È intuitivo credere che esista, nel bene o nel male, una differenza abissale tra mondo accademico e mondo non-accademico. È un pregiudizio antico che, come tutti i pregiudizi, ha i suoi fondamenti, e che, come tutti i pregiudizi, viene interpretato diversamente da persona a persona. Un’interpretazione vagamente maliziosa, anche se raramente vissuta come tale, che si basa sul succitato pregiudizio, è quella per cui, in virtù di questa differenza, il mondo accademico dovrebbe impegnarsi a guidare il proprio non-Io, plasmarlo, erudirlo. È davvero difficile non aver mai sentito parlare, anche solo di sfuggita, anche solo in ascensore, di quale dovrebbe essere “il ruolo dell’Università nel Paese” o “il ruolo dell’Università nella società”, se si vuol suonare più moderni. La domanda in questa domanda, ben celata e impacchettata così da non offendere nessuno, è quella a proposito del “ruolo degli intellettuali nel Paese (o nella società)”. Celata per non offendere innanzitutto chi tacitamente è escluso dalla definizione di “intellettuale” e poi per non pungere la nostra sensibilità contemporanea, legata alla burocratizzazione e alla spersonalizzazione weberiana, che più che con l’intellettuale preferisce avere a che fare, almeno linguisticamente, con funzionari della cultura, amministratori del sapere. Gli “intellettuali”, se ci si fa caso, sono tutti già morti, e i morti, sia detto en passant, sono tutti, bene o male, inoffensivi.
Ad ogni modo, perché vi sia un ruolo-guida dell’Accademia nel Paese, almeno nella direzione culturale, nel modellamento delle sensibilità intellettuali, nel conferimento di una determinata postura verso lo scibile, è necessario che vi sia una differenza tra i due poli (accademia e non-accademia). Punto sul quale val la pena sollevare qualche mormorio dubbioso.
Se si guarda alla diffusione della cultura a livello di massa, si può notare come essa segua una strada ben precisa verso un onnivorismo selettivo. Per quanto riguarda il diffondersi dell’onnivorismo, si consultino i lavori di Peterson e Kern[1], un po’ datati ma estremamente attuali, mentre sulla natura selettiva che resta contenuta in tale onnivorismo si faccia riferimento al modello di moda di Simmel, fondato sulla dicotomia imitazione-differenziazione[2]. Nello specifico, è nata, soprattutto tra i giovani, un costellazione abbastanza precisa di autori e suggestioni che viene rispettata pedissequamente da quasi chiunque sia interessato al “mondo della cultura”, qualsiasi cosa significhi. Qualsiasi giovane capirà bene a cosa ci riferiamo se poniamo Van Gogh, Klimt e Frida Kahlo come astri dell’arte; Wes Anderson e Tarantino come astri del cinema; Baudeleire, Cioran, qualche autore giapponese, un Bukowski malconcio, come astri della letteratura; cantautorato italiano sparso (De André ma solo certe canzoni, De Gregori ma solo certe canzoni…) come astri della musica, de facto coadiuvati da astri minori della musica indie contemporanea; Nietzsche come astro della filosofia. A raccogliere questa forma disarticolata, appunto “a costellazione”, del capitale culturale ideale contemporaneo, sono, com’è naturale che sia, le pagine Facebook e Instagram, che con facilità “catturano” i giovani studenti, dotati, seguendo Bourdieu, di un capitale culturale relativamente alto. Proliferano dunque piattaforme virtuali nelle quali si può benissimo vedere all’opera la forma spezzettata e dispersiva dell’accumulazione standard di capitale culturale socialmente riconosciuto. Non si vuole qui far la morale a queste realtà né indicarle come responsabili di un fenomeno dannoso: non lo si ritiene neppure strettamente tale. Queste pagine intercettano e rispondono ad una forma culturale che non producono; se in Italia nascesse il costume di fumare il narghilè, si vedrebbero d’improvviso sbocciare locali appositi in gran numero. Punti di ritrovo in cui la Sittlichkeit prende la solida forma di contenuto virtuale, le pagine in questione pubblicano fondamentalmente spezzoni, citazioni, in un contesto per il quale la citazione rappresenta un rito con duplice finalità: acuire il senso di appartenenza sociale dei consumatori più esperti, che vedono confermata, nella scelta del contenuto e nell’autorevolezza sociale della piattaforma, la propria identità di persone “colte”; socializzare i