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Sulla Superlega e sull’avversione al rischio del capitalismo finanziario
Le ultime vicende calcistiche ci riportano un’immagine del capitalismo totalmente ribaltata rispetto alla narrativa liberale: il capitalista è stato disegnato, dai liberali, come un soggetto votato al rischio che con le sue azioni brillanti e spesso “folli” rompe gli schemi del mercato, guadagnandosi una posizione di vantaggio rispetto agli altri attori economici.
Il caso della Super Lega prova però che il comportamento sottostante la mentalità capitalista è l’esatto opposto, infatti le società si dimostrano così tanto avverse al rischio da spingersi fino a tentare di modificare le regole del gioco, in modo da mitigare il più possibile tutti quei fattori che possono modificare -in peggio- la loro condizione finanziaria.
È attraverso questa lente che si può leggere la volontà di creare una competizione sportiva che elimini alla radice la possibilità di non qualificarsi. In questo modo gli incassi dei diritti televisivi e del merchandising non sarebbero in parte più soggetti al “rischio” sportivo. Ogni partecipante alla Super Lega si sarebbe garantito un “plateau” finanziario annuale, a prescindere dalla prestazione in campo, consentendogli di conseguenza una programmazione stabile degli investimenti nel breve-medio periodo.
In buona sostanza i club volevano trasformare parte dei loro incassi da utile d’impresa a rendita di posizione, garantita solo dal blasone e dal numero di tifosi nel mondo.
Effettivamente queste super squadre di calcio sono delle vere e proprie industrie dell’intrattenimento, di conseguenza legare gran parte della loro stabilità finanziaria sul risultato sportivo pone seri problemi alla sostenibilità degli investimenti, rendendo per cui difficoltoso il servizio del debito.
Ogni attore economico sottostà ad un primordiale spirito di preservazione che lo porta ad evitare con ogni mezzo le incertezze (del resto non può essere altrimenti) tant’è che in questo contesto non è tanto da biasimare il maldestro tentativo della “sporca dozzina” (questo è il nome utilizzato dai tabloid inglesi per identificare i club scissionisti) di uscire dall’incertezza sportiva, ma è sicuramente degno di biasimo il comportamento dei media mainstream e della narrativa liberale che ha descritto il mondo imprenditoriale e capitalistico in modo totalmente inaderente rispetto alla realtà.
Considerare il caso della Super Lega come un caso isolato può essere fuorviante, leggendo fra le pieghe del nuovo assetto della Champions League ritroviamo meccanismi di tutela per i top club simili a quelli della Super Lega, un esempio fra tutti: due delle 36 squadre che saranno invitate a partecipare alla nuova Champions League saranno scelte fra quelle non classificate in posizione utile nei rispettivi campionati ma che hanno il coefficiente UEFA più alto fra le squadre escluse.
Inoltre, con 36 squadre classificate sarà quasi impossibile che le 12 scissioniste della Super Lega non trovino ogni anno un loro spazio nella competizione e di conseguenza anche un introito stabile annuale.
Uscendo dalla metafora calcistica e spingendosi oltre nell’analisi, potremmo aggiungere che il capitalismo finanziario, giunto al suo ultimo e claudicante stadio (diminuzione dei profitti e fragilità finanziaria) non può più essere un attore di reale cambiamento ma piuttosto diventa un freno al progresso.
Ogni società leader del suo settore, che sia esso il calcio o altro, sarà sempre portata ad attuare comportamenti “conservativi” e avversi al cambiamento, cercando di bloccare sul nascere qualsiasi innovazione nel suo settore di riferimento, perché ogni cambiamento che sfugge al suo controllo può determinare una perdita del volume d’affari che, in casi di alto indebitamento, può portare alla bancarotta e alla definitiva uscita dal mercato.
Per le ragioni di cui sopra lasciare il progresso alle sole dinamiche di mercato private rischia di essere estremamente controproducente ed è proprio per questi motivi che i programmi economici (specialmente dei paesi anglosassoni) sono in questo periodo post-pandemico profondamente votati all’intervento pubblico nei campi dell’energia, dell’innovazione e della ricerca. Fino a qualche anno fa immaginare lo stato intervenire nell’economia era considerata un’eresia, tant’è che nell’Unione Europea l’intervento pubblico è vietato (o comunque pesantemente limitato) per legge, di conseguenza questo pone la nostra area economica in completa antitesi rispetto all’evoluzione politica che si registra nel resto dei paesi sviluppati anglosassoni. Sarà un caso che lo stop alla Super Lega sia venuto proprio dal Regno Unito? Io non credo.
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