuria e sono nomi legati a grandi storie d’amore che più che impaurire il lettore lo commuovono, da Didone a Elena, da Achille a Tristano.

Due peccatori che procedono insieme e “paion sì al vento esser leggieri”, suscitano l’interesse di Dante. A parlare al poeta è uno dei due, Francesca da Rimini, protagonista di un sanguinoso fatto di cronaca avvenuto tra il 1283 e il 1285 che ebbe molto probabilmente larga eco tra i contemporanei. Francesca, andata sposa a Gianciotto Malatesta, si innamorò del cognato Paolo. I due amanti, sopresi dal marito di lei furono uccisi.

L’episodio di Francesca, tra i più celebri della Commedia , oltre che essere di straordinaria bellezza, ci aiuta a capire la trasformazione, nella visione di Dante, dell’eros, dell’amore sensuale e terreno, in amore tutto spirituale che conduce a Dio e che segna il superamento in chiave religiosa di tutta la problematica amorosa che aveva costituito il modello dominante nella poesia, nella narrativa e nella trattatistica della cultura cortese e stilnovistica. Bisogna ricordare infatti che l’Inferno e il Purgatorio sono per Dante i luoghi in cui lui stesso vince i suoi peccati e le sue tentazioni. Francesca è il primo dannato che egli incontra e la lussuria il primo vizio che egli stacca da sé e guarda dall’esterno. Qui, facendo parlare Francesca come un poeta del ‘dolce stil novo’, intende sottolineare le conseguenze peccaminose di quelle teorie che lui stesso aveva condiviso, ma di cui ora , in base al suo nuovo punto di vista, è in grado di cogliere i limiti e le ambiguità. La pietà che egli mostra di provare di fronte al dramma dei due cognati è anche partecipazione commossa alla loro storia d’amore, ma esprime soprattutto, pur nella comprensione della fragilità umana, una superiore concezione etica dell’amore. Nel personaggio di Francesca il poeta insomma ha proiettato una parte di se stesso che, nel momento in cui ha intrapreso l’arduo cammino verso il “vero” amore, dolorosamente condanna. Coerentemente con la concezione che è alla base della Commedia Francesca è una peccatrice e come tale è condannata tra i lussuriosi. E’ vero però che l’intero episodio è narrato con immagini di grande suggestione e commozione e la figura di Francesca appare tutta circondata da nobile gentilezza che sembra contraddire la sua posizione di peccatrice.

Le tre terzine (vv.100-108) caratterizzate dall’attacco anaforico (Amor…Amor…Amor...), tra le più celebri dell’intero poema, costituiscono il punto centrale del discorso di Francesca, tutto intessuto di riferimenti letterari della tradizione cortese e stilnovistica.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende rimanda alla nota canzone di Guinizelli Al cor gentil rempaira sempre amore e ad alcune liriche dello stesso Dante, in particolare al sonetto Amor e ‘l cor gentil sono una cosa, testi questi che riprendevano tutta una tradizione che aveva al suo attivo trattati teorici (il De Amore di Andrea Cappellano) e tutta una vastissima produzione in versi e in prosa. Risponde ai canoni dell’amore cortese anche il fatto che a generare l’amore sia la bellezza (Amor… prese costui della bella persona). E infine l’assunto dell’ultima terzina Amor, ch’a nullo amato amar perdona è un’altra tesi che troviamo nel De Amore di Andrea Cappellano. Insomma è come se Francesca tendesse a dare una giustificazione teorica al suo amore, a sottolineare che alla base c’è tutta la raffinata civiltà letteraria delle corti del Duecento. Il successivo smarrimento di Dante è dovuto soprattutto al fatto che egli riconosce nel discorso di Francesca un patrimonio culturale che è stato anche il suo: l’amore gentile che eleva l’animo, l’amore cantato dagli stilnovisti può dunque condurre alla dannazione. Questa dolorosa consapevolezza, unita al pianto muto di Paolo che ha accompagnato tutto il racconto di Francesca, commuove il poeta fino a farlo svenire: “io venni men così com’io morisse/E caddi come corpo morto cade”.