consumatori meno esperti, che collezionano nozioni in merito a quali prodotti culturali siano indispensabili. Non ci troviamo davanti a vero e proprio prosumerismo: i consumatori, in rete, non producono in questo contesto dei nuovi prodotti culturali; assistiamo semmai alla produzione collettiva di legittimazione sociale di contenuti culturali preesistenti. Finalità intrinseca di questo fenomeno collettivo, come di quasi tutti i fenomeni collettivi, è individuale: assicurarsi il possesso di una cassetta degli attrezzi[3] utile a riconfermare, ogni volta che sia necessario, l’appartenenza ad un preciso segmento sociale. La conoscenza, dunque, è interpretata come e condensata in normatività sociale, e i vari prodotti culturali, per quanto pregevoli, si trasformano innanzitutto in simboli di imperativi sociali di consumo individuale. La cultura diviene, in qualche modo, simbolo dell’obbligo individuale a consumarla, ad appropriarsene. La cultura come simbolo di imperatività è la cornice di senso entro la quale si realizza, eventualmente, l’effettivo consumo del prodotto culturale in sé. D’altronde, anche a prescindere da ogni analisi, sarebbe sciocco credere che vi sia un rapporto puro, primitivo, romantico, tra il fruitore culturale e l’opera. Ogni fatto è un’interpretazione, anche la fruizione culturale. Nello specifico, possiamo pensare all’interpretazione dominante come una forma di “consumismo culturale”, perché il senso intrinseco contenuto nel rapporto tra fruitore ed opera si realizza senza resti nell’appropriazione dell’opera stessa; in tal senso, essa è consumata.
Ora, enucleate le precondizioni di senso che modellano, non viste, l’approccio “popolare” alla conoscenza, è possibile notare che si sovrappongono relativamente bene alla cultura accademica attuale. Ci si riferisce al funzionariato delle discipline umanistiche. La postura che viene adottata, e che dunque viene trasmessa agli studenti, è quella della conoscenza per la conoscenza. Vengono proposti, senza fare alcune distinzioni con l’eccezione di taluni recinti ideologici eretti spesso a sproposito, degli imperativi di consumo culturale, con una promessa che li potenzia e li rende perversi: che non vi possa esser fine al consumo di alcun prodotto culturale. La specializzazione eccessiva, malattia abbastanza evidente del sistema accademico, non rappresenta un’alternativa al superficialismo che, giustamente o meno, di certo intuitivamente, viene usato come accusa al mondo non-accademico. Se esistesse questa alterità, allora si potrebbe parlare di una differenza tra mondo accademico e mondo non-accademico, e avrebbe senso parlare di una “missione” accademica, con l’Accademia che esce da se stessa in nome di un’ortodossia, nei meriti della quale non ha senso entrare. L’approccio specialistico, l’approfondimento quasi vizioso di ogni traccia di “cultura”, è semplicemente la declinazione in forma sistematica e imprenditoriale della medesimo approccio del mondo non accademico. Imprenditoriale in quanto tende, con tutte le proprie forze, alla massimizzazione del consumo culturale, all’appropriazione senza resti dei prodotti consegnatici da un passato “più legittimo”. Ciò si esprime in due direzioni: nella produzione sterminata di letteratura secondaria, che si fonda sia sull’esegesi e commento senza fine di un opera e sulla produzione, più o meno appropriata, di collegamenti tra differenti autori[4], e nella trasmissione del medesimo imperativo totalizzante, della stessa cornice di senso, agli studenti. Studenti che, in realtà, sono perlopiù già socializzati in direzione di un consumismo culturale bulimico e fine a se stesso. Sia lo studente che il professore non immaginano neppure che possa esservi un orizzonte ulteriore rispetto al consumo dell’opera; al massimo il professore sprona in direzione della specializzazione estrema, aggiunta opzionale ma con la sua propria indipendenza riconosciuta. Studente e professore si incontrano a Teano, ma non viene impartito alcun ordine: c’è solo l’incontro. Per questo non c’è conflitto, se non in questioni di contorno, legate perlopiù alla carriera dello studente come singolo. Professore e studente condividono le precondizioni della loro ritualità, anche se in grado differente in termini di consapevolezza o di intensità. Oltre il consumo, niente.
