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La montagna e il topolino

Dunque, la storia è questa.
Nel 2016, a Pamplona, una donna di 18 anni viene violentata da cinque uomini.
Nel 2018 i giudici spagnoli condannano i cinque solo per abuso sessuale e non stupro di gruppo, con la motivazione che la giovane non s’era ribellata, restando con gli occhi chiusi, e nel video della violenza (che i cinque condividono su un gruppo whatsapp chiamato il ‘branco’) avrebbe mostrato una “innegabile espressione rilassata, senza mostra di rigidità o tensione del volto che impedisce di sostenere qualunque sentimento di timore, disgusto, ripugnanza, rifiuto, contrarietà, disagio”.
La ragazza, poi, non avrebbe mostrato eccessivo patimento nemmeno durante il processo.
Dopo la sentenza, si moltiplicano in Spagna manifestazioni di protesta al grido di ‘Sorella, io ti credo’.
Le suore carmelitane del convento di Hondarribia, nei Paesi Baschi, scrivono un post a sostegno della giovane, chiuso dallo stesso slogan.
Che viene ripreso di recente per le note vicende che vedono coinvolto il figlio di Beppe Grillo.
Simonetta Sciandivasci ci scrive un pezzo su ‘Il Foglio’, riprende la frase e scrive: “Sorella, io ti credo. E invece no. Qua ci sono un accusato e un’accusatrice, entrambi possibili vittime.
Se guardassimo questa vicenda senza ideologie lo vedremmo chiaramente.
Alle presunte vittime si dà ascolto, non ragione. Ai presunti colpevoli si dà un processo giusto”.
Il fumettista Gipi, dopo aver letto il pezzo, pubblica su instagram una vignetta che ha per protagonista un ‘Commissario Moderno’ presso il quale una donna, Marisa, denuncia una violenza subita da un certo ‘Andrea’; segue vignetta in cui il commissario, indignatissimo contro Andrea, spiega che il caso è semplice, perché Marisa è una donna e va sempre creduta.
Vignetta finale in cui l’Andrea che arriva in commissariato si scopre essere una donna, che denuncia a sua volta di essere stata picchiata da Marisa. Sipario.
Sia Sciandivasci sia Gipi si prendono commenti critici per quanto scritto e rispondono, in sostanza, che non sentono di aver scritto/disegnato niente di inopportuno o rivedibile. Francamente, non si sa dove cominciare.
Una giornalista, probabilmente ignara del contesto in cui è nato un certo slogan e della funzione sociale/politica che sta avendo, ritiene di poterlo trasferire senza colpo ferire alle dinamiche processuali, all’atteggiamento che potrebbe avere un giudice nei confronti di un imputato.
C’è bisogno di specificare che una cosa sono le battaglie politiche e la loro grammatica (questa, in particolare, nasce evidentemente per calcare l’attenzione sulle difficoltà – eufemismo – che incontrano le donne che vogliano denunciare uno stupro), un’altra il processo che si istruisce per accertare il reato?
C’è bisogno di specificare che fa da contraltare ai vari ‘se l’è cercato’, ‘ma in fondo le piaceva’ o simili?
C’è bisogno di precisare che, appunto, lo slogan è politico e che non equivale a dire ‘le donne che denunciano non mentono mai’ (cosa che evidentemente, per ogni singolo caso, può essere accertata processualmente o in fase di indagini), ma a portare l’attenzione sul fatto che sistemicamente il problema sia la violenza sulle donne e non le false denunce?
Poi, un fumettista pensa bene di crearci sopra una vignetta a suo dire giocata sul paradosso, e basta. Si può almeno dire che non è riuscita?
Anche qui: vale la pena far notare che se disegno una cosa così, pochi giorni dopo che un altro ci è venuto a dire di un tempo limite, brevissimo, oltre il quale una denuncia di stupro non è credibile, non posso nemmeno stupirmi quando qualcuno/a se ne sente toccato/a, né invocare la scarsa comprensione di chi legge. E, forse, dovrei anche un po’ dolermi di aver dato linfa a quelli che ‘non si può dire niente’, ‘cancel culture’, ‘ma allora mi devo vergognare perché sono maschio?’.
E così un altro giorno è passato in cui abbiamo preferito guardare il topolino, piuttosto che la montagna.
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