Un altro peccato d’amore è quello di Brunetto Latini collocato nel terzo girone del settimo cerchio tra i sodomiti.

Secondo la suddivisione dei peccati che Dante, salvo pochi cambiamenti, ricava dalla Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, la sodomia è un peccato di violenza contro Dio. La natura è creata da Dio e peccando contro la natura si pecca contro Dio. Il discorso è logico, ma paradossale: la sodomia è un peccato di violenza più grave dell’omicidio, infatti i sodomiti sono nell’Inferno dantesco più giù degli omicidi.

Il peccato è punito qui con un contrappasso che ricorda chiaramente l’episodio biblico di Sodoma. Come Dio aveva ricoperto la città con una pioggia di fuoco, allo stesso modo i sodomiti si muovono in una landa desolata costituita da un sabbione infuocato su cui cadono incessantemente falde di fuoco. Tuttavia il fuoco, come il vento dei lussuriosi, è un elemento nobile rispetto alla pece bollente o ad altri elementi che troviamo nelle pene di altri dannati. Anche qui il fuoco sembra metafora della passione che ha travolto i peccatori.

Nei canti XV e XVI Dante descrive l’incontro con alcuni sodomiti, in particolare con Brunetto Latini. L’episodio ha creato non pochi problemi ai critici dei secoli successivi che, leggendo i versi di Dante con le loro categorie morali, hanno trovato difficile spiegare la dimensione umana dell’affetto filiale di Dante e la sua reverenza nei confronti di un intellettuale ammirato e considerato un maestro. Quello che sembrava ancora più strano era il fatto che si apprendeva dell’omosessualità di Brunetto solo da questi versi di Dante; non c’erano testimonianze precedenti che parlassero della sua sodomia. Ma si trattava con ogni evidenza di censure posteriori: ora infatti sappiamo che Brunetto è l’autore di poesie d’amore per un uomo come la canzone S’eo son distretto inamoratamente, scritta per il giovane poeta Bondie Dietaiuti. Il fatto poi che Brunetto fosse sodomita doveva essere più o meno noto ai tempi di Dante. D’altronde non c’erano ancora i roghi e ci sono buoni motivi per pensare che, nonostante le ripetute condanne della Chiesa, l’omosessualità fosse vista con una certa indulgenza ancora per tutto il Trecento. Nè Dante né successivamente Boccaccio, checché ne abbiano pensato i commentatori dei secoli successivi, si identificano con la condanna perentoria e totalizzante elaborata dalla Chiesa che, in quegli anni, stava per passare negli ordinamenti civili.

L’episodio è noto, ma riassumiamolo: al riparo dalla pioggia di fuoco perché camminano sull’argine sopraelevato del Flegetonte, Dante e Virgilio incontrano una schiera di anime che osserva i due estranei come ci si guarda l’un l’altro di sera, alla debole luce della luna nuova, con lo sguardo aguzzo come quello del vecchio sarto che cerca di infilare il filo nella cruna dell’ago.

Le due similitudini, quella con le strade non illuminate delle città medievali e l’interno di una bottega con il gesto del vecchio sarto che infila l’ago, sembrano aprire una parentesi di pace nel nell’atmosfera infernale e creano un’atmosfera familiare, preannunciando un incontro ricco di ricordi autobiografici e di rievocazioni di momenti di vita cittadina. Tra le anime della schiera una, riconosciuto Dante, lo afferra per un lembo della veste. È Brunetto Latini, uno degli intellettuali più autorevoli della generazione precedente a quella di Dante. Brunetto sta in basso, nella landa battuta dal fuoco, mentre Dante è in alto, sull’argine, ma chino verso il maestro in segno di reverenza. Non a caso, gli dà del “voi”, cosa questa che avviene pochissime volte nella Commedia. Brunetto, a sua volta, lo chiama “figliuol”. Dante sente il bisogno di raccontargli il suo smarrimento nella selva, l’apparizione provvidenziale di Virgilio e la strada intrapresa verso la salvezza. Brunetto risponde con parole di elogio e lo avverte delle future avversità che gli saranno procurate dai concittadini corrotti e malvagi.

