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Sulle vecchie e nuove povertà. Riflessioni a partire da “I poveri possono parlare?” a cura di L. Coccoli
I poveri nell’età dei diritti
Per buona parte della storia, la povertà – così come la ricchezza – è stata considerata nient’altro che un destino.
Nella Res publica christiana medioevale, ad esempio, si riteneva che fosse Dio stesso a permettere l’esistenza della povertà, al fine di consentire ai ricchi di riscattarsi dai loro peccati attraverso l’elemosina e l’assistenza ai bisognosi. La povertà si caricava così di un importante valore teologico: come scelta volontaria, essa era Imitatio Christi e costituiva un percorso spirituale di perfezionamento della fede. Quando rappresentava (come più spesso accadeva) una condizione in cui il soggetto versava indipendentemente dalla propria volontà, riproduceva invece, uno egli elementi del variegato disegno divino. In entrambi i casi, era sostanzialmente un dato immutabile ed incontestabile.
A partire dalla protomodernità, questa visione – che potremmo definire “economia della salvezza” è progressivamente messa in discussione. I cambiamenti economici, politici e sociali che scuotono il Vecchio Continente suggeriscono, già ai primordi dell’età moderna, la necessità di una gestione razionale del “fenomeno povertà”. Le prime proposte giungono soprattutto dai teologi, sia di parte cattolica che riformata. Essi attingono copiosamente al bagaglio di idee, concetti e categorie fornito dalla religione, ma cominciano a trattare la povertà non più come una questione religiosa in senso stretto, ma come un tema di carattere teologico-politico: un problema certo anche morale e religioso, ma di cui debba farsi carico prioritariamente, se non in via esclusiva, il potere politico.
È però la riflessione teorica dell’età moderna a mettere compiutamente a fuoco una nuova visione della povertà. Nella sua teoria dello Stato, Thomas Hobbes per primo descrive esplicitamente la relazione esistente tra povertà ed obbligazione politica. Tra le pagine del Leviatano, afferma che, quando la povertà è estrema – ovvero quando mette a rischio la sopravvivenza umana – può perfino sottrarre l’individuo agli obblighi derivanti dal patto fondativo dell’ordine politico, poiché «nessuna legge può obbligare un uomo a rinunciare alla propria conservazione»[1].
La tradizione contrattualista – a partire da Jean-Jacques Rousseau – sviluppa compiutamente l’intuizione hobbesiana, sottolineando il carattere artificiale, ovvero socialmente costruito della povertà e sviluppando una distinzione che avrà molta fortuna nel corso dei secoli: quella tra povertà assoluta e relativa. La prima coincide approssimativamente con l’accezione che ne ha fornito Hobbes, vale a dire implica il pericolo immediato per la vita dell’individuo; la seconda non può essere definita una volta per tutte: denota, piuttosto, tutte quelle situazioni in cui un soggetto (anche sotto il peso di condizionamenti di tipo sociale) “si sente” povero.
A seguito della rivoluzione francese, la lotta alla povertà comincia ad incarnare, finalmente, una rivendicazione politica in senso stretto. Perché se è vero, come i cahiers de doléances prodotti dal “terzo stato” documentano, che sono state in primo luogo le scelte politiche operate dall’Ancient Regime a condannare il popolo ad una intollerabile povertà, allora – si afferma – è anche possibile intervenire politicamente, al fine di ridurne la portata. Si mette a fuoco che la povertà ha ben poco di naturale: piuttosto è un prodotto artificiale e un tema politico.
Nei decenni successivi, la lotta alla povertà si salda, progressivamente, alle rivendicazioni per il riconoscimento dei diritti. Nel corso dell’Ottocento, essa si sovrappone – fino a confondersi – con la lotta di classe. Il modo di produzione capitalistico, infatti, è individuato come il fattore per eccellenza tra quelli che determinano l’impoverimento. Spesso non si combatte la povertà in sé, piuttosto la causa che la determina, identificata con lo sfruttamento capitalistico. Alla dicotomia tradizionale tra ricchi e poveri, si sostituisce quella tra capitalisti e lavoratori, tra sfruttatori e sfruttati, tra élite e popolo (lavoratore) e, infine, tra destra e sinistra. La lotta alla povertà si lega ad un immaginario emancipativo che pone al centro la figura del lavoratore (salariato). Recepiscono tale impianto ideologico le costituzioni delle democrazie liberali del secondo dopoguerra: basti pensare a quella italiana, che fonda la Repubblica stessa sul lavoro e incorpora i diritti sociali finalmente equiparandoli ai diritti politici e di libertà.
Poveri e capitalismo
Il capitalismo neoliberale ha certamente mescolato le carte sul piano ideologico, oltre che su quello dei rapporti reali.
Il mantra dell’autoimprenditorialità – ovvero che ciascuno sia tenuto ad agire in quanto homo oeconomicus, perseguendo la valorizzazione di sé, senza alcun riferimento al bene comune – ha delegittimato le dicotomie che implicavano l’esistenza di soggetti collettivi: capitalisti/lavoratori, sfruttatori/sfruttati, élite/popolo. Ha suggerito che l’epoca della lotta di classe si fosse ormai esaurita per sempre.