Nessuna determinazione storica, sociale o culturale è scontata. Il presentismo è un’illusione, chi crede di non avere ideologia risiede in verità nella metafisica più rozza, parafrasando Dávila. La relatività di una determinazione rimanda, di necessità, ad una pluralità inespressa, presente implicitamente nel concetto di singolarità. L’unica cosa scontata è la possibilità di un’alternativa, che si manifesta nel disvelamento, o anche solo nel tentativo del disvelamento, delle cause che hanno modellato il presente per come esso è. Verosimilmente, nel caso che si è voluto analizzare, a forgiare il presente per come lo si vede è stata la fine della verità e il trionfo del postmoderno. Il nichilismo postmoderno, che è nichilismo passivo (quantomeno nella sua ricezione, lasciando stare le intenzioni), ha sottratto, negando la verità, l’orizzonte di ulteriorità che col suo solo esservi negava consumo della cultura come processo senza resti. La verità rappresentava, può rappresentare, quell’orizzonte trascendente rispetto al piano della conoscenza, che ricolloca il consumo culturale nell’ordine dei mezzi, ponendo invece se stessa come fine. Il mondo del trionfo dell’immanenza, trionfo omnipervasivo e che non riguarda solo la conoscenza, produce spontaneamente un approccio alla conoscenza disperso e bulimico, che a sua volta produce, anche per il concorso di altre ragioni storiche, un contesto accademico pacificato e pacificante. Sant’Agostino direbbe che la conoscenza, per com’è conformata adesso, è in verità curiositas. Agostino guardava come si guarda al peccato all’attitudine di disperdere le proprie energie intellettuali in un’orgiastica filodossia, nella titanica impresa da nani di sedere sul trono della tetra dimensione dell’archivio. Per il filosofo l’utilizzo della forza intellettuale poteva dirsi corretto solo se rivolto alla ricerca della verità, nella fattispecie delle verità religiose: in tal caso poteva darsi vera conoscenza. Al di là di ogni analisi, se sottraiamo all’equazione agostiniana la variabile della verità, l’ineluttabile risultato è il trionfo della curiositas. In ottica agostiniana, le Università odierne paiono quasi luoghi del peccato.
Non si vuole qui dare una definizione di “verità”, né si vuole scioccamente riempirla di contenuti, e nemmeno si vogliono formulare asserzioni a proposito della sua effettiva esistenza. La credenza, la fede nella verità, di qualunque tipo essa sia, è ciò che fa la differenza. L’istinto alla verità è il punto di cesura, quell’istinto nel quale Hegel credeva e che Dante celebrava scrivendo “Io veggio ben che già mai non si sazia/ nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra/ di fuor dal qual nessun vero si spazia./ Posasi in esso come fera in lustra,/ tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:/ se non, ciascun disio sarebbe frustra”[5]. Sarebbe interessante e opportuno aprire una parentesi del perché la nostra postmodernità non solo non creda alla verità, ma non si senta neppure frustrata da tale pensiero, come Dante avrebbe pronosticato. Che sia troppo lietamente sazia della propria immanenza? Che tale sazietà sia quantomeno attributo del funzionariato della conoscenza? Ai contemporanei l’ardua sentenza.
[1] Peterson e Kern, “changing highbrow taste: from snob to omnivore”
[2] Il saggio di riferimento è “Die Mode” del 1895
[3] A. Swidler, 1986
[4] Consigliamo la lettura di Nietzsche, “Per l’utilità e il danno della storia della vita”, che non è citato nel testo per non dare una torsione di parte a quella che vuole essere un’analisi tutto sommato neutrale, ma che è presente in alcune linee guida
[5] Dante, Paradiso, Canto IV
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