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Istituzioni (sanitarie) in terapia
Iniziamo dalla provocazione di Marco Guzzi, nel suo libro La nuova umanità:
“Il modello di prosecuzione purificativa che vorrei proporre (…) è simile all’itinerario terapeutico che può intraprendere una persona giunta a una fase al contempo culminante e insostenibile della sua vita. Immaginiamo un uomo di quaranta-quarantacinque anni che abbia ormai raggiunto gli scopi principali che si era prefissato: ha fatto una buona carriera, ha avuto successo e denaro, e si sente perciò in qualche modo arrivato: ma incomincia anche a rendersi conto di aver trascurato, nella sua corsa, molti aspetti fondamentali della sua esistenza: la sua famiglia fa acqua da tutte le parti (…), lui stesso è ormai costretto a prendere antidepressivi e ansiolitici per andare avanti.
Ecco, non è questo un quadro abbastanza realistico dello stato in cui si trova la nostra società occidentale contemporanea, trionfante e depressa, vincente e moribonda al contempo?”
“L’insostenibilità (nel corpo e nel cosmo) è dunque ormai veramente globale, ed è solo la cecità folle dell’ego fisso ai propri calcoli di profitto, tutti sbagliati tra l’altro, che ne nasconde la gravità e rimanda a tempo indeterminato l’avvio di un processo di cura e di revisione indilazionabili.”
Queste parole portano con sé più di una provocazione e vorrei provare a prenderle sul serio, lasciando parlare un’istituzione fondamentale del nostro paese: il Servizio Sanitario Nazionale.
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Il mio nome è Servizio Sanitario, SSN per gli amici.
Da tempo ormai mi sento a disagio, in certi momenti poi il malessere si fa davvero insopportabile. Un turbine mi ribolle dentro, come se fossi strattonato in direzioni diverse. Le mie relazioni sono piuttosto in crisi, problemi di comunicazione, non mi sento capito, tutti ce l’hanno con me.
In questo tormento quotidiano, ho iniziato a cercare una via terapeutica che mi aiutasse a comprendere più a fondo che cosa mi stia succedendo. Ho così intrapreso un cammino di autoconoscimento per portare a galla le dinamiche che mi stanno sovvertendo la vita. Provo qui a farne una condivisione.
Adesso vedo più chiaramente i miei meccanismi di difesa.
Mi irrigidisco, mi trincero dietro le procedure, i protocolli, le autorizzazioni. Ho bisogno di sentirmi al sicuro, ma distorco il bisogno nella rigidità.
Sto capendo che occorre lasciare andare, essere flessibile, adeguarsi alle situazioni specifiche senza paura. Già, la paura…
Ho paura che mi attacchino, che mi accusino; ho il terrore che mi trovino in contrasto con la legge, in flagranza di reato. Così mi impegno forsennatamente nel definire altre regole, nello stendere altre procedure, nel richiedere il rispetto scrupoloso delle gerarchie avendo sui moduli tutte le firme, a cascata dai vertici ai responsabili di strutture semplici.
Tutto deve essere sotto controllo, nulla può sfuggire a questa rete di vincoli.
Tutto deve essere in ordine, archiviato, tutto conservato. Tutto congelato, direbbe il mio terapeuta.
Le relazioni così diventano anch’esse rigide, fredde, formali. Un passaggio di carte, di cartelle, pochi sguardi anonimi.
– Se cedessi un po’ sul controllo, che cosa potrebbe succedere?
Mi sento soffocare, sento l’angoscia che sale in gola, mi si chiude il respiro e il cuore batte forte. Non ce la faccio, non posso…
– Cosa potrebbe succedere?
Sarebbe il deragliamento del sistema. Il personale farebbe di testa sua, ognuno si comporterebbe a suo piacimento, sarebbe il caos. Gli utenti si lamenterebbero, farebbero partire denunce a tutto andare.
– Ma non è già la situazione che stai vivendo adesso?
Sì, per questo devo tirare ancora più le redini. Devo controllare di più.
– E se fosse vero il contrario? Se proprio lasciando andare trovassi ciò che stai cercando?
Potrei lasciare andare se avessi più fiducia nelle persone che lavorano per me. Se avessi più fiducia negli utenti che si rivolgono a me. Se mi fidassi di più degli enti locali con cui collaboro, o delle associazioni con cui ho convenzioni.
– Ecco, vedi, qui sta emergendo un punto fondamentale: la fiducia, che poi è una forma di abbandono.
Se mi ascolto con attenzione, sento che anche io ho voglia che le persone abbiano fiducia in me. Invece in genere anche loro assumono atteggiamenti di difesa, temono che da me possa venire loro del male o del danno.
È un lavoro lungo e faticoso quello di ricostruire la fiducia persa.
– Cosa potresti fare al riguardo?
Lasciare che gli operatori sanitari si possano esprimere nella creatività dell’impegno personale e di équipe.
– Questo vuol dire riconoscerli innanzitutto come esseri umani, prima che come operatori sanitari.
Potrei promuovere una formazione che sia per l’essere umano prima che per il professionista, prima spirituale che disciplinare e tecnica.
Prestare molta attenzione alle motivazioni di ciascun operatore, riconoscendone i talenti e valorizzandoli, chiedendo ad ognuno quale ruolo desidererebbe ricoprire e come lo interpreterebbe.
Semplificare la gerarchia e favorire il lavoro in gruppi a multicompetenza.
Lasciare poi che le regole siano cornici dentro cui ci si possa muovere liberamente per adattare le procedure alle situazioni caso per caso.
Organizzare una sanità che sappia incontrare le persone che stanno male nel loro ambiente di vita, lasciando l’ambulatorio, e a maggior ragione l’ospedale, come ultima risorsa da mettere in campo.
Attivare le potenzialità del prendersi cura di sé e dei propri cari, prima di pensare alle prescrizioni, somministrando con parsimonia e cautela ogni presidio terapeutico.
Cercare la collaborazione delle risorse sociali di territorio come le associazioni di volontariato, ma anche supportando le reti informali senza aver paura che non ci si possa appellare ad uno statuto.
– Vedi, nella calma della meditazione, se lasci sgorgare ciò che veramente ti anima nel profondo, puoi trovare un’identità più morbida, più relazionale, che ti dia più soddisfazione e incontri veramente l’esigenza di cura delle persone.
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