Poi sottolinea che proprio tra letterati, politici, e uomini d’armi, nonché tra uomini di Chiesa, si trovano tanti altri sodomiti. Tanti! “Ed elli a me: ‘Saper d’alcuno è buono;/de li altri fia laudabile tacerci,/ché ‘l tempo saria corto a tanto suono./In somma sappi che tutti fur cherci/e litterati grandi e di gran fama,/d’un peccato medesmo al mondo lerci'”.

Bisogna aggiungere che, nell’architettura della Commedia, Brunetto viene posto in una posizione centrale della cantica, come vengono posti al centro del Purgatorio e del Paradiso altri personaggi di grande importanza (Marco Lombardo nel Purgatorio e Cacciaguida nel Paradiso). Insomma, questa posizione non fa che confermare l’autorevolezza del maestro. È anche per questo che molti commentatori non hanno accettato, nel corso dei secoli, che un ruolo tale venisse affidato a un sodomita e hanno provato, come spesso accade, a rileggere l’intero canto in modo fantasioso, per rimuovere qualsiasi traccia di omosessualità dal testo: l’esempio più bizzarro è quello del critico francese André Pezard, che è arrivato a dire che il peccato di Brunetto e compagni non è sodomia vera e propria, ma piuttosto una forma di sodomie spirituelle; in altre parole la colpa di Brunetto sarebbe quella di aver usato la lingua francese per scrivere una delle sue opere, macchiandosi di una sodomia culturale e linguistica.

Quale è, quindi, il significato da attribuire a questa simpatia di Dante per i sodomiti?

Boccaccio, grande commentatore della Commedia, suggerisce che Dante si mostra più appassionato e vicino ai peccatori quando rappresenta un peccato di cui egli stesso “si sente maculato”. E conclude: “non so se qui si vuole che l’uomo intenda per questa compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa scellerata colpa, e però il lascio a considerare agli altri”.

Senza voler cadere nella facile allusione di Boccaccio, ci chiediamo comunque perché Dante utilizzi proprio una persona così vicina a sé per parlare di questa colpa e perché abbia voluto rompere il tabù dell’invisibilità della sodomia condannando il proprio maestro, che comunque stima, ad essere ricordato per l’eternità non per le sue opere ma per la sua omosessualità. Prima di allontanarsi infatti Brunetto dice: “Sieti raccomandato il mio Tesoro,/nel qual io vivo ancora, e più non chieggio“. Poi si volse e sembrò uno di coloro che a Verona corrono per il drappo verde e, aggiunge, chiudendo il canto: “e parve di costoro/quelli che vince, non colui che perde”.

Evidentemente, quindi, ai tempi di Dante, l’accusa di sodomia non doveva ancora essere infamante come nei secoli successivi.

E comunque l’atteggiamento del poeta non ci deve sorprendere: non è questo il solo caso in cui egli esprime una dicotomia tra giudizio divino e giudizio umano. Pur collocando alcuni peccatori nell’Inferno secondo la cultura cristiana che proprio in quegli anni si affermava con sempre maggior rigore, non rinuncia a esprimere, sul piano umano, stima e rispetto. Anzi, inserire personaggi ‘magnanimi’ nell’Inferno commuove e atterrisce il lettore: è un meccanismo che Dante usa spesso per raggiungere lo scopo morale per il quale l’opera è pensata. Brunetto, come Francesca da Rimini o Ulisse, proprio per la sua grandezza e la sua fama, assolve perfettamente il compito di diventare un monito per i vivi.