Quella del 2008, nata come crisi economica e divenuta ben presto crisi politica tout court, ha contribuito a svelare l’impianto ideologico delle teorie neoliberali, insinuando il sospetto che la lotta di classe non fosse affatto finita, come si era raccontato: semplicemente, che l’avessero vinta i ricchi[2]. Nell’ultimo ventennio, la povertà è aumentata: nelle democrazie occidentali convivono forme di povertà vecchie (di persone materialmente impoverite) e nuove. Si sono moltiplicate quelle che Stefano Rodotà definiva le povertà “post-materiali”, di cui sono vittima coloro che si sentono costretti dalla solitudine, dalla perdita di senso, dalla mancanza di relazioni sociali[3]. Al contempo, in un sistema sempre più interconnesso sul piano globale, ci giungono le immagini della povertà “degli altri”, nei differenti angoli del Pianeta. Quasi due miliardi di persone vivono con meno di due Dollari al giorno e ad essi è precluso tutto: un alloggio, le cure mediche e persino il cibo.
In questo contesto di impoverimento, ma anche di segmentazione del corpo sociale, è comprensibile che, sempre più spesso, piuttosto che di capitalisti e lavoratori, si affronti direttamente il tema della povertà.
E’ rilevante, in tal senso, il volume collettaneo di recente pubblicazione, a cura di Lorenzo Coccoli, I poveri possono parlare? (Futura, Roma 2021, pp. 161).
Avvalendosi del contributo di studiosi di ambiti disciplinari diversi (diritto, sociologia, etnografia, filosofia politica, critica letteraria), il testo delinea una significativa rappresentazione delle povertà contemporanee.
La prima questione affrontata – anticipata sin dal titolo, che parafrasa la domanda di Gayatryi Spivak Can subaltern speak? – è evidentemente di carattere metodologico: si può raccontare la condizione dei poveri, senza che siano essi stessi a parlare?
Il curatore si chiede: «Come rappresentarli – come ri-pre – sentarne le rivendicazioni – evitando però la trappola del “ventriloquismo del subalterno che parla”»[4]? I rischi di fraintendimento e di deformazione, quando si parla di subalternità, sono sempre in agguato e tuttavia quest’avvertenza non può condurre ad una necessaria afasia. Piuttosto, può dare vita ad una accorta sperimentazione per “dare voce” ai poveri. Non mancano, d’altra parte, in letteratura i tentativi di auto-narrazione del soggetto povero, gli esperimenti di «studio delle forme linguistiche della povertà, della “grammatica dei poveri”»[5]. Sara Sermini nel suo saggio li passa in rassegna, soffermandosi sui lavori di Rocco Scotellaro e riprendendo le riflessioni di Natalia e di Carlo Ginzburg.
Come emerge dal volume, rispetto ai poveri, occorre prendere atto che si registrano soprattutto due ordini di rappresentazioni.
In primo luogo, il povero può essere considerato come un soggetto da “tenere sotto controllo”: lo dimostrano, ad esempio, i casi di discriminazione anagrafica, documentati nel contributo di Enrico Gargiulo, i quali sono acuiti da condizioni personali come la mancanza di reddito, la vulnerabilità personale, la composizione familiare, il genere.
Una visione deformata della povertà, però, può anche assumere connotazioni romantiche ed estetizzanti: i poveri diventano allora oggetto di un pregiudizio positivo, ma ugualmente non veritiero.
Le loro vite diventano oggetto di narrazioni fantasiose, i quartieri popolari sono rappresentati come luoghi stravaganti ed esotici. Si tratta di un tradimento della povertà che è raccontato nel lavoro di Veronica Pecile, la quale descrive la turistificazione delle città, soffermandosi sulla gentrificazione del quartiere Ballarò di Palermo (ma fenomeni analoghi si verificano nei Quartieri Spagnoli di Napoli, o nelle periferie di città come Roma e Firenze).
Eppure, al di là della aberrante dicotomia che individua nel povero o un potenziale delinquente, o il bon sauvage in versione 2.0, i poveri meriterebbero ben altre riflessioni. Essi si dimostrano in grado per esempio, in taluni casi, di esercitare un’agency politico-giuridica potente. Il caso dei sem-teto, descritto nel lavoro di Carolina Amadeo, dedicato ai «movimenti sociali per il diritto alla casa, che stanno prendendo forza come strumento della lotta contro la disuguaglianza spaziale nelle città brasiliane»[6] sembra per esempio delineare la messa a punto di “un altro modo di possedere”, rispetto al quale il diritto non può mostrarsi indifferente.
Infine, il lavoro di Coccoli si sofferma sulla relazione complessa tra povertà e capitalismo. Quest’ultimo, anche nella versione neoliberale, continua a porre in essere un certo grado di sfruttamento nella relazione salariale, a cui non si sottraggono neppure soggetti istruiti e performanti. Lo conferma il lavoro di Maurilio Pirone sui lavoratori delle piattaforme digitali. Il testo, in conclusione, mette in evidenza che il capitalismo non esclude un sostanziale impoverimento di chi si trova ad agire al di fuori dei confini della produzione. I molti poveri che “abitano i margini esterni dell’economia post-coloniale, negli sconfinati slums che circondano le grandi megalopoli del Sud del mondo. Essi sono tagliati fuori dalla produzione di plusvalore, senza neanche la possibilità di entrare nella relazione salariale, e condannati a «restare meri spettatori dell’elettrizzante dramma marxiano di plusvalore e sfruttamento messo in scena nella fabbrica capitalistica»[7]. Le loro, come avrebbe detto Bauman, appaiono nient’altro che “delle vite di scarto”.
[1] T. Hobbes, Leviatano (1651), trad. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 247.
[2] M. Revelli, La Lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, Laterza, Roma-Bari 2014
[3] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 234.
[4] L. Coccoli I poveri possono parlare? Futura, Roma 2021, p. 32.
[5] Ivi, p. 60.
[6] Ivi, p. 69
[7] Ivi, p. 18.
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