Nel canto successivo, ancora dedicato alla sodomia, Dante incontra tre nobili fiorentini: Jacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, nominati precedentemente come uomini “ch’a ben far puoser li ‘ngegni”. Un’ulteriore prova che il giudizio divino sul peccato di sodomia non coincide col giudizio umano di Dante è nelle parole che rivolge loro: parole di affetto, tanto che vorrebbe addirittura gettarsi di sotto con loro per abbracciarli, e di dolore per la loro condizione, che non suscita “dispetto, ma doglia”: “S’i’ fossi stato dal foco coperto,/gittato mi sarei tra lor di sotto,/e credo che ‘l dottor l’avria sofferto;/ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,/vinse paura la mia buona voglia/che di loro abbracciar mi facea ghiotto.”

Questo nell’Inferno, ma lussuriosi e sodomiti li troviamo anche nel Purgatorio che è strutturato da Dante in maniera diversa, in base ai sette peccati capitali. Qui, nelle cornici della montagna del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano i penitenti che espiano le loro colpe nell’attesa di ascendere in Paradiso. Anche qui, nell’ultima cornice, è rappresentato l’incontro con i lussuriosi e tra i lussuriosi sono anche i sodomiti che non hanno più, come nell’Inferno, un girone apposito.

I lussuriosi sono avvolti nel fuoco, cantano inni liturgici e gridano esempi di castità o esempi del loro peccato. Quando alcuni penitenti si accorgono che Dante è vivo, uno di loro gliene chiede ragione. A questo punto, prima che Dante possa rispondere, sopraggiunge un’altra schiera di anime che attrae l’attenzione del poeta. Le due schiere si incontrano e Dante osserva che ciascuna anima scambia un bacio con un’altra anima e entrambe sono felici di questo rapido scambio d’amore. Allo stesso modo, aggiunge con un’immagine di grande suggestione, le formiche quasi antropomorfizzate, nella loro fila scura si sfiorano muso contro muso forse per cercare di sapere la via da percorrere o la possibilità di trovare cibo: “così per entro loro schiera bruna/ s’ammusa l’una con l’altra formica,/forse a spiar lor via e lor fortuna”. Appena interrompono l’amichevole scambio d’affetto, prima di allontanarsi, ciascuna anima si sforza di gridare un esempio di lussuria punita. Le anime appena arrivate, evidentemente di sodomiti, gridano “Soddoma e Gomorra”, quindi l’esempio più noto di lussuria omosessuale punita. Dopo questa interruzione, Dante riprende a parlare con la prima schiera di anime e una di queste spiega a Dante che le anime appena arrivate e ripartite sono sodomiti. Per dirlo, usa una perifrasi:”la gente che non vien con noi, offese/di ciò per che già Cesar, trionfando/Regina contra sé chiamar s’intese”. In altre parole le anime che non vengono con noi offesero Dio col peccato per il quale Cesare, mentre celebrava il trionfo, si sentì chiamare a suo scherno “Regina”.

Per indicare la sodomia, Dante usa quindi una perifrasi che allude alla sodomia di Cesare.

A parlare della sodomia di Cesare era stato Svetonio che aveva raccontato che, in seguito ai suoi rapporti con il re di Bitinia, venne salutato con l’appellativo di “regina” e che durante il trionfo, i soldati cantavano una canzone in cui si diceva: “Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem” (Cesare sottomise le Gallie, Nicomede sottomise Cesare) e che alcuni lo salutavano così: “Ave, rex et regina!”.

Dante, che ha per Cesare una grande ammirazione, e che nel Limbo lo pone tra i grandi pagani (Cesare armato con li occhi grifagni), crede a Svetonio? Perché allora non lo pone tra i sodomiti, insieme a Brunetto? E soprattutto: perché, tra le infinite possibilità, sceglie di parlare dei sodomiti proprio usando una perifrasi che allude alla sodomia di Cesare? Si tratta di domande che non possono avere risposte. È probabile che Dante non si ponga nemmeno il problema. I suoi personaggi sono essenzialmente exempla, e se Brunetto è l’exemplum della sodomia di un uomo comunque degno di ammirazione nella sua umana fragilità, Cesare è l’exemplum dell’Impero e come tale viene considerato in molte altre parti della Commedia. La perifrasi con cui si allude alla sua presunta sodomia, che Dante ci creda o no non importa, serve solo a designare con chiarezza il peccato e non è certo una voluta maldicenza. Evidentemente che un grande uomo come Cesare possa essere stato anche sodomita non mette in discussione il suo giudizio altamente positivo.

Le anime dei sodomiti sono accompagnate qui da coloro che hanno peccato di lussuria di tipo ‘ermafrodita’, nel senso che nell’atto sessuale erano presenti entrambi i sessi. Insomma, un modo un po’ arcaico per definire l’atto eterosessuale: siamo di fronte al peccato di lussuria con persone dell’altro sesso. A parlare di tutto questo è un personaggio noto, un altro “maestro” di Dante, una figura chiave per la sua formazione di letterato: Guido Guinizzelli.

Non manca, in merito a questo episodio, qualche lettura moderna in chiave queer che, stravolgendo il senso di tutto il discorso, fa diventare Guinizzelli un peccatore di sodomia e rifiuta la distinzione che Dante fa tra peccato di sodomia e peccato ‘ermafrodito’. Il fatto poi che Dante abbia usato un termine che a noi oggi può sembrare ambiguo (ermafrodito, appunto) è dovuto solo al fatto che non ne ha trovato un altro da contrappore a sodomita: il termine ‘eterosessuale’, come aggiunge sarcastico Giovanni Dall’Orto, “semplicemente non era stato ancora inventato”.

L’episodio del Purgatorio e la perifrasi che allude alla sodomia di Cesare, chiariscono ulteriormente quanto detto a proposito di Brunetto. La sodomia è un peccato, ma non diverso da altri peccati e non ancora particolarmente infamante. Ai tempi di Dante essere sodomita non era diverso dall’essere goloso o iracondo o lussurioso. Che Dante poi adotti nell’Inferno lo schema dei peccati di San Tommaso per contraddirlo, attraverso la sua vicinanza umana ai peccatori, rende particolarmente poetica la Commedia. Pensiamo, al di là del peccato di sodomia, a quanto è importante in tutta l’opera la presenza del mondo antico precristiano che, come scrive Luciano Canfora, non solo nutre la sua officina poetica ma insidia anche le sue verità di fede.” Se non altro, scrive ancora Canfora, sta lì a dimostrarlo il monumento che Dante innalza ad Ulisse: all’eroe pagano e dannato a pena eterna, il quale proclama – in antitesi all’oscurantismo dell’apostolo Paolo ad Efeso – essere inerente alla nostra “semenza” la curiositas, il “seguir virtute e canoscenza” e che, per questo fine, si dà anche la vita”.

Ad insidiare le verità di fede del poeta ci sono così anche le sue considerazioni sull’amore. I sodomiti che la Chiesa condanna senza appello sono qui nel Purgatorio e si apprestano ad entrare in Paradiso insieme a Guinizelli e agli altri peccatori eterosessuali. Il canto dei lussuriosi del Purgatorio ha però soprattutto un carattere autobiografico in cui Dante rivive, come più volte accade nella seconda cantica, eventi dell’ambiente giovanile in cui si aprirono per lui le vie della nuova poesia. Ora egli si è allontanato da quella poesia, è andato oltre, verso la conquista di una poesia teologica e in questo senso non è casuale l’allusione a Beatrice “donna è di sopra che m’acquista grazia”, ma questo superamento non fa venir meno il ricordo di quel tempo della sua giovinezza poetica e nella rievocazione coesistono dolcezza e dolore, e un malinconico senso di nostalgia